Per Umberto Eco

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In questi giorni tutti i giornali tutti gli intellettuali e molti scrivani di vario genere commemoreranno la figura di Eco

ai piccoli scrivani, come il sottoscritto, non spetta certo fare il bilancio né dell’opera letteraria né dell’opera scientifica (semiotica) né del valore politico di entrambe nella sterminata attività di Umberto Eco

credo dunque che la cosa più saggia sia raccontare che cosa ha significato per me e che cosa mi ha dato Umberto Eco in un arco di tempo di 40 anni: da quando lo conobbi sui banchi dell’università, intorno al 1974-75, fino ad oggi, nel momento della scomparsa fisica (lo spirito resta)

negli anni ’70 Eco aveva già prodotto alcuni libri fondamentali, il Trattato di semiotica generale apparso nel 1975 lo consacrava principe della disciplina (almeno in terra italica); fu in quell’anno credo che frequentai un suo seminario a Bologna

era evidente che Eco era pieno di cultura e di erudizione, frizzante e spiritoso, ma subito mi urtò quel modo un po’ nonchalant di fare lezione: il suo continuo divagare da un tema all’altro, una particolare forma di leggerezza che sembrava tradire improvvisazione (se paragonata con il rigore un po’ pedante di altri docenti da me amati), insomma lo stimai, ma nel contempo lo catalogai: docente superimpegnato e famoso che ha poco tempo per gli studenti e per preparare le lezioni

questo stile ovviamente lo avrei riscoperto nelle classiche bustine di Minerva: i suoi vivaci e gustosi articoli di una paginetta pubblicati sull’Espresso ritrovati poi – una volta approdato io nel 1981 in terra germanica – in Die Zeit: a poco a poco cominciai ad amarlo

nel 1986 scoprii una sua definizione dell’ironia che mi sembrava semplice e geniale: „Manche glauben, Ironie bestehe darin, bewußt das Gegenteil dessen zu sagen, was der Fall ist. Tatsächlich besteht sie darin, das Gegenteil dessen zu sagen, was ich glaube, daß es der Fall sei, und was der Adressat meiner Ironie glaubt, daß es der Fall sei, auf Kosten eines Opfers, das nicht glaubt, was wir glauben.“ (Die Zeit , Nr. 41, 5.12.1986); quando – 5 anni dopo – mi ritrovai a collaborare, nel 1991, con il principe assai meno noto della semiotica germanica, Roland Posner, avrei apprezzato in lui e con Eco proprio questo genere di rompicapi; capii dunque che i semplici articoletti… divulgativi che Eco scriveva sulla stampa, erano una forma di complessità ad uso di un pubblico non specializzato ma colto, ed erano una sfida intellettuale formidabile

quando apparve il suo primo romanzo, Il nome della rosa, nel 1980, lo lessi con passione, ma lo trovai un po’ meno straordinario di quanto vari ammiratori lo facevano; questa opinione nel suo fondo l’ho conservata: Eco non era un geniale letterato, era piuttosto un Universalgelehrter e il romanzo, prima che letteratura, era una possibilità in più per dare sfogo al suo irrefrenabile bisogno di pensare analizzare riflettere commentare e, non dimentichiamolo: agire politicamente

nel 2006 mi trovavo ad un convegno scientifico a Bielefeld, là conobbi un informatico pure lui entusiasta di Eco, ricordo che gli dissi: ecco, è come se Eco avesse scritto i suoi libri scientifici per spiegare i suoi aforismi (le bustine di Minerva) – e non viceversa

insomma, per capire le bustine di Minerva occorre saperne tante e se io le avevo inizialmente sottovalutate credo dipendesse da questo: non ero abbastanza colto per poterle leggere

nel 2004, in una delle sue „bustine“, lessi una specie di recensione del libro di Peter Hopkirk (1990), Il Grande Gioco; era una recensione favolosa piena di incredibili citazioni come la seguente: „si scopre che monarchi e sultanetti […] erano impegnati in un gioco talora mortale con Inghilterra e Russia ma di queste nazioni avevano nozioni vaghissime […] tanto che uno di questi reucci domanda orgogliosamente un giorno all’inviato inglese se la regina Vittoria possiede venti cannoni come lui“

subito decisi di comprare il libro e vorace ne lessi le oltre 600 pagine; arrivato in fondo mi dissi: beh certo, carino, ma tutti i passaggi migliori si trovavano già citati nella recensione di Eco; fu allora che appresi come leggere un libro significhi ridurlo a un paio di citazioni fondamentali e facilmente memorizzabili – provate a rifletterci: 600 pagine condensate con perfetto equilibrio e scelta in una paginetta, un’impresa ciclopica!

