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Può essere il 70%+ dei francesi in errore? “Ni”, ma non “no”, anche considerando l’interesse dei ceti meno abbienti

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Sul piano dei principi democratici la risposta è delle più semplici: è temerario e ingiustificabile che un Presidente della Repubblica nel suo ruolo “esecutivo” si sovrapponga alla volontà della maggioranza della propria popolazione, mettendo nell’angolo il potere legislativo attraverso l’uso formalistico della sfiducia in Parlamento per evitare il voto (ma non suona noto a noi italiani?). Ancora una volta, fra l’altro, tocchiamo con mano i problemi insiti in ogni sistema presidenziale, sempre preso dalla necessità di trovare un equilibrio tra i vari poteri dello Stato – negli USA come in Francia. Se poi il Presidente ha allures regali e sembra trovare gusto nell’affermazione di sé e del proprio ruolo nel paese dei sollevamenti popolari, tra jacqueries oscurantiste e giacobinismo sanculotto, le proteste anche violente non si fanno attendere.

Ma c’è una seconda ragione che parla a favore di una risposta positiva al quesito: ogni paese è libero di scegliere il proprio tenore di vita distribuendo le risorse tra presente e futuro, decidendo tra l’altro del livello delle proprie pensioni. Se è vero che la Francia presenta dati statistici particolari è pure vero che ciò riflette preferenze che non possono essere messe in discussione – ma attenzione: a meno di contraddizioni che rimangono sovente sconosciute al normale cittadino perché nascoste tra le pieghe delle statistiche o anche perché più o meno incoscientemente rimosse per la loro scomodità. In tale caso una discussione si impone, soprattutto se a lungo termine i possibili perdenti sono i ceti meno abbienti.

È da considerare inoltre che le preferenze dei cittadini francesi si sono profondamente modificate negli ultimi decenni. Un’indagine condotta per la Fondation Jean Jaurès mostra come l’attività lavorativa sia scesa drammaticamente in termini di priorità di vita: dal 60% nel 1990 al 24% trenta anni dopo mentre il valore del tempo libero è salito di dieci punti percentuali dal 31% al 41%. Ciò non deve sorprendere considerando che lo stress sul lavoro è costantemente aumentato nel tempo accompagnandosi a una stagnazione dei redditi nei quartili più bassi portando a numerose manifestazioni collegate alla “great resignation”, ovvero al fenomeno dell’abbandono del posto di lavoro da parte dei lavoratori subordinati per scelta di vita.  

Che i tempi siano cambiati dimostra anche un paragone con quanto avvenuto al tempo della riforma Balladur, ministro del governo Mitterand, che portò nel 1993 il numero minimo degli anni contributivi da 37,5 a 40 senza incontrare praticamente opposizione. Ancor meno difficile fu il caso della precedente legge Boulin sotto Pompidou nel 1971 che portò gli anni contributivi in modo drastico da 30 a 37,5. In realtà, come più volte ricordato dai giornali nei giorni scorsi, il cuore francese batte per la legge Auroux, ministro del governo Mitterand, che nel 1983 ridusse l’età pensionistica da 65 a 60 anni con 37,5 anni contributivi. Occorre tuttavia ricordare qui un dettaglio importante che gioca ancora oggi un ruolo importante nella critica alla riforma Macron di questi giorni: fine centrale delle misure di Auroux era la riduzione della disoccupazione, in particolare di quella giovanile, che si era acuita fortemente negli anni settanta, attraverso un pensionamento più rapido, misura dal successo assai contestato sulla base dei rilievi statistici generalmente deludenti successivi all’introduzione di tali norme. Oggi il tema del prepensionamento non sembra avere più l’importanza di allora, allorché, sempre in Francia, esso rappresentava fino a un quarto dei nuovi pensionamenti. Il prepensionamento porta alla rinuncia di know-how importante nelle aziende – oggi un grave problema.

La Francia è un paese in cui la decisione consolidata negli anni è chiaramente quella di un sistema sociale generoso e ad alto costo che include un’età particolarmente bassa di pensionamento come il grafico seguente mostra (la statistica dell’OECD distingue purtroppo tra uomini e donne senza la stima di una media – l’andamento del grafico relativo alle donne non è dissimile).

Non solo l’età di pensionamento è particolarmente bassa rispetto ad altri paesi, ma il tasso di sostituzione (la percentuale della pensione sull’ultimo stipendio percepito) è tra i più elevati così come la spesa pensionistica in rapporto al PIL è inferiore solo a Grecia e Italia inquadrandosi in uno schema di alta spesa sociale, la più elevata dei paesi coperti dalle statistiche dell’OECD.

