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Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro dello sciovinismo

di Matteo Elis Landricina, PD Berlino e Brandeburgo

Si è fatto un gran parlare negli ultimi mesi dello stato di salute mentale, oltre che fisica, di Vladimir Putin. Esperti di varie discipline si sono lanciati in speculazioni secondo le quali dietro alla decisione del leader della Federazione Russa di scatenare l’aggressione attualmente in corso contro l’Ucraina potrebbe celarsi un qualche tipo infermità mentale. Confesso che anch’io, come molti altri, di fronte alle mostruosità scatenate dall’ordine di invasione dato da Putin ai suoi comandanti, mi sono più di una volta chiesto se il capo del Cremlino non sia da considerarsi pazzo, nel senso clinico del termine. Troppo inverosimile e folle  sembrava nell’immediato post-invasione – e lo sembra ancora oggi – l’idea di aggredire a freddo un paese vicino, senza neanche uno straccio di provocazione, causando migliaia di morti e feriti oltre che una crisi energetica ed economica mondiale, e rischiando una degenerazione nucleare del conflitto di proporzioni apocalittiche. In realtà, a mente fredda, adoperandosi nel non facile distacco emotivo, la decisione del presidente russo appare per ciò che è, ovvero il sintomo di una tendenza politica di tipo sciovinista in atto da anni in Europa e nel mondo. Vladimir Putin vuole rendere – con i suoi metodi brutali e con il suo cinismo – la Russia great again, grande di nuovo, e per fare ciò è disposto a provocare una crisi di proporzioni mondiali.

Il putinismo, l’ideologia neo-zarista di cui si nutre il regime russo, si può far rientrare a pieno titolo nella categoria delle filosofie politiche scioviniste contemporanee, anche se si distingue in questa ultima fase per la sua particolare brutalità e per il disprezzo per tutte le norme del diritto internazionale e umanitario. Donald Trump, Jair Bolsonaro, Xi Jinping, Narendra Modi, Recep Tayyip Erdoğan, Vladimir Putin: negli ultimi anni alcune delle maggiori potenze mondiali a livello politico, economico, militare sono state governate da personalità carismatiche, nazionaliste e reazionarie. Si tratta certamente di paesi molto diversi tra di loro – alcuni sono democrazie, altri dittature – ma i governi e i regimi di cui sopra hanno tutti un trait d’union, ovvero quella particolare prospettiva che possiamo chiamare “il mio paese innanzitutto”. L’Europa per la storia che ha avuto è da questo punto di vista probabilmente il continente più a rischio di derive nazionaliste e scioviniste. Spesso a noi europei piace pensare al nostro continente come al faro della democrazia e dei diritti umani – se non nel mondo, perlomeno per quanto riguarda la massa territoriale euro-asiatica – e in buona misura certamente lo è. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che l’Europa è anche un cimitero di imperi. Laddove vi sono oggi stati democratici, fino a qualche secolo o anche solo qualche decennio fa si ergevano grandi imperi continentali e “madrepatrie” di enormi imperi coloniali. Questo passato sarà sempre lì, un recondito “patrimonio” ideologico a disposizione di demagoghi pronti ad alimentare nostalgie reazionarie per i propri scopi di potere.

Alcuni stati europei già titolari di vastissimi possedimenti territoriali, come Portogallo, Olanda, Belgio, Austria, sembrano essersi lasciati per sempre alle spalle velleità imperiali, viste anche le proprie dimensioni geografiche ormai ridotte, ma non sono per questo necessariamente immuni al populismo reazionario. Altri invece, come la Gran Bretagna e, in misura minore, la Francia, faticano invece a staccarsi dai loro “sogni di gloria”. Così come le grandi potenze Stati Uniti, Russia e Cina sono tutte più o meno animate da spiriti eccezionalistici e anche missionaristici, anche in Europa sono ancora molti coloro che considerano il proprio paese “diverso da tutti” e portatore di una “missione storica”. Se il caso della Russia di Putin è estremo nella sua radicalità, il germe del nazionalismo e dello sciovinismo è più o meno presente in praticamente tutti i maggiori popoli europei.

L’Italia, patria fondatrice del fascismo, ha storicamente fatto tra i primi paesi europei l’esperienza dell’ubriacatura nazionalista e delle sue nefaste conseguenze. Nonostante ciò, come un alcolista incorreggibile, anche l’Italia in momenti di crisi è sempre tentata di fuggire dai problemi della realtà affidandosi all’ebbrezza del populismo e del nazionalismo, come ci hanno mostrato per ultime le recenti elezioni politiche. Gli esempi degli ultimi anni a livello mondiale ci mostrano chiaramente che il populismo neo-sciovinista arreca più o meno danni alle comunità politiche nazionali ed internazionali a seconda di quanto il sistema politico in cui si sviluppano li lascia fare. Se c’è una risposta popolare forte di opposizione, se i sistemi istituzionali, culturali e sociali di checks and balances funzionano, il nazionalismo arretra, come nel caso degli Stati Uniti e, speriamo, anche del Brasile. Se invece vengono lasciati agire, se non incontrano abbastanza resistenza, i nazionalismi dilagano e possono provocare danni gravissimi.

Personalmente mi auguro che il Partito Democratico, al di là della doverosa riflessione nei prossimi mesi – anche autocritica – su se stesso, sul proprio profilo e sulle proprie prospettive, si renda conto della responsabilità che ha in quanto principale partito di opposizione a questa destra, che andrà giudicata nei fatti ma che già si prevede potenzialmente rovinosa per il paese. L’opposizione non dev’essere in questo senso solamente l’occasione per leccarsi le ferite e riorganizzarsi in vista delle prossime elezioni, ma il momento di dimostrare all’Italia e all’Europa la propria utilità in quanto partito democratico di massa radicato sul territorio per riuscire ad arginare la marea di populismo sciovinista che si preannuncia. Questo il mio auspicio e la mia speranza in tempi purtroppo sempre più preoccupanti.

Fonte immagine: Asatur Yesayants/Shutterstock




Riflessioni di Federico Quadrelli sulle elezioni

Le elezioni politiche sono ormai alle nostre spalle. Questa volta mi trovo a scrivere una riflessione post voto nei panni non solo di un militante e dirigente locale del PD, ma da candidato alla Camera dei Deputati per l’Estero che, nonostante un ottimo risultato in termini di preferenze personali, non è stato eletto.

Una prima considerazione è personale: nonostante la mancata elezione non posso che essere molto soddisfatto e felice di avere superato le 13 mila preferenze, con le poche risorse economiche ed il poco tempo a disposizione, con un collocamento in lista non particolarmente favorevole, né aiuti di altro genere dalle strutture di partito. Un esito inaspettato per me, ma anche per molti altri, compresi coloro che forse avevano immaginato un risultato negativo e che invece non c’è stato: anzi! Questo ci dice che sì, le persone fanno la differenza e si può essere competitivi e ripartire, con ancora maggiore forza e determinazione di prima per cambiare le cose. Non mancherò di provarci, questa è una promessa. Lo devo a tutte quelle persone, tante, che mi hanno aiutato e sostenuto, a quelle persone con cui mi sono confrontato e che hanno vinto lo scetticismo inziale e hanno deciso di darmi fiducia. Lo avevo detto, e lo farò, eletto o meno, non verrò meno a nessuno dei miei propositi. Credo che anche così si possa ricostruire un legame di fiducia con l’elettorato. Senza nascondersi e senza retoriche.