nel 2010 decisi di rileggere Il nome della rosa, forse – mi dissi – l’ho sottovalutato a torto;

ancora una volta Eco mi sorprese e mi beffò: un libro certo piacevole e interessante, che credevo di aver capito a fondo, mi rivelava nuove sfaccettature, era la dimostrazione di quanto aveva scritto Eco in anni giovanili: l’opera riuscita è un’opera aperta, la puoi rileggere cento volte e scoprirai sempre qualcosa di nuovo

che cosa avevo scoperto?

in un saggio del 1983 Eco reinterpreta in chiave semiotica (teoria dei segni e degli indizi) un celebre passo dello Zadig di Voltaire qua citato:

“Giovanotto,” gli disse il primo eunuco, “non avete per caso visto il cane della regina?”
Zadig modestamente rispose:
“Si tratta di una cagna e non di un cane.”
“Avete ragione,” ammise il primo eunuco.
“È una cagnetta spagnuola,” aggiunse Zadig, “ha partorito da poco, zoppica con la zampa sinistra anteriore ed ha le orecchie molto lunghe.”
“L’avete dunque vista,” disse trafelato il primo eunuco.
“No,” rispose Zadig, “non l’ho mai vista, e non ho mai saputo che la regina avesse una cagna.”

implacabile come un freddo computer, una sorta di Hal 9000, Zadig leggendo i segni e le tracce del mondo ricostruisce infallibilmente a partire da essi il reale, l’esistente, senza neppure doverlo conoscere

Eco aveva già utilizzato qualche anno prima la storia di Voltaire riadattandola al suo protagonista; ma diverso è l’atteggiamento di Guglielmo il quale – con ben altra passione e nella consapevolezza del rischio – spiega come ha potuto riconoscere il cavallo Brunello a partire da vari segni sparsi, però – a differenza di Zadig – ammette che nulla garantiva di azzeccarci

Io non sapevo quale fosse l’ipotesi giusta sino a che non vidi il cellario e i servi che cercavano con ansia. E allora capii che l’ipotesi di Brunello era la sola buona, e cercai di provare se fosse vera, apostrofando i monaci come feci. Vinsi, ma avrei anche potuto perdere. […] mi hanno creduto saggio perché ho vinto, ma non conoscevano i molti casi in cui sono stato stolto perché ho perso […] (308)

ma il discorso prosegue e diventa un apologo del razionalismo fallibilista (alla Popper) contrapposto al fanatismo di chi crede in una sola definitiva verità:

“Ma allora,” ardii commentare, “siete ancora lontano dalla soluzione…”
“Ci sono vicinissimo,” disse Guglielmo, “ma non so a quale.”
[…] “E voi,” dissi con infantile impertinenza, “non commettete mai errori?”
“Spesso,” rispose. “Ma invece di concepirne uno solo ne immagino molti, così non divento schiavo di nessuno.”
[…] Egli […] si divertiva a immaginare quanti più possibili fosse possibile.
(308-309)

chi è insomma questo Guglielmo indagatore e detective, protagonista assoluto di un Umberto Eco che si è appena scoperto scrittore?
Guglielmo è, realisticamente nel romanzo, un monaco con le sue convinzioni da monaco ed è, in maniera un po’ surreale e fantascientifica, al di sopra del suo tempo e dei limiti del tempo; Guglielmo è – credo – Eco stesso, che cerca di capire il presente: gli anni ’70 in Italia, un’epoca di lotte sociali e di radicalismi che sfociano nel terrorismo

in generale Guglielmo è l’uomo della moderazione, ma il dilemma centrale – forse in omaggio allo spirito del tempo in cui viveva il suo autore – lo si trova nelle molte pagine dedicate agli eretici; dunque: chi sono gli eretici, da un lato, e i rinnovatori all’interno dell’ortodossia come i francescani, come Guglielmo, dall’altro?