Il problema – non solo riguardo alla Francia – si riduce in sostanza, per quanto detto sopra, al quesito sulla sostenibilità nel tempo del sistema a ripartizione che è basato in Francia, come da tempo anche in Italia, sui contributi prestati e non sul reddito percepito. Qui le opinioni divergono nel paese transalpino anche se si fa universalmente riferimento alle previsioni prodotte annualmente dall’organismo indipendente di saggi COR – Conseil d’Orientation des Retraites, in un lungo rapporto di circa 350 pagine che esamina in modo particolarmente dettagliato i parametri che determinano la spesa pensionistica sulla base di molteplici fattori che vanno da quelli relativi al contesto demografico e all’andamento della popolazione attiva fino all’evoluzione della produttività del lavoro per la quale vengono sviluppate quattro ipotesi, in un ventaglio che va da un aumento medio dello 0,7% all’1,6% annuo in un orizzonte temporale fino al 2070 sull’ipotesi di un tasso medio della disoccupazione del 7%.

Il seguente grafico del Rapporto 2022 del COR – in cui l’andamento della spesa pensionistica in relazione al PIL si stabilizza dopo il 2035 senza che tale rapporto superi il picco avuto nel 2021 a causa del Covid – mostrerebbe che l’allarmismo da parte del governo sia fondamentalmente ingiustificato.

Grafico 1 – Spesa pensionistica come percentuale sul PIL – 2000-2070

Tuttavia, analizzando le ipotesi alla base delle proiezioni, le cose si fanno più complicate – e non solo perché l’espansione prevista del monte pensioni dell’1,8% annuo è ben più veloce dell’aumento della spesa pubblica totale dello 0,6% sulla base del Programma di stabilità del governo (PSTAB) 2022-2027 ove la spesa per le pensioni rappresenta attualmente circa un quarto degli impegni dello stato francese. Di fatto si prevede da qui al 2032, sulla base del regime attuale contributivo, un aumento dell’incidenza della spesa sul PIL dal 13,8% al 14,7%, pari al picco del 2021, nel 2035 secondo l’ipotesi più pessimista dell’andamento della produttività (0,7% all’anno) per poi restare sostanzialmente costante, sempre in tale ipotesi, o addirittura in riduzione nelle altre. Il governo prevede che il saldo del bilancio pensionistico, ancora positivo nel 2021 per circa € 900 milioni (entrate: € 346 mrd; uscite: € 345 mrd) diventi negativo fino a raggiungere € 21,2 mrd nel 2035.

Per quanto riguarda il grafico della spesa pensionistica occorre osservare quanto segue – ove l’ultimo punto appare di particolare importanza:

  1. L’andamento orizzontale della curva pensionistica nel periodo 2022-27 è fortemente influenzata dall’ipotesi di una riduzione al 5% del tasso di disoccupazione prevista dal Programma di stabilità – previsione che può apparire ottimista se confrontata con il livello storico della disoccupazione in Francia, per lo più al di sopra dell’8% a partire dall’anno 2000. In modo più prudente il COR prevede per il periodo successivo un riassestamento della disoccupazione al 7%. In ragione di una eventuale mancata riduzione della disoccupazione la curva della spesa pensionistica riprenderà l’andamento verso l’alto prima del 2027 producendo deficit sostanzialmente maggiori di quelli programmati.

Grafico 2 – Tasso annuo medio di disoccupazione 2000-2021 (fonte: OECD)

  • I dati statistici di questo secolo indicano per la Francia un aumento medio della produttività del lavoro al di sotto dello 0,7% (0,43% nel periodo 2010-2021 e 0,57% nel periodo 2000-2021; fonte: OECD). Il ventaglio delle ipotesi del Rapporto COR appare quindi tendenzialmente ottimistico e la curva futura della percentuale della spesa pensionistica sul PIL potrebbe ritrovarsi comodamente sopra quelle mostrate nel grafico.
  • In conseguenza del progressivo aumento del minimo degli anni di contribuzione a 43 (riforma Touraine del 2014, governo Hollande) è in atto un ulteriore aumento previsto dell’età effettiva media di pensionamento (media generale – base diversa rispetto a quella del grafico precedente) da 62,4 anni nel 2022 a 63,7 anni verso la metà del prossimo decennio. Senza tale movimento la curva del grafico 1, già più bassa per un aumento indipendente della popolazione attiva francese (OECD: 80,8% sulla popolazione in età da lavoro nel 2022; + 3,5% circa rispetto all’anno 2000), sarebbe maggiormente inclinata verso l’alto contribuendo a un maggiore carico della spesa pensionistica sul PIL.