La seconda considerazione è politica e riguarda il partito e più in generale il destino della sinistra nel nostro paese. Nonostante il recupero timido di appena un punto percentuale rispetto al 2018, il PD resta secondo partito mentre Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni vince. C’è di più: vince una coalizione, che nonostante le divergenze, come sempre, riesce a stare insieme nei momenti cruciali della vita politica, ossia quelli del voto. A sinistra, invece, continua lo spacchettamento all’infinito in tanti orticelli delle vanità, concetto che ho usato per la prima volta qualche anno fa e che trovo sempre molto pertinente ed utile. Sì, non ci sono motivazioni ideologiche tali da tenerci separati sempre, a sinistra, ma ogni leader di turno vuole avere il suo brandello di spazio di visibilità. E quindi eccoci smarriti nella giunga dei partitini personali dell’1 o 2% se va bene. Alla base di tutto c’è un’orribile legge elettorale, quella ideata da Rosato e che porta il suo nome, che produce effetti assurdi. Una legge che, dopo lo sciagurato e sbagliato taglio del numero dei parlamentari doveva essere cambiata in senso proporzionale, e che invece è rimasta lì.

A tal proposito resto convinto che l’opzione migliore sia una legge sul modello tedesco con lo sbarramento al 5%, dove le coalizione si fanno ex-post e non ex-ante. Perché l’idea maggioritaria spinge a coalizioni spurie, prive di condivisione di ideali, litigiose e instabili che solitamente il giorno dopo le elezioni finiscono, o, se si è fortunati, dopo qualche mese dall’inizio di un tentativo di governo. Un problema serio, che andrebbe affrontato con una riforma dei regolamenti parlamentari e con l’introduzione di una legge sui partiti. Di questo ne ho scritto nel 2020 con la prof.ssa Anna Mastromarino su Immagina, purtroppo il dibattito si arenò lì, con l’ennesima crisi di governo.

Al netto di questo aspetto oggettivo e tecnico, comunque, c’è una questione di fondo che riguarda la natura stessa del Partito Democratico da un lato e della sinistra in Italia dall’altro. Mi verrebbe da dire che in realtà la Sinistra in Italia è morta o è moribonda da un po’. Ma in realtà non è così: la sinistra è viva nel Paese, con i suoi ideali e con le sue aspirazioni, ma non trova una vera rappresentanza partitica. Ci sono troppi distinguo: centinaia di sfumature di sinistra, per ogni gusto e stagione negli orticelli delle vanità. Tuttavia, il PD, con tutti i problemi che ha, le scissioni subite e le incoerenze ed ambiguità interne – che ci sono, e non vanno confuse con la giustissima questione della pluralità di idee e opionioni –, è lì con il suo zoccolo duro di votanti, ed è sempre il secondo partito del paese ed il primo per l’opposizione, oggi. C’è un patrimonio elettorale che non può semplicemente essere preso e gettato alle ortiche nella convinzione (ma veramente?) che una volta cancellato tutto, si possa ripartire felici e contenti e con praterie infinite, con mezzo balletto.

Per questo credo che sia un errore parlare di scioglimento del Partito Democratico, così come credo sia abbastanza banale l’idea che cambiare il nome possa aiutare minimamente a rendere il progetto più credibile e forte, altro sarebbe se invece si facesse da parte gran parte del gruppo dirigente che è stato co-autore di questi fallimenti. Questo sarebbe certamente d’aiuto, ma comunque, questo, come le altre cose non risolverebbero il problema di fondo: quello ideologico-programmatico.

Nel 2018 sono interventuo all’incontro degli under 35 del PD a Roma, all’assemblea dei CentoFiori, dove affermavo che “non possiamo riconquistare fiducia se non siamo credibili, e se non siamo credibili è perché non siamo coerenti, o per lo meno non lo siamo stati” e continuavo suggerendo che si poteva tornare ad essere credibili “rispettando i nostri valori ed orizzonti”, iniziando col rispondere a tre interrogativi: (1) chi siamo? Ossia il problema della nostra identità, siamo un partito socialdemocratico – come io auspicherei –, o siamo altro? (2) che cosa vogliamo fare? Ossia il problema del contenuto, o meglio, la basa ideologico-programmatica, e (3) ultimo interrogativo quello sul metodo, ossia come lo vogliamo fare e – aggiungo – con chi?

Questo mio intervento, che trovo ancora molto attuale, era inserito in una riflessione sulla riforma del Partito e del suo statuto, cosa che sarebbe poi accaduta. Per altro, per il PD Estero, sono stato proprio io a coordinare i lavori di quella Commissione. Tuttavia, il cambiamento radicale che era necessario non c’è stato veramente. Oggi, dopo la terza sconfitta consecutiva finalmente il Segretario Enrico Letta ha aperto una fase rifondativa del partito, annunciando il congresso che dovrà però essere fatto con un percorso nuovo, anche se lo trovo molto complesso e macchinoso. E quindi, non so se sarà efficace, ma è bene che si inizi a parlarne e lo si faccia nella consapevolezza che o cambiamo veramente, o al prossimo giro non esistiamo più.

Prima di tutto credo che sia necessario aprire il dibattito per la rifondazione del partito alla partecipazione attiva di iscritte ed iscritti, dei circoli e delle federazioni, dell’Assemblea Nazionale e delle sue/dei suoi delegati, ma anche ai sindacati, alle associazioni ambientaliste, quelle per i diritti delle donne, delle persone lgbtqi, dei movimenti per il riconoscimento dei diritti di cittadinanza, le reti di italiane ed italiani all’estero. Chiedere il contributo di idee ai mondi che più di tutti in questi anni hanno sofferto la precarietà ed i suoi effetti e subito i danni delle crescenti disuguaglianze economiche e sociali, penso ai giovani, al mondo della ricerca e della scuola, della sanità pubblica, delle nuove professioni, per citarne alcuni ma la lista può continuare. Insomma, una mobilitazione ampia, nazionale e transnazionale perché il potenziale del PD è enorme, solo che il PD stesso non lo sa o fino ad oggi non ha voluto vederlo.

Poi, visto che credo che non si debba archiviare questa esperienza e buttare via il partito e tutto ciò che (ancora) rappresenta, servirà intervenire a fondo nel funzionamento del partito stesso: possiamo anche cambiare il nome, aggiungere non so, un elemento qualificante come il riferimento alla socialdemocrazia (immagino ci saranno divergenze…), ma non basta se poi le regole e le strutture son le stesse. Quindi, credo che serva (1) una struttura capace di raccogliere le istanze dal basso verso l’alto, per alimentare costantemente la costruzione della base programmatica del partito, che valorizzi la dimensione territoriale, che è indispensabile, altrimenti senza radicamento non si vincono le battaglie politiche, e prenda atto delle profonde trasformazioni sociali e tecnologiche che nel post pandemia abbiamo vissuto, ossia la possibilità di fare politica anche “online”, ampliando le relazioni nel tempo e nello spazio grazie a questi nuovi strumenti di comunicazione e (2) un set di regole chiare e trasparenti sulle modalità con cui si forma e seleziona la classe dirigente ad ogni livello e come si costruiscono quindi anche le candidature, tema serio che impatta notevolmente sulla qualità della politica che il partito poi realizza quando è in Parlamento e che può incidere negativamente sul rapporto di rappresentanza (chi rappresentiamo e come?). Infine (3) dobbiamo fare uno sforzo tale, dal punto di vista ideologico, programmatico ed organizzativo, che avvicini quelle realtà ancora esterne, che sono scettiche se non addirittura ostili per via della poca trasparenza dei nostri processi interni, per la mancata inclusione delle varie istanze che rappresentanto e per le troppe eclatanti incoerenze delle classi dirigenti degli ultimi dieci anni, ma che potrebbero essere parte coerente, e lo ripeto “coerente” dal punto di vista ideale, di un progetto che per me deve avere pochi ma saldi valori: il principio di solidarietà, l’aspirazione alla realizzazione di una società tollerante ed inclusiva, la realizzazione della giustizia sociale e dunque il perseguimento di un’equità di fatto, dal punto di vista economico e sociale (chi ha di più contribuisce di più) e naturalmente anche ambientale. Questo ci permetterà di identificare senza ambiguità gli interlocutori con cui è realmente possibile fare un ragionamento rifondativo e costituente allo stesso tempo, uniti nelle reciproche diversità, diversità che però non ci sono sui principi di base e rispetto agli obiettivi che si vogliono raggiungere e rispetto all’orizzonte a cui vogliamo guardare: la costruzione di una società più equa, solidale e giusta.