nel ritratto del saggio Ubertino Eco, pardon Guglielmo, suggerisce un’interpretazione formidabile, che è anche un trattato di Realpolitik in poche righe:

“È, o è stato [Ubertino], per molti aspetti, un grande uomo. Ma proprio per questo è strano. Sono solo gli uomini piccoli che sembrano normali. Ubertino avrebbe potuto diventare uno degli eretici che ha contribuito a fare bruciare, o un cardinale di santa romana chiesa. È andato vicinissimo a entrambe le perversioni. Quando parlo con Ubertino ho l’impressione che l’inferno sia il paradiso guardato dall’altra parte.” (73)

Eco è l’uomo dal fine e affascinante intelletto, ma è stato per me – sempre più fortemente con il passare degli anni – il pensatore politico che ha saputo guarirmi dal mio infantile estremismo e nel contempo preservarmi dal moderatismo senile, incline al compromesso e al quieto vivere – le sue polemiche contro il fondamentalismo, anche di sinistra, non rappresentano l’abbandono di posizioni ideali e di principî irrinunciabili, ma sono forse la prova di un estremismo equilibrato (che ossimoro!) sempre pronto ad accapigliarsi con pacata arguzia con tutte le forme di semplificazione del mondo nel nome della ricerca permanente:

Quindici giorni fa ho protestato contro un invito al boicottaggio delle istituzioni accademiche e degli intellettuali israeliani, firmato anche dal mio amico Gianni Vattimo. […] Insomma, Amos Oz non lo vogliono a Mea Shearim (il quartiere dei fondamentalisti di Gerusalemme) e non lo vogliono a Torino […]. Dove deve andare questo ebreo errante?
(bustina di Minerva del 3.6.2010)

Pericle era un figlio di buona donna – ha scritto Eco in un saggio ripreso da Repubblica (14.1.2012) – e allora subito mi chiesi: ma come! Pericle il mito della democrazia greca?

Eco spiega che un celebre discorso di Pericle è in realtà il discorso di un guerrafondaio; incerto se prestare fede a Eco andai a leggermi la biografia di Will che conoscevo come lo storico che aveva dato un brillante ritratto „di sinistra“ delle plebi e del mob romani
scoprii allora che la figura di Pericle è avvolta nelle nebbie del passato; pochissimi sono i dati certi sulla sua vita e le sue opinioni; uno di questi è la legge sulla cittadinanza: Pericle fece una legge che riconosceva la cittadinanza ateniese soltanto a coloro i cui genitori fossero entrambi cittadini ateniesi – insomma un Pericle che mostra preoccupanti affinità con le ali destre dei partiti governativi di sempre

ancora una volta Eco aveva riassunto in una frase – „figlio di buona donna“ – un giudizio politico fondato, che colpiva nel segno, anche al di là di quanto da lui scritto

ma il merito principale di Eco fu quello di avermi costretto a leggere una biografia di Pericle così come 8 anni prima mi aveva costretto a leggere le 600 pagine del Grande gioco poi a rileggere il suo primo romanzo e infine il romanzo autobiografico di Amos Oz, Eine Geschichte von Liebe und Finsternis; qui l’amico di Amos Oz, Efraim Avnery, ribatte all’ancor giovane scrittore che aveva appena definito „assassini“ i palestinesi contro i quali lui e l’amico stanno combattendo

Wen wundert es, daß sie gegen uns die Waffen erhoben haben? Und jetzt, nachdem wir sie besiegt haben und Hunderttausende von ihnen in Flüchtlingslagern leben – was denn, erwartest du etwa von ihnen, daß sie sich mit uns freuen und uns alles Gute wünschen?

se nel 2012 mi trovavo a leggere, a stupirmi, a imprecare su un mondo che costringeva la razionalità e l’intelligenza a fare simili irrefutabili constatazioni, lo dovevo anche a Umberto Eco

la sua lezione: non basta leggere una fulminante bustina di Minerva o un agile saggio per capire il mondo, occorre leggere molto molto di più e alla fine forse si potrà capire davvero la bustina di Minerva, si potrà capire qualcosa del mondo e magari, come Eco ha cercato di fare per una vita con la sua opera di erudito e scettico indagatore, si potrà tentare di cambiarlo – il mondo
in meglio
almeno un poco

Massimo Serenari

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