Grafico 3 – Età media di pensionamento

  • Con la legge Balladur del 1993 il sistema pensionistico pubblico francese, a differenza ad esempio di quelli vigenti in Germania e Italia, passò da una rivalutazione delle pensioni correnti sulla base dell’andamento dei salari a quello sulla base dell’inflazione. Ciò ha significato la continuazione della difesa delle pensioni in termini reali ma privandole della partecipazione all’aumento della produttività del lavoro. Ciò avrà una forte incidenza in futuro in un confronto con il livello di reddito lordo delle persone attive. Nel periodo considerato dalla proiezione del COR ciò significherà, sulla base della presente legislazione, una consistente riduzione relativa delle pensioni ben di più di un quinto rispetto ai salariati al termine del periodo di previsione nell’ipotesi meno positiva dell’evoluzione della produttività (+0,7%).

Grafico 4 – Pensione media in rapporto al reddito medio della popolazione attiva

Ciò significa, come mostrato dal successivo grafico 5, che il tenore di vita dei pensionati, che aveva raggiunto quello del resto della popolazione all’inizio del secolo per poi mantenere il livello raggiunto, si ridurrebbe sensibilmente in futuro nel confronto relativo.

Garfico 5 – Tenore medio di vita dei pensionati come percentuale di quello medio della popolazione

Sulla base del veloce esame dei dati statistici possiamo quindi dire in conclusione:

  1. Le proiezioni del COR mostrano la possibilità di un sostanziale contenimento del carico della spesa pensionistica a lungo termine anche senza l’introduzione di ulteriore legislazione, per quanto a un livello elevato sul PIL. Un incremento apprezzabile nel prossimo decennio è comunque da attendersi. È bene ricordare che in assenza dei numerosi interventi regolatori del passato l’incidenza della spesa pensionistica sul PIL sarebbe oggi superiore di ben circa il 4% (corrispondendo a un aumento di circa un terzo del deficit) rispetto al livello attuale secondo i calcoli del COR.
  2. Il COR attira l’attenzione sul fatto che le variabili in questione così come i parametri di intervento sono molteplici e non facili da predire rendendo più che possibili scostamenti del deficit pensionistico, anche sostanziali rispetto alle proiezioni elaborate. Queste possono inoltre apparire ottimistiche in alcune aree sulla base delle serie storiche come osservato sopra contribuendo ulteriormente all’incertezza.
  3. Il precario equilibrio della spesa pensionistica è stato “comprato” sostanzialmente con l’aggancio delle pensioni alla sola inflazione senza partecipazione, neanche parziale, all’aumento dei salari (come in Germania e Italia) comportando in prospettiva un impoverimento degli anziani rispetto al resto della popolazione. In ogni caso, la forte pressione che nasce dalla inesorabile riduzione verso la parità numerica dei contributori rispetto ai percettori di pensione rimane una fonte imprevedibile di incertezza.

Di fronte a questo scenario Macron decise verso la fine dell’anno scorso di spingere per una (da lui considerata) urgente riforma del sistema pensionistico elevando, in particolare, l’età minima per la pensione da 62 a 64 anni, anticipando l’aumento del periodo minimo contributivo da 42 a 43 anni (già previsto dalla legge Touraine) e aumentando la pensione minima all’85% dello SMIC (salario minimo) nonché prospettando una semplificazione dei numerosi regimi pensionistici esistenti (se ne contano ben 42 più una varietà di regimi complementari e supplementari). Le conclusioni esposte sopra, oltre la ben conosciuta e crescente avversione dei cittadini francesi verso ulteriori riforme pensionistiche, rendono difficile da comprendere l’urgenza della scommessa di Macron che ha fatto della riforma delle pensioni il punto focale della sua battaglia politica contro la Nupes di Mélenchon e il Rassemblement National di Marine Le Pen senza avere cercato e trovato un appoggio presso i sindacati, in particolare della CFDT, la maggiore organizzazione francese per numeri di iscritti. Tale sindacato è stato più che sovente in passato la sponda per i governi nei numerosi processi di modifