PD: è l’ora di un programma, i manifesti sono una sua anticamera

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Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Immagine: Enrico de Nicola appone la firma alla nuova Costituzione italiana – 27.12.1947

“Dobbiamo avere la coscienza dell’unica forza di cui disponiamo: della nostra infrangibile unione. Con essa potremo superare le gigantesche difficoltà che s’ergono dinnanzi a noi; senza di essa precipiteremo nell’abisso per non risollevarci mai più.” Discorso di insediamento a Capo provvisorio dello Stato italiano – 15.07.1946

Una settimana fa circa il PD ha presentato il suo nuovo Manifesto dei valori. Molti si sono chiesti se questo sia quello di cui il partito ha principalmente bisogno in questo momento. La risposta è ni.

Se si considera che il precedente Manifesto dei valori era ancora quello del 2008 allorché si fondò il partito, appare logico procedere almeno a un inventario e a una riscrittura là dove essa viene imposta dai nuovi tempi dopo che molto è passato sotto i ponti. Se si tiene inoltre anche conto del fatto che la scrittura del precedente Manifesto era stata tenuta particolarmente alta delegando la specificazione di obiettivi concreti a “piattaforme politico-programmatiche che affinino il chi siamo come conseguenza del cosa vogliamo” e che tale intenzione è stata fondamentalmente disattesa in tutti questi anni non può essere errato procedere a una nuova stesura. Ciò non vuol dire tuttavia che non sarebbe stato preferibile invertire l’ordine delle azioni: prima l’urgente sostituzione della dirigenza dopo la sconfitta elettorale e poi la riformulazione di manifesti e programmi promossi da una nuova segreteria. Non appare logico assegnare la gestione di un tale esercizio a chi è in uscita quando dovrebbe rappresentare il marchio del nuovo sulla base di una discussione che coinvolga tutto il partito.

Per alcuni, tuttavia, l’esercizio indirizzato a una “rifondazione” deve apparentemente avere come fine, anche attraverso l’eterna ricerca di una cosiddetta identità che è sfuggente perché soggetta al lavorio del tempo, il ristabilimento di antichi valori che sembrano persi e che si attribuiscono soprattutto a una delle tre anime che dettero originariamente vita al PD. Ci si rifà allora, tra l’altro, all’art. 1 della Costituzione dimenticando, diversamente da altri, che la sua formulazione nel punto rilevante fu il risultato di un compromesso proposto da Amintore Fanfani, un democristiano. Basso e Amendola proponevano invece che la Repubblica fosse quella “democratica dei lavoratori”, i quali, dati i tempi di allora, non si intendevano fondamentalmente includere gli indipendenti, che ben rientrano nelle statistiche ILO comprendendo anche gli imprenditori quali occupati di sé stessi. Ruini, Presidente della Commissione dei 75, disse infatti nella sua Relazione finale che lavoro è il “lavoro di tutti, non solo manuale ma in ogni sua espressione umana”. Se la redazione del nuovo Manifesto avesse dovuto tradursi, come non mi sembra sia avvenuto, in una ricerca volta al passato, essa non sarebbe stata produttiva politicamente se non nel riaffermare principi. Non può quindi essere questo quello di cui il partito ha più bisogno, pena inoltre una sua ulteriore riduzione numerica, ma la ricerca di una migliore e chiara definizione della sua collocazione politica concreta guardando in avanti verso il futuro, ovvero un programma.

Non avendo lo spazio per un confronto dettagliato tra i due Manifesti e premettendo che non risulta facile ai non addetti spiegare il perché della mancata conferma della funzione del partito stabilita alla sua fondazione quale punto di incontro dei progressisti indipendentemente dalla loro origine ideologica, si possono richiamare brevemente i punti di novità lasciando da parte senza negarne l’importanza tutti gli altri temi che sono sostanzialmente riconfermati sotto altra formulazione rispetto al testo precedente.

A parte lo stile molto differente, occorre segnalare una minore distanza dalle tematiche concrete senza che si entri peraltro nei particolari di un futuro programma che rimane da affrontare. Siamo appunto ancora in un ambito ideale dei “valori” – che è poi più semplice di quello programmatico perché non obbliga a occuparsi dei contrasti potenziali fra i vari obiettivi che la realtà immancabilmente evidenzia costringendo non solo a priorizzazioni ma anche a loro revisioni. Per tale motivo Annunziata parlava in “Mezzora in più” del 22 gennaio, con una certa provocazione, di un documento non molto utile alle necessità immediate del PD perché insieme di affermazioni di principio.

Nuova, in particolare, è l’assegnazione nel campo dell’economia di un compito più attivo allo Stato, accompagnando il ruolo di regolatore (precedentemente: “Compito dello Stato non è interferire nelle attività economiche ma fissare le regole per il buon funzionamento del mercato, per mantenere la concorrenza anche con politiche di liberalizzazione e per creare condizioni di contesto e di convenienza utili a promuovere innovazione e qualità”) con un “ruolo strategico … che, nel rispetto delle dinamiche di autonomia, concorrenza e innovazione delle imprese nel mercato, può assumere le forme e gli strumenti di volta in volta più utili a garantire che l’economia e i processi di innovazione, anche sociale, siano indirizzati a un benessere condiviso.” Sulle possibili forme e strumenti dell’intervento di uno Stato ora anche “innovatore” si tace però – definizione questa che sarà da affrontare nell’ambito di un piano programmatico.