Federico Quadrelli




Il Pnrr: un’occasione per FdI e compagnia per sparigliare le carte in Europa

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Non vi è dubbio che un governo italiano in mano alla coalizione di destra-centro si darà un ruolo ben diverso in seno all’Unione europea rispetto al precedente. Sarà un ruolo antagonistico verso la Commissione e la sua tradizione europeista, più in sintonia con le posizioni di partiti come Fidesz o PiS. Come questi una coalizione di destra-centro cercherà di trovare punti di attacco per affermare la propria posizione di rottura. Uno di questi sarà prevedibilmente il Pnrr nell’ambito del New Generation EU.

Considerato il peso del nostro Paese il danno per l’Europa e il suo processo di aggregazione, già in fase di forte rallentamento e incertezza dai referendum costituzionali con esito negativo del 2005, minaccia di essere notevole. Per l’Italia la ripercussione potrà essere ancora più grave: in primis per il possibile aggravamento della situazione dell’Unione, e in secondo luogo per la possibilità di perdita, almeno parziale, dell’accesso ai fondi del Next Generation EU ammontanti a quasi 200 miliardi di euro. Questi fondi sono essenziali per un restart del paese, da anni in fase di declino economico e sociale, non essendo facilmente sostituibili da fonti finanziarie autonome a causa della situazione finanziaria caratterizzata da un forte livello di indebitamento.

Le recenti professioni di atlantismo della Meloni e i suoi toni solo apparentemente concilianti non dovrebbero trarre in inganno. Le dinamiche dialettiche interne del suo partito insieme con quelle della Lega e la doppiezza degli atteggiamenti di FI non permettono atti di particolare fiducia nei confronti della coalizione di destra-centro. I legami con i rispettivi partner europei di chiara impronta autoritaria e sovranista non potranno non avere influenza sulla politica seguita.

Dobbiamo sperare di non dovere dire fra non molto tempo, come alcuni hanno dovuto fare quando si è trattato di “tipi” come Trump, “l’avevamo previsto”. E non dobbiamo illuderci: prima dell’Italia, che figura solo apparentemente e di facciata in cima alle priorità, viene il trio Meloni-Salvini-Berlusconi con le loro corti.  

Chi desidera sapere di più in merito alla situazione e le prospettive attuali del Pnrr può proseguire nella lettura qui di seguito.

Gli interventi di Giorgia Meloni sul tema del Pnrr (1) si sono moltiplicati ultimamente. Si tratta di un terreno che vedrà verosimilmente aumentare la tensione con la Commissione europea in caso di governo di destra-centro. La nota allergia della sua coalizione verso l’UE, espressione della particolare visione culturale delle due componenti principali con perno nel sovranismo, susciterà confronti e il Pnrr offrirà un terreno in potenza particolarmente fertile – un autentico invito per chi cercasse un punto di attacco.

Già in occasione delle votazioni in Parlamento FdI non appoggiò il piano astenendosi ogni volta, con una sola eccezione di importanza secondaria (2), ma portando avanti un discorso tanto generico quanto fortemente critico segnalando un’avversione radicata che avrebbe dovuto significare nella logica palla nera se un voto negativo non avesse esposto troppo il partito quando il mondo intero o quasi si mostrava favorevole. Carlo Fidanza, esempio esemplare, proiettò il rischio di “un diluvio di tasse” e “il ritorno dalla finestra delle regole dell’austerità” nel suo intervento del 9 marzo 2021 al Parlamento europeo in occasione dell’approvazione del Next Generation EU. Si trattò in verità di osservazioni assai sorprendenti e provocatorie verso l’Unione dato che ben il 36% dei fondi di Next Generation EU destinati all’Italia sono a fondo perduto e che il resto verrà concesso sotto forma di prestito a condizioni ben più favorevoli di quelle alle quali l’Italia può rifinanziarsi sul mercato e che riparano fra l’altro il Paese da possibili e pericolose capriole dello spread.

Le prossime elezioni hanno permesso di ritornare sul tema del Pnrr. Come la carta carbone il programma del destra-centro riprende fedelmente la posizione di FdI e mette in conto una “revisione del Pnrr in funzione delle mutate condizioni, necessità e priorità”. In che direzione si intenda andare rimane tuttora nel vago secondo lo stile già noto.  In ogni caso si richiama un “efficientamento dell’utilizzo dei fondi europei con riferimento all’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime”. Di fronte a osservazioni della Meloni a Cernobbio in cui “ ha parlato esplicitamente di diversione di una piccola parte di fondi a sostegno di misure quale il disaccoppiamento del prezzo dell’elettricità dal prezzo del gas a livello locale in aiuto dei consumatori italiani” (segnalazione Reuters del 04.08.2022) già da varie parti si sono espressi avvertimenti a non utilizzare fondi del Dispositivo per la ripresa e la resilienza per fini diversi da quelli previsti, ad esempio al fine di ridurre il costo delle bollette che sono da affrontare con altri strumenti.

Sulla base di quanto si può leggere nelle dichiarazioni dei destrogiri (così chiameremo d’ora in poi per semplicità gli aderenti alla coalizione di destra-centro) l’obiettivo apparente si concentra al momento sul settore della “Transizione verde” del Pnrr (3) – che ha come obiettivo nell’ambito del programma di Next Generation EU il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050 (4) – spostando il discorso sulle infrastrutture energetiche aprendo ad attività di investimento nel fossile e nel nucleare, quest’ultimo tema particolarmente caro a Lega e FI. Non a caso G. Fazzolari di FdI ricorda esplicitamente che “Il Pnrr nasce in un momento storico diverso, con una pandemia cui far fronte ma prima della guerra e dell’emergenza energetica” (5). Occorre qui tenere ben presente che tale tema è da vedere logicamente distinto da quello della profonda modifica dei prezzi assoluti e relativi delle fonti di energia nonché del forte aumento dei costi di costruzione cui stiamo assistendo in questi mesi. L’ex presidente della Commissione Finanze C. Borghi (Lega) afferma: “Non è che è un capriccio cambiare il Pnrr, la voce mutata delle materie prime rende irrealizzabili le opere già inserite fra quelle finanziabili”. Stiamo in guardia: i destrogiri amano cumulare i due argomenti in uno in modo da attribuire, grazie al secondo, un senso di ineluttabilità della revisione del Pnrr e con essa surrettiziamente un cambio di rotta nelle scelte in materia di scelta tra le fonti energetiche.

In ogni caso occorre mettere in evidenza le scelte nel campo dell’energia che i destrogiri intendono prevedibilmente perseguire, in primis: investimento nel nucleare, fonte energetica ritenuta inopinatamente meno costosa di quelle rinnovabili (6), e rafforzamento del ricorso alle fonti fossili disponibili domesticamente con accento sulle sorgenti di gas (i “pozzi di gas” volentieri citati dalla Meloni) malgrado la loro assoluta modestia e scarsa rilevanza nel bilancio globale – Italy first! Senza addentrarsi qui nel merito del nucleare è bene sottolineare che tale impostazione è chiaramente in collisione con l’approccio attuale europeo come evidenziato dallo European Green Deal e il piano REPowerEU adottato nello scorso maggio dalla Commissione. Ciò non potrebbe che rendere ulteriormente problematica se non disperata una rinegoziazione del Pnrr. 

In merito alla posizione dei destrogiri, meloniani o meno (la Meloni ha assunto una posizione prudentemente favorevole sul tema del nucleare rimandando fra l’altro curiosamente all’ipotesi della fusione nucleare, una tecnologia ancora in fase di sviluppo e lontana decenni da un possibile ma ancora assai incerto impiego: “Il nostro grande obiettivo rimane la fusione nucleare, tecnologia straordinaria sulla quale l’Italia, attraverso Eni, è messa in una posizione importante”), si vuole qui osservare e contestare:

  1. Se è vero che il l’art. 21 del regolamento del Next Generation EU, a cui essi si richiamano per forzare la mano, permette in via eccezionale a uno stato membro in caso di impossibilità di realizzare i piani programmati di chiedere una loro modifica dietro motivazione, è anche vero che il riferimento riguarda in realtà singoli stati. Il significato è chiaro: il caso non riguarda la comunità intera degli stati europei ma uno solo che è in difficoltà per proprie “circostanze oggettive”. Qualora il problema interessi tutta la comunità altri processi sono da iniziare coinvolgendo in una discussione e negoziazione collettiva. I destrogiri sostengono la necessità di un’azione isolata italiana, impresa temeraria per il suo carattere dirompente per l’Europa e ad alto rischio per il nostro Paese.
    È difficile immaginare che queste considerazioni assai evidenti siano sconosciute ai destrogiri e ciò suggerisce di vederle collegate a un’intenzionalità cosciente al fine del perseguimento di obiettivi politici su cui è opportuno riflettere.
  2. A maggiore ragione si può immaginare quanto difficile e incerto per l’Italia possa risultare un tentativo di “rinegoziare” (questo è il termine impegnativo usato nel programma della coalizione di destra-centro – non siamo nell’ambito di correzioni o miglioramenti!) il Pnrr con le autorità EU e quanto arrischiate siano state le azioni che hanno portato alla fine del governo Draghi accrescendo la pressione delle scadenze semestrali legate alle erogazioni dei fondi del Next Generation EU. Un loro mancato rispetto comporterebbe la perdita del diritto a ricevere parte dei fondi, una perdita secca per un paese come il nostro a corto di risorse finanziarie. In questo semestre è in gioco una rata di € 20 miliardi, per cominciare.
  3. Nel pieno delle turbolenze di mercato è sconsigliabile procedere, come sembrano pronti a fare i destrogiri, a una riformulazione di un piano complesso come il Pnrr allorché i prezzi sono sfalsati prepotentemente da uno shock dal lato dell’offerta. Una tale operazione, qualora necessaria, va fatta una volta che la situazione si sia stabilizzata – tra l’altro dopo una discesa dei prezzi delle materie prime calmierati dallo stesso mercato che ritrova un suo equilibrio.
  4. Alla base di una prevedibile contesa in ambito UE sul tema dell’approvvigionamento energetico nel quadro di un processo di decarbonizzazione dell’economia è anche una diversità di valori che non potrà non interessare altre aree del Pnrr.  Una volta creato un vulnus nello strumento del Next Generation EU apparirà logico e allettante per i destrogiri allargare l’azione in altri contesti congiuntamente con gli alleati naturali dei raggruppamenti illiberali al Parlamento europeo di “Identità e Democrazia” e del “Gruppo dei Conservatori e Riformisti” senza dimenticare i cani sciolti come Fidesz.  

È evidente che un voto per la coalizione di destra-centro è un voto contro l’Europa.

  • Per una presentazione power-point completa del Pnrr sul portale ufficiale del progetto (Italia domani):  ://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://www.mef.gov.it/inevidenza/2021/article_00060/Presentazione-Master-PNRR-PMST2021920STLM03-3.pdf
  • relativa all’approvazione del fondo parallelo React-EU, € 13 mrd a incremento del Fondo Regionale per lo Sviluppo
  • PNRR: Settori di intervento:
 € mrd      %
Transazione digitale 40,3 21,0%
Transizione verde 59,5 31,1%
Infrastruttura per mobilità sostenibile 25,4 13,3%
Istruzione e ricerca 30,9 16,1%
Inclusione e coesione 19,9 10,4%
Salute e resilienza 15,6 8,1%
TOTALE 191,5 100,0%
     
  • https://europa.eu/next-generation-eu/make-it-green_en
  • La Repubblica, 04.09.2022, articolo di E. Lauria
  • Vedi il corposo studio commissionato dal Partito dei Conservatori e Riformisti, cui FdI appartiene oltre, tra gli altri, al PiS polacco, lo spagnolo VOX, i Democratici Svedesi: “Road to Climate Neutrality”, gennaio 2021



La destra italiana ha sempre sostenuto la Russia di Putin e dovrebbe essere ritenuta responsabile per le proprie decisioni politiche

Di Federico Salvati, PD Berlino e Brandeburgo

In Italia abbiamo un problema di politica estera. Il paese capisce male e discute peggio le questioni estere. Diplomaticamente l’Italia è ancora un paese di un certo riguardo, l’apparato burocratico è solido e funziona abbastanza bene. Dal punto di vista tecnico non mancano le occasioni di sentirsi persino orgogliosi dell’operato istituzionale (che recentemente diventano sempre più rari).

Sentire il dibattito politico-culturale italiano in temi esteri è però come bere acqua salata. Più se ne ingerisce e più ci si ritrova assetati e insoddisfatti perché narrative bizzarre e contrastanti molte volte creano ancora più confusione e incertezze invece di rassicurare gli spettatori.

Stessa cosa con la leadership politica. Quando si guarda alle posizioni politiche sullo spettro partitico, ci si aspetta di vedere come le varie opzioni del mercato elettorale prospettino un ventaglio di possibili evoluzioni future della nostra linea e strategia estera. Al contrario, ci si imbatte in rocamboleschi salti di schieramenti che farebbero invidia al Cirque du Soleil.

È il caso della linea politica tenuta nei confronti di Mosca dalla destra italiana. L’Italia è un paese atlantista sia per tradizione che per necessità. Essendo una cosiddetta “media potenza”, la nazione ha bisogno di una politica multilaterale per restare politicamente rilevante. Sebbene i rapporti con Mosca, quindi, abbiano rappresentato una necessità sia dal punto vista economico che politico, la natura di questi rapporti ha continuamente diviso le posizioni progressiste e di sinistra da quelle più conservatrici e di destra.

Contrariamente agli anni della guerra fredda, oggi è la destra Italiana che simpatizza e guarda con interesse alla Russia. In qualità di “esperti della geopolitica”, personalità della (estrema) destra culturale italiana come Diego Fusaro, Daniele Scalea e Tiberio Graziani hanno promosso negli anni passati le idee di autori come Alain de Benoist, Yves Lacoste, Stefan Breuer (studiosi che oggi costituiscono i padri fondanti dell’ideologia populista della destra europea) ma soprattutto quelle di Alexander Dugin, noto ideologo del regime putiniano. Conseguentemente, il dibattito culturale nella destra in Italia, prima dello scoppio della guerra in Ucraina, non ha mai negato di guardare alle posizioni conservatrici nella politica russa come un modello di riferimento per lo sviluppo politico del paese Italia.

