Il dilemma della spesa pubblica

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Di Pierantonio Rumignanani, PD Berlino e Brandeburgo

Ogni stato si trova oggi di fronte a impegni finanziari fortemente crescenti. Alla necessità di dare impulso a processi radicali di digitalizzazione e di conversione ecologica ed energetica, cui l’iniziativa privata non può fare fronte da sola mancandole sufficienti risorse e incentivi economici, si accompagna anche l’urgenza di provvedere al rinvigorimento dei negletti servizi pubblici, dalla sanità all’istruzione e alle infrastrutture ivi inclusa, in particolare nel nostro paese, la stessa macchina dello stato. Si aggiungono ora anche accresciuti impegni militari dopo anni di quiete resa possibile da quello che è stato definito il “dividendo della pace”. Si tratta di una tempesta perfetta e preannunciata da tempo ove quasi ogni misura da prendere si presenta con urgenza, in cima a tutte l’impendente disastro ecologico come ci viene ricordato del monito continuo  di vicende ambientali.

Ora si vendica il rifiuto di affrontare per tempo e in modo organico il sistema fiscale e di spesa dello stato avendo optato per un ben più modesto perseguimento di politiche finanziarie mirate principalmente al rispetto di vincoli finanziari a dispetto di bisogni crescenti. A complicare le cose e a restringere la flessibilità dell’azione di governo sono intervenute, in particolare a partire dalla crisi finanziaria del 2008, una riduzione della crescita economica e della dinamica della produttività. Per l’Italia le cose si sono fatte particolarmente complicate a causa di specifici fattori penalizzanti quali i livelli elevati dell’indebitamento pubblico e della tassazione nel confronto con altri paesi.

Davanti alla prospettiva per lo stato di dovere fare fronte a un eccezionale aumento della spesa operando contemporaneamente un sensibile mutamento della sua composizione i partiti – così anche in Italia – hanno reagito spaziando fondamentalmente da una negazione più o meno conclamata della realtà a una sua accettazione reticente e selettiva di fronte agli elettori per tacito timore di conseguenze negative nei sondaggi, come se le elezioni fossero domani, e concentrandosi sul soddisfacimento degli interessi di chi è considerato parte dei propri sostenitori naturali.

La considerazione centrale va allo stato di crisi della visione conservatrice dell’economia che ha dominato negli ultimi decenni secondo la quale le soluzioni, qualunque esse siano, devono continuare a venire da meccanismi definiti “liberi” del mercato anche quando questo si dimostra in forte difficoltà a fornire rimedi se non sostenuti da una forte azione pubblica imposta da situazioni di eccezione. Abbiamo quindi il caso dei cristiano-democratici tedeschi, ad esempio, che in nome di un’ortodossia fatta sovente di mere parole d’ordine, predicano la finanziabilità delle politiche ecologiche ed energetiche così come la neutralità del sostegno pubblico nei confronti delle varie tecnologie in competizione tra loro ritrovandosi in piena contraddizione con l’esigenza di un intervento pubblico necessariamente selettivo a favore delle soluzioni più promettenti in presenza di risorse e tempo limitati. L’ambiguo criterio della finanziabilità (ma quale politico dirà mai che si debba raccomandare una politica non finanziabile?) mostra il proprio colore nel momento in cui si ubbidisce contemporaneamente, per coazione a ripetere dettata da interessi che si intende favorire, al mantra di una riduzione del livello impositivo o, nel modo assoluto di chi difende il Piave, il rifiuto di ogni possibile aumento della tassazione, anche parziale. Il risultato di tale impostazione non può che essere la limitazione della spesa pubblica secondo criteri che vedono investimenti e spesa sociale perdenti rendendo strutturalmente insufficiente l’intervento dello stato – a detrimento del sistema intero e della stessa economia privata. Questa posizione parzialmente “negazionista” trova espressione in frasi improbabili che si possono leggere nel sito della CDU in merito alla politica ambientale come: “Siamo pur sempre sulla buona strada” o “Non è che il mondo scomparirà domani” – parole di Friedrich Merz, segretario del partito.

L’attuale insuccesso di conservatori tradizionali presso gli elettori in tutta Europa, che li spinge fino a mettersi al traino della destra radicale come in Italia, spiega perché la versione non edulcorata del negazionismo in materia ambientale e sociale possa avere il vento in poppa. Il suo successo attuale, frutto della sfiducia nei confronti dei partiti tradizionali soprattutto da parte di chi teme di perdere l’acquisito e che vede un nemico nell’immigrato e nello “scansafatiche” aiutato dallo stato, non può essere apportatrice di soluzioni poiché si basa sul misconoscimento e travisamento della realtà. Tali partiti non possono che promettere polarizzazione e conflitto sociale. 

Il terzo fronte, quello dei “progressisti”, dovrebbe trovarsi in una situazione favorevole perché più aperto al cambiamento e più cosciente dei problemi relativi all’ambiente e alla società. Ma non riesce nella realtà quotidiana a trarne vantaggio. Molteplici sono le ragioni, tra cui si trova anche quella che vede più difficile il raggiungimento di un consenso su un programma politico comune tra convinzioni politiche diverse rispetto alla tipica operazione di ripartizione di potere tipica della destra conservatrice a protezione di interessi determinati. Ma la forte concorrenzialità tradizionale tra i partiti della sinistra e la spinta sempre presente verso posizioni di coerenza che limita la capacità di compromesso non sono che parte della spiegazione.

Evitando di entrare nei dettagli delle vicende storiche della sinistra nei vari paesi europei e trascurando l’aspetto importante della discriminante tra riformatori e radicali salta all’occhio la difficoltà della sinistra attuale ad affrontare la situazione di crisi incipiente della società occidentale con una risposta coerente che copra l’obiettiva complessità dei problemi dalle questioni sociali a quelle dell’ambiente e dell’economia collegandole in modo organico – in contrasto con l’ambizione che fu propria fra gli altri persino di un partico come il PCI. A fronte dell’accentuato scetticismo dell’elettore che in assenza di una visione globale si rivela restío a dare fiducia, in questo influenzato anche dall’onda della disinformazione e, presso molti, dalla tentazione di trovare soluzioni semplici e muscolari, la reazione di riflesso è spesso quella del rifugio in schemi rintracciabili nel passato per quanto, come in Italia, in una versione moderna di matrice “liberal” anglosassone. Questo è il quadro in cui si muove infatti l’attuale gestione del PD ove è palese il tentativo della riduzione delle tematiche a punti nodali (diritti, lavoro, ambiente) nell’attesa di trovare maggioranze, anche di coalizione di cui si aspira la leadership, in un modo puntuale su temi specifici. Se questo approccio sarà capace di ristabilire la maggiore fiducia da parte degli elettori di cui ha goduto il partito in anni ormai passati è un quesito che non trova ancora risposta. Considerevole è però qui il rischio di esaurirsi in un gioco di rivendicazioni per quanto singolarmente giustificate. La stessa scelta della segmentazione selettiva degli interventi può anche ingenerare l’impressione presso gli elettori di una “vendita ottimistica” e quindi poco credibile del tema ambientale come se esso potesse essere visto prevalentemente come occasione e non come un problema spinoso le cui soluzioni si pongono non di rado in contrasto con esigenze e aspirazioni sociali.

Che l’alternativa possa difficilmente essere rappresentata nel campo progressivo da riedizioni del blairismo all’interno della sinistra, inclusa quella italiana, sta il fatto che esso ha sostanzialmente rappresentato un adeguamento alla vittoria del neoliberismo di stampo thatcheriano e reaganiano degli anni ottanta con l’inserimento di paletti nel campo del sociale. Per le ragioni esposte sopra anche una riedizione del blairismo soffrirebbe forzatamente delle stesse criticità del neoliberismo. Dovesse il leader laburista Keith Starmer, vincere come si prevede al momento le prossime elezioni nel Regno Unito, si troverà di fronte a questa complicazione.

È opinione dello scrivente che i democratici americani mostrino in linea di principio quale sia la direzione da seguire sebbene abbiano finora solo potuto attaccare, per motivi di aritmetica parlamentare, il tema delle uscite dello stato e non quello delle entrate. Il tema fiscale è un capitolo al momento incompiuto – ma rimane passaggio obbligato così come lo è per tutti i paesi avanzati dell’occidente rivedendo le politiche di alleggerimento delle imposte perseguite nel passato a particolare vantaggio dei ceti ricchi.  

PAR – 23.07.2023