Si chiama inoltre alla conclusione di un “patto sociale” ponendo inoltre su un piano comune, data la crescente urgenza dei problemi ambientali, “giustizia climatica e giustizia sociale da realizzare simultaneamente” in ciò vedendo forse in modo involontariamante restrittivo la crescita di economia e imprese nella sola ottica di una funzione ecologica e sociale.

Altro tema affrontato in modo, se non nuovo, più esplicito è quello dell’evoluzione dell’UE verso una struttura ora definita dichiaratamente federale attraverso l’accelerazione del suo processo integrativo, senza peraltro accennare al come, propugnando inoltre un piano di difesa militare comune, anch’esso punto di novità rispetto al testo precedente.

Riconoscendo un maggiore realismo e attualità del nuovo Manifesto rispetto al precedente (detto al negativo: minore astrattezza) ma rammentando anche che le passate sconfitte del PD sono state fondamentalmente dovute a una mancanza di chiarezza sui programmi e non sui valori dichiarati è giunta l’ora di un maggiore impegno nel senso anglosassone di uno stretto “commitment” passando a una definizione di punti concreti per futuri programmi di governo.

In attesa della pubblicazione dei programmi dei quattro candidati alla Segreteria nazionale che spero riducano ulteriormente la distanza dalla necessaria concretezza, che gli elettori da tempo si attendono, possono essere avanzate alcune considerazioni.

Premesso che compito centrale di una società sia quello di garantire un’esistenza degna ai propri membri, il primo passo di ogni programma di governo deve essere dedicato alla definizione dell’intervento equilibratore dello stato a favore di chi si ritrova in una situazione svantaggiata. Nelle circostanze attuali si tratta in primo luogo di pronunciarsi per un reddito di cittadinanza ricalibrato nelle sue componenti di sussidio e in cui trovi attuazione una soddisfacente politica attiva del lavoro (con la definizione di obiettivi concreti in termini di riqualificazione e reintegro nel mondo del lavoro) coniugata con l’introduzione di un salario minimo che permetta, fra l’altro, la riduzione della manipolazione delle retribuzioni al fine dell’acquisizione del RdC. Parallelamente, con l’obiettivo di favorire una contrattazione tra datori e dipendenti più efficace ed equa, è necessario prevedere la realizzazione del dettato costituzionale all’art. 39 in materia di sindacati dando loro personalità giuridica e provvedendo a una loro registrazione.

Massima attenzione è da dedicare infine a un’opportuna flessibilizzazione del sistema pensionistico ai fini della sua preservazione attraverso un riequilibrio finanziario e facilitando a chi può e desidera una continuazione in età avanzata della propria attività professionale – questo anche al doppio fine del contemporaneo mantenimento del know-how critico del personale occupato e dell’aumento della popolazione attiva cui si accenna anche oltre.

Sulla base di tali risultanze la politica economica e finanziaria è da definire in modo da conseguire in un determinato arco temporale determinati obiettivi in campo sociale. In tale ambito un ribilanciamento della fiscalità e della contribuzione sociale è da perseguirsi in senso perequativo riguardo alle distribuzioni di reddito e ricchezza che sono attualmente tra le più diseguali in Europa.

Condizione fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi, a parte una ristrutturazione e un rafforzamento dell’amministrazione pubblica, inclusa la giustizia, oggi palesemente inadeguata rispetto alle necessità, è la realizzazione delle condizioni per una maggiore crescita dell’economia e nel contempo di un forte incremento della produttività, requisito per un miglioramento così necessario dei livelli salariali nonché della concorrenzialità dell’economia rompendo un’evoluzione negativa degli ultimi tre decenni. Varie leve dovranno essere usate che portino a una maggiore popolazione attiva, oggi tra le più basse in Europa in particolare tra le donne, e a maggiori investimenti – inclusi quelli dello Stato, anch’essi tra i più bassi in Europa. Ruolo principale dello Stato sarà qui quello di aiutare un’opportuna canalizzazione dei capitali italiani ed esteri, anche attraverso facilitazioni finanziarie, verso i settori più produttivi di ricchezza nel rispetto di criteri ambientali piuttosto che attraverso l’intervento diretto attraverso lo strumento delle partecipazioni pubbliche se non in campi particolari dove criticità consigliano un suo impegno in prima persona. Essendo il nostro paese prevalentemente un compratore e non creatore di proprietà intellettuale occorrerà, con l’assistenza di Stato e privati, dare maggiore impulso alla ricerca avvalendosi anche del supporto da parte delle università da cui sarà da attendere, grazie a un maggiore sostegno finanziario e a un ammodernamento delle loro strutture, una generazione più intensa di laureati, oggi ai minimi europei, e di iniziative imprenditoriali innovative.

Di fronte alla complessità e alla scala degli interventi necessari dopo anni di deriva della società italiana e della sua economia risulta evidente come uno sforzo comune si imponga. Non si tratta solo di dare seguito alle richieste di equità da parte soprattutto della popolazione più svantaggiata economicamente ma anche di creare le condizioni affinché esse siano soddisfatte. Il ruolo di un PD rinnovato dovrebbe essere quello di guidare l’evoluzione senza restringere il proprio impegno a un’attività di appoggio a giuste rivendicazioni ma proponendo soluzioni che riguardino la società italiana nella sua interezza. La ragione che portò alla sua creazione quale incontro dei progressisti di diverso colore rimane quindi più valida che mai e condizione per un suo successo è la definizione di un programma con un chiaro e concreto profilo non dettato dalle considerazioni tattiche del momento.

PAR 26.01.2023