Dal momento che, come si suol dire, la mela tende a non cadere molto lontano dall’albero, si nota che la leadership emergente da questo dibattito culturale non poteva avere delle opinioni molto critiche nei confronti del regime politico russo.

Oggi tre su tre dei candidati leader del polo della destra italiana (Berlusconi, Meloni e Salvini) hanno avuto in passato posizioni di aperta simpatia nei confronti della Russia.

Non c’è bisogno di ricordare i rapporti di Berlusconi con il presidente Putin. L’ex Presidente del Consiglio fino a qualche anno fa lodava il capo del Cremlino come un “vero liberale e democratico”. Silvio Berlusconi è stato il perno geopolitico della strategia russa nel nostro paese. Fonti diplomatiche americane (Relazione Spogli) e fonti accademiche (Anton Shekhovtsov) hanno affermato che il Cavaliere e le persone intorno a lui si siano arricchite tramite provvigioni e percentuali legate alle forniture energetiche russe in Italia traendo profitto personale da una politica che ha incatenato il paese alla dipendenza dalla Russia.

In modo analogo, Giorgia Meloni, all’indomani della crisi Ucraina del 2014, si vantava di posizionarsi contro le sanzioni alla Russia perché “folli e irrazionali”. I richiami ai valori conservatrici e reazionari sostenuti da Mosca sono stati sostenuti da Fratelli d’Italia e sono rimasti costanti in questi anni. Inoltre, FdI è stato in passato apertamente accusato di aver accettato donazioni provenienti dalla Russia e da altri gruppi esteri, simpatizzanti delle posizioni populiste di destra.

La punta di diamante nella questione russa resta tuttavia Matteo Salvini. Numerose sono le prove che testimoniano i rapporti diretti dei quadri della Lega con Mosca (esempio fra tutti, il caso Savoini). Oltre a ciò, il programma elettorale della Lega del 2018 (Pagina 22) affermava che la Russia non costituirebbe una credibile minaccia militare, bensì un potenziale partner per la Nato e l’Ue. Si invocava addirittura un rovesciamento della lealtà ai vertici atlantisti e un approfondimento dei rapporti con Mosca, il cui intervento in Europa avrebbe, secondo il Lega-pensiero, aiutato a stabilizzare lo scenario politico.

All’indomani della guerra in Ucraina, tutti i leader della destra italiana hanno dichiarato a gran voce la propria fede nell’atlantismo e nei valori occidentali, prendendo dunque le distanze dal regime putiniano. Giorgia Meloni si è persino guadagnata le attenzioni non esattamente positive del giornale russo di regime Pravda, su cui venne pubblicato un articolo che denunciava l’inversione a “u” della capa dell’esecutivo nazionale di Fratelli d’Italia. L’autore dell’articolo definì la scelta della Meloni “la via dell’abisso”, in base alle dichiarazioni pro-atlantiste della stessa.

Vale il detto che chi non cambia mai idea non sia necessariamente una persona di cui prenderemmo ad esempio le capacità intellettive. Ognuno ha il diritto di evolversi e, riguardando a posizioni e scelte passate, dichiarare di aver preso un abbaglio. Le opinioni mutano e il fatto non è intrinsecamente sbagliato. Oggi, tuttavia, alla vigilia delle elezioni nazionali italiane siamo chiamati a scegliere i nostri rappresentati per la loro capacità di giudizio su fatti politici. Andando alle urne, dobbiamo quindi porci una domanda specifica: è possibile accettare che la destra italiana ricusi senza conseguenze due decenni di posizioni apertamente filo-putiniane liquidando il tutto con: “scusate, abbiamo preso un abbaglio”? Non dovremmo, invece, ritenere questi signori (e signore) responsabili politicamente per aver sostenuto con così tanta convinzione la leadership violenta e criminale di un paese estero in nome del proprio arrogante e ammiccante realismo? Desideriamo veramente che a questi cittadini sia dato il compito di esercitare discrezionalità politica sulle decisioni fondamentali che il paese aspetta? A mio parere, non dovremmo. Mi aspetto una qualche forma di responsabilità per l’operato politico portato avanti per due decenni dalla destra italiana, con coerenza e costanza. Rimane il fatto che l’Italia, contrariamente alla Russia, è un paese libero che permette a ciascuno di formulare il proprio giudizio politico e morale, votando di conseguenza.

Buone votazioni a tutte e a tutti!




Il reddito di cittadinanza: per l’Italia uno strumento solidale senza alternativa e un modo per essere in Europa

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Giorgia Meloni ha definito il costo del RdC “esorbitante”. Su quale base? Non lo dice. Le viene in aiuto Silvio Berlusconi che chiede il suo dimezzamento. Mentre il terzo della compagnia, Matteo Salvini, che dirige un partito che al governo fu parte attiva nell’introduzione del RdC, non può permettersi di fare apertamente l’affossatore e si concentra sull’inasprimento delle condizioni di accesso ai sussidi. Sorprende ancora una volta come il terzetto non faccia alcuno sforzo per gettare un occhio oltre i nostri confini su come altri sistemi molto simili funzionino – nessuna sorpresa: non lo fa anche nei casi del salario minimo e della flat-tax. Si accorgerebbe che la musica oltre le Alpi, pur con tutte le cautele nell’utilizzo di uno strumento di difficile impiego, è molto diversa.

Il breve allegato mostra alcuni risultati salienti del RdC a tre anni dalla sua introduzione nel marzo 2019. Mentre il contrasto alla povertà, pur rivelando un bisogno di ricalibrazione come proposto nella Redazione del Comitato Scientifico , ha registrato risultati positivi tangibili con un aumento del sussidio dal 5.5% del reddito mediano equivalente nel 2017 (al tempo del REI) al 23,9% nel 2019 fornendo sostegno nel 2021 a 3,9 milioni di persone, si è molto distanti dal realizzare uno strumento efficace per l’inserimento nel mondo del lavoro, il secondo obiettivo del RdC, attraverso la riqualifica e l’utilizzo di efficienti strutture amministrative di matching, un annoso e noto problema che predata il RdC. Le risorse finora impiegate per questo secondo obiettivo appaiono tuttora inadeguate per fare la “differenza” nel colmare il forte divario tra quanto offerto dalle risorse umane da reinserire e le qualifiche professionali richieste dalle imprese . Un maggiore sforzo, finanziario e organizzativo, appare qui necessario.

Ma guardiamo all’esempio della Germania per avere un confronto immediato e parliamo in primo luogo degli importi. A fronte di una spesa di 8,8 miliardi di euro in Italia (2021) la Germania spende per un meccanismo analogo ma di dimensione ben maggiore (Sussidio di base per persone in cerca di lavoro, detto Hartz IV – Grundsicherung für Arbeitsuchende, Libro II, SGB) ben 44,3 miliardi di euro così composti, includendo anche i costi amministrativi (BfA, 2020 – non conteggiate sono le spese una tantum a favore dei beneficiari in situazioni particolari):

               € mrd.
  Sussidio di disoccupazione II e assegno sociale 14,7
  Sussidi aggiuntivi per l’affitto e il riscaldamento 14,0
  Sussidi aggiuntivi per l’assicurazione sanitaria 6,0
  Costi dell’integrazione nel mondo del lavoro 4,0
  Costi amministrativi e altro 5,6
  TOTALE 44,3

Gli aventi diritto sono in Germania attualmente (“Leistungsberechtigte”, luglio 2022) 5,3 milioni contro 3,9 milioni in Italia (fonte: Osservatorio INPS). Nel 2021 sono state integrate in Germania nel mondo del lavoro 900 mila persone, ovvero circa il 24% dei beneficiari in essere contro un 4,5% nel nostro Paese.

Naturalmente anche in Germania la discussione è robusta tra i partiti conservatori e la sinistra della SPD e i verdi. Non abbiamo tuttavia in cantiere tra i primi il progetto di un’abolizione del sistema attuale. La loro reazione, per quanto vivace, di fronte agli ultimi annunci del ministro Heil (SPD) relativi al superamento del sistema attuale in senso più generoso verso i beneficiari dei sussidi è stata quella di un richiamo allo stesso spirito della legge attuale (“Fördern uns Fordern” = incoraggiare ed esigere).

In Italia la discussione si trova in forte ritardo rispetto a quella tedesca.

Mentre il PD, un tempo restio, si dichiara ora apertamente convinto dell‘utilità dello strumento del RdC i partiti della coalizione di destra-centro fanno a gara nell’esprimere forti critiche al riguardo – anche a costo di rivelare nei loro argomenti forti contraddizioni con dati e fatti a disposizione. Una volta di più tali contraddizioni vengono annegate secondo sistema nella dialettica usualmente aggressiva delle loro dirigenze.

La Lega, dovendo rimanere in qualche modo coerente con la propria decisione favorevole all’introduzione del RdC nel 2019, non spinge sulla sua abolizione ma cerca la propria soluzione del problema nell’inasprimento delle condizioni per la concessione del sussidio dimenticando totalmente la grave problematica relativa alla qualifica dei beneficiari. Salvini, che ama le maniere forti e spicce, porta avanti la sua proposta primitiva (intervento al Caffè de la Versiliana a Marina di Pietrasanta) in questo modo: „Come lo si modifica (il RdC, ndr)? Lasciandolo a chi non può lavorare mentre per chi può lavorare se rifiuti anche una sola offerta perdi subito il beneficio.” mostrando di vedere in ogni lavoratore solo uno scansafatiche inveterato che mira unicamente a intascare il sussidio. L’opportunità della riqualifica, anche nell’interesse dei datori di lavoro, viene messa apparentemente in soffitta ritenendo che basti la volontà di lavorare per far scaturire l’impiego, anche se sottopagato.

Una posizione simile, anche se in termini diversi, viene assunta da FdI ove la sua segretaria nazionale la mette sul piano della cultura, che in realtà nel suo partito non sembra essere troppo di casa, per giustificare una chiusura netta e irrevocabile (intervento su Radio24): “Sono 4 anni che assumo toni duri su una misura culturalmente sbagliata. Uno Stato giusto distingue l’assistenza a chi non può lavorare e il sostegno per chi lavori mentre noi abbiamo messo tutti sullo stesso piano. Se le stesse risorse destinate al reddito di cittadinanza le avessimo date, per la stessa quota, alle imprese per assumere le persone, oggi avremo meno disoccupati e a carico dello Stato.” Evidentemente Giorgia pensa che „chi non può lavorare“ e „chi lavori“ siano due categorie a compartimenti stagni negando sostanzialmente funzione alla riqualifica. In questa logica il problema sarebbe risolvibile dando i fondi del RdC agli imprenditori e abbassando i costi di assunzione. In questo modo Giorgia si trova come Salvini palesemente in conflitto con la realtà che mostra quanto grandi siano le difficoltà delle imprese a trovare il personale con le qualifiche da loro richieste, risolvendo tutto in una questione di prezzo e costo e lasciando a terra il lavoratore senza sostegno economico nel caso questo non trovi rapidamente occupazione.

Ma le osservazioni sul Giorgia-pensiero non si fermano qui: una volta messo il lavoratore disoccupato nel girone di „chi non può lavorare“, questo non ne può presumibilmente più uscire se non per raro accadimento, venendo bollato come percettore di elemosina per il resto della sua esistenza.

FI invece, spazzando sotto il suo capace tappeto le parole di aperto elogio per lo strumento del RdC pronunciate ripetutamente da Berlusconi l’anno scorso – diciamo a posteriori: evidentemente per tornaconto politico immediato – e non dimentico dello stato problematico delle nostre finanze malgrado si parli di un esborso per il RdC (dato del 2021) dell‘1,4% della spesa pubblica misurata sull’ultimo anno precedente il Covid (2019), si pone nel ruolo del Ministero delle finanze (intervista a Berlusconi su Money, 11.08.2022) indicando l‘obiettivo di recuperare „4 miliardi dalla riformulazione del reddito di cittadinanza (ovvero quasi la metà della spesa del 2021, ndr), che deve diventare una misura a favore di chi non può davvero lavorare“, concetto del tutto incerto su cui anche lui batte.  

Fatto sta, nella confusione delle varie posizioni degli attori, che il programma della coalizione di destra-centro si pronuncia manifestamente contro il RdC – peraltro in modo vago e indeterminato e pure in contraddizione con alcune delle posizioni richiamate sopra – proponendo semplicemente una non meglio definita „sostituzione dell’attuale reddito di cittadinanza con misure più efficaci di inclusione sociale e di politiche attive di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro” senza altra precisazione.

La sola abolizione o forte ridimensionamento del RdC unitamente alla flat-tax e al rifiuto dell’introduzione del salario minimo mette in evidenza la linea della coalizione destra-centro a favore di un alleggerimento del peso fiscale per le classi più abbienti e una riduzione della spesa sociale – questo anche quando essa è destinata a incrementare l’efficienza del sistema economico – così nel caso del RdC quando uno degli effetti è quello di incrementare la popolazione attiva a sostegno di una anemica crescita economica.

Il contrasto non può essere più netto con le posizioni a favore del RdC dei partiti opposti alla coalizione di destra-centro, inclusa Azione che nella persona di Calenda ha fatto sapere due giorni fa in un incontro elettorale a Catania di non essere “contraria al reddito di cittadinanza. Chi non può lavorare, non è in condizioni di farlo, deve continuare a prenderlo. Chi può lavorare deve essere formato.” Il pensiero non è “pulito” perché solleva domande sul tema della reintegrazione generalmente difficile delle persone disoccupate da lungo tempo ma manifesta l’accettazione del principio di un RdC, malgrado il nome infelice e fuorviante.

Qui si invita apertamente chi andrà prossimamente a votare a tenere conto delle argomentazioni sopra esposte senza dimenticare che la ragione principale di misure come il RdC è il sostegno delle classi meno abbienti in una società che non può e non deve dimenticare il dovere morale di favorire un’esistenza degna e dignitosa per tutti i suoi cittadini.

ALLEGATO

L’introduzione, dopo un timido inizio con il Reddito di Integrazione (REI), del Reddito di cittadinanza (RdC) ha rappresentato un tardo adeguamento del nostro sistema di protezione sociale a quanto è già da anni fatto acquisito nella stragrande maggioranza dei paesi europei.

Come altrove lo strumento viene definito, quale sostegno „di ultima istanza“, attraverso il perseguimento di due principali fini a beneficio delle famiglie a basso reddito con componenti in età di lavoro e non inabili:

  1. Contrasto alla povertà: mediante l’integrazione del reddito familiare attraverso un sussidio economico fino a determinati massimali ed eventuale contributo addizionale a copertura di costi per l‘affitto della propria abitazione
  2. Migliore inserimento o reinserimento nel mondo del lavoro: mediante un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale

Ricordando a) che esiste oggi un consenso internazionalmente esteso sull’opportunità di un duplice intervento, di reddito e di riqualifica, a sostegno dei lavoratori con basso reddito e dei loro nuclei familiari e b) che le critiche al tempo dell’introduzione del RdC si concentrarono fondamentalmente sul suo costo  e la generosità delle sue regole e non sul suo indirizzo[1], si resta sorpresi come negli ultimi tempi ci si pronunci nella coalizione di destra-centro in modo apertamente contrario agli stessi principi che lo informano e che ne giustificarono l‘introduzione.

Il RdC si qualifica, per quanto riguarda il primo fine di cui sopra, ovvero il contrasto alla povertà, di una forma condizionata di „minimo reddito garantito“ e non di un reddito corrisposto senza condizioni a tutti i cittadini, altrimenti detto „reddito di base“, come il nome del programma potrebbe invece indurre erroneamente a pensare. Tale ulteriore tema è in realtà distinto e attende ancora di essere propriamente affrontato.

A tre anni circa dall’entrata in vigore del RdC i risultati si lasciano per molti versi apprezzare a dispetto delle critiche per quanto riguarda l’obiettivo di contrasto alla povertà: nel 2021 sono state sostenute 1,8 milioni di famiglie, ovvero 3,9 milioni di persone, con un esborso totale di 8,8 miliardi di euro e un importo medio di 546 euro (fonte: INPS). Ciò ha permesso di elevare il beneficio economico ricevuto dalle famiglie beneficiarie (inclusi i contributi per l’affitto) al 23,9% del reddito mediano equivalente (dato 2019 – media UE 2017: 11,1%), in forte aumento rispetto al 5,5% rilevato nel 2017.

Il grafico qui allegato tratto dalla recente Relazione del Comitato Scientifico mostra non solo un confronto tra i vari livelli di beneficio dallo strumento del reddito di ultima istanza (in l’Italia: RdC) come percentuale del reddito mediano equivalente ma include per un paragone più completo (con riferimento, per l’Italia, anche al dato aggiuntivo per il 2019) anche altre fonti di sussidio che in Italia sono più modeste che nella maggior parte degli altri paesi. Secondo tale statistica l’Italia figura al quarto posto per generosità della somma degli interventi dopo i Paesi Bassi, Finlandia e Irlanda. È tuttavia da non dimenticare che i salari italiani si situino generalmente al di sotto delle medie europee rendendo meno lusinghiero il suo posizionamento. Graduatorie sulla base di altri criteri vedrebbero l’Italia in una posizione decisamente meno favorevole.

A quanti possono sentirsi tentati di osservare come il nostro Paese, oberato da un alto debito pubblico, si sia avventurato in un sostegno eccessivamente generoso a favore della popolazione in stato di bisogno si può a buona ragione opporre, come si osserva nella Relazione, che solo circa 37.000 famiglie su un totale di 1,6 milioni di nuclei che hanno beneficiato fino ad oggi del RdC (un mero 2,3%) godono di un reddito complessivo, incluso RdC, superiore alla soglia di povertà assoluta.

Il dente duole invece relativamente al raggiungimento del secondo obiettivo del RdC, l’inserimento nel mondo del lavoro. Gli ultimi dati pubblicati[2] (aprile 2022 – nota 8, Anpal – Agenzia Nazionale politiche Attive del Lavoro) riferiscono che al 31 dicembre 2021 solo il 45,6% (ovvero 385 mila) delle persone non esonerate al PPL-Patto Per il Lavoro era stato „caricato“[3]. Pur considerando ritardi non quantificati dovuti all’emergenza Covid-19, la durata media del processo fino al termine della sola analisi preliminare indicata nella Relazione appare oltremodo lunga:

Non soltanto il processo appare eccessivamente protratto – la Relazione richiama qui l‘insufficienza del personale adibito cui le recenti „finanziarie“ cercano opportunamente di ovviare con maggiori stanziamenti – ma i beneficiari stessi del RdC rivelano di avere una qualifica troppo bassa per soddisfare l’offerta di lavoro rendendo difficoltoso il processo di reintegrazione. Alla fine dell’anno scorso solo il 23% dei non esonerati dalla stipula del PPL era „vicino al mercato del lavoro“ (con cessazione dell’ultimo rapporto di lavoro nei tre anni precedenti – e solo l‘11% nell’anno precedente) mentre coloro che erano „lontani“(senza esperienza di lavoro negli ultimi tre anni) rappresentavano ben il 57% (fonte Anpal).  

Purtroppo non sono rilevabili statistiche che indichino il numero delle persone reintegrate nel mondo del lavoro grazie al RdC. Si tratta in ogni caso di un compito particolarmente arduo evidenziato dalla disparità tra offerta di lavoro e capacità di quanti cercano impiego come il Bollettino Excelsior di Unioncamere/Anpal rivela: „Ad agosto (2022 ndr), la difficoltà di reperimento dichiarata dalle imprese riguarda complessivamente il 41,6% delle assunzioni programmate (8,9 punti percentuali in più rispetto allo scorso anno).

Fonte: Relazione del Comitato Scientifico per la valutazione del Reddito di Cittadinanza 

[1] Un esempio fra i tanti in cosiderazione anche di una breve panoramica nei vari paesi europei: „Reddito di cittadinanza: un confronto con l’Europa“, Osservatorio CPI, Università Cattolica di Milano, 2018

[2] Nota 8, aprile 2022, Anpal – Agenzia Nazionale politiche Attive del Lavoro

[3] La Relazione distingue i passi seguenti: 1. Avvio presa in carico 2. Completamento analisi preliminare 3. Firma del patto (PaIS) 4. Monitoraggio del caso.
„Il percorso di presa in carico PaIS (PaIS) si compone di diverse fasi. Le attività di valutazione dei bisogni e delle risorse delle famiglie si concludono con la firma del Patto per l’Inclusione Sociale e la definizione di obiettivi, sostegni e impegni per la famiglia. Dopo la firma del PaIS, le famiglie inizieranno a ricevere i sostegni previsti e gli impegni verranno monitorati dall’assistente sociale. La durata del Patto può anche eccedere la durata della erogazione del beneficio economico“ (Relazione del Comitato Scientifico per la valutazione del Reddito di Cittadinanza)




Comunicato ufficiale sulla candidatura di Federico Quadrelli alla Camera dei Deputati – Elezioni 2022

Il Circolo PD Berlino e Brandeburgo è felice di vedere nella lista dei candidati PD per la Camera Federico Quadrelli, già Segretario del circolo e ora Presidente della federazione PD Germania. Il lavoro di questi anni, fatto d’incontri e approfondimenti con circoli in Europa e in Italia, di collaborazione con la SPD e la politica tedesca, di contributi forti al lavoro del partito, non ultimo il coordinamento della commissione che riformato lo Statuto PD Estero, è stato riconosciuto e premiato. Federico Quadrelli ha avuto un forte sostegno dei circoli PD in Germania e di altre federazioni in Europa. Riteniamo che sia una candidatura forte che può coinvolgere fasce di popolazione che fino a oggi non si sono sentite rappresentate, come i giovani, ma non solo. Un impegno politico chiaro sui temi dell’uguaglianza, della giustizia sociale, della lotta alle discriminazioni, in particolare sui diritti di cittadinanza, i diritti LGBTQI e per la parità di genere. Un europeo, un attivista espressione dei territori con grande esperienza politica e una forte sensibilità a nuovi temi, come quello ambientale. La nostra comunità è lieta di questa scelta ed è pronta a sostenere Quadrelli in questa campagna elettorale.

La Segreteria




Comunicato sulla candidatura di Federico Quadrelli alle elezioni alla Camera 2022

Nel contesto inedito di elezioni anticipate in cui ci ritroviamo a seguito della caduta del governo Draghi, e dopo una lunga e travagliata notte (fra il 15 e il 16 agosto) in cui si è arrivati ad esclusioni eccellenti, accogliamo con grande sollievo la notizia che la candidatura del nostro iscritto Federico Quadrelli per la Camera è stata accettata. Come noto, una candidatura all’estero non gode di posizionamenti più o meno vantaggiosi in lista, dato che all’estero vale il proporzionale puro con voto di preferenza. Si preannuncia dunque una campagna elettorale dura e un tour de force per far conoscere la proposta di Federico in giro per l’Europa, fra le/i nostre/i connazionali. Il programma di Federico raccoglie temi italiani e “tedeschi”, ma anche di respiro europeo, essendo Federico attivo all’interno del gruppo migrazioni dell’SPD. La Segreteria si congratula con lui e chiama all’appello iscritte, iscritti, simpatizzanti e interessate/i per sostenerlo in campagna elettorale. Abbiamo l’opportunità unica di portare i nostri temi a Roma e apportare un contributo positivo con la nostra esperienza internazionale ed europea. Abbiamo inoltre l’opportunità di esercitare un’influenza positiva sulla politica italiana per contrastare la deriva autoritaria del paese, una possibilità concreta dati i segnali non esattamente incoraggianti provenienti dalla destra.

In bocca al lupo, Federico, e mettiamoci al lavoro!

La Segreteria




Comunicato stampa congiunto a favore di Assange

Comunicato Stampa Congiunto
Amsterdam, 21 giugno 2022

“Un giorno buio per la libertà di stampa” (WikiLeaks)
La ministra dell’Interno del Regno Unito, Priti Patel, ha autorizzato l’estradizione di Julian Assange negli Usa per affrontare accuse relative alla Legge sullo spionaggio. Firmando l’ordine di trasferimento, la ministra Patel fa rischiare ad Assange fino a 175 anni di carcere.
“Questa decisione pone Assange in grande pericolo e invia un messaggio agghiacciante ai giornalisti in ogni parte del mondo”, ha dichiarato Agnés Callamard, segretaria generale di Amnesty International.
Il fondatore di Wikileaks negli Stati Uniti è ricercato per la pubblicazione sul suo sito di centinaia di migliaia di documenti classificati come rapporti dell’esercito statunitense sulle guerre in Iraq e Afghanistan, telegrammi diplomatici o documenti sui prigionieri di Guantanamo, incluse rivelazioni su abusi dei diritti umani commessi dalle truppe Usa.
Dopo la decisione di Patel, WikiLeaks ha immediatamente rilasciato una dichiarazione in cui afferma che farà ricorso contro l’ordine di estradizione. Qui trovate la dichiarazione.
Le implicazioni per la libertà di stampa e, di riflesso, per la democrazia in generale, non sono purtroppo delle più rosee. Julian Assange infatti, cittadino australiano, è divenuto un simbolo mondiale della libertà di stampa per il coraggioso lavoro portato avanti insieme all’ex analista militare statunitense, Chelsea Manning.
L’estradizione di Assange manda un segnale che rischia di minare principi di libertà di espressione ed all’accesso trasparente all’informazione su cui la democrazia si fonda.
Letizia Maulà, Segretaria del Partito Democratico Amsterdam
Lista completa dei firmatari nel documento originale (clicca qui)

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Fonte immagine: Committee to Protect Journalists

British Home Secretary approves Assange extradition to the United States




È uscito il numero di maggio di Agorà

Lunedì 30 maggio è stato pubblicato il numero di maggio del giornale di Circolo, Agorà. Agorà è un’iniziativa che si basa sul libero contributo di iscritte e iscritti a partecipare con le loro conoscenze su dei numeri tematici, pubblicati dietro iniziativa del Circolo e che non seguono una periodicità.

Nel numero di maggio si affronta il tema in Ucraina da una prospettiva geopolitica, economica e politica. Viene data attenzione al caso russo per cercare di risalire alle cause del conflitto e analizzare impatto e conseguenze. Hanno contribuito alla stesura del numero Alberto Vettese, Federico Salvati, Pierantonio Rumignani e Federico Quadrelli. Ha redatto il numero Alberto Vettese.

Agorà maggio 2022




Comunicato sull’aggressione russa dell’Ucraina

Il PD Berlino-Brandeburgo rappresentato dall’organo direttivo

1. condanna l’operazione militare aggressiva e ingiustificata nei confronti dell’Ucraina avviata nella scorsa settimana.
Le principali città ucraine sono sotto il fuoco dell’esercito russo: Kharkiv, Kyiv, Odessa, Dniepro, più diverse città sulla sponda est del fiume Dniepro.

2. qualifica il discorso alla nazione del presidente Putin, nella giornata precedente come fortemente nazionalista e reazionario e nota che la Russia ha fomentato il conflitto per un anno usando il pretesto di esercitazioni militari congiunte con la Bielorussia e senza mai ritirare le truppe dalle postazioni di confine.

3. riafferma l’importanza del rispetto dei confini e dell’indipendenza dell’Ucraina. La fine dell’URSS avvenne nel 1991 con la dichiarazione de-facto di indipendenza dall’URSS della Federazione Russa di Eltsin ed in seguito di tutte le altre Repubbliche, tra cui della Repubblica Socialista Ucraina.
Da allora l’Ucraina è un paese indipendente riconosciuto dalla stessa Federazione Russa, con legittima aspirazione Europee.
Il PD Berlino-Brandenburgo guarda dunque con grande preoccupazione alla lesione di accordi che mettono in dubbio il sistema di cooperazione internazionale che nei decenni passati ha evitato conflitti di scala maggiore.

Prendendo atto delle scelte aggressive della Russia e con il desiderio di mantenere un sistema internazionale che possa garantire pace e prosperità invece che guerre il PD Berlino-Brandenburgo si appella ai governi europei ed ai nostri rappresentanti PD nel governo italiano per il conseguimento dei seguenti obiettivi:

a) Il mantenimento ed inasprimento di dure sanzioni economiche per isolare la Russia dal sistema di cooperazione internazionale che ha scelto di ignorare.

b) La creazione nel medio termine di una forza di difesa europea con stazionamento a est per proteggere i paesi che hanno più da temere (Baltico, Finlandia).

c) La razionalizzazione della produzione bellica con riduzione di modelli a favore di maggiori volumi, spostamento di competenze verso la commissione con un ministro degli esteri.

d) La sincronizzazione della riduzione dell’utilizzo dell’energia fossile unitamente quella della dipendenza dalla Russia.

e) Il congelamento di conti bancari intestati a russi o società di comodo (in particolare Cipro) e di proprietà immobiliare fino all’espropriazione.

d) Il blocco all’accesso al mercato dei capitali europeo per le imprese russe.

Queste misure devo però essere accompagnata dalla massima disponibilità al dialogo. L’ obiettivo rimane un sistema di cooperazione pacifica internazionale e non un’escalazione del conflitto.
Allo stesso modo i contatti con la società civile russa vanno sostenuti con decisione.

 

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Fonte immagine: https://apnews.com/article/russia-ukraine-europe-russia-media-kyiv-bcbfb2c802a44d94b89343ac1d3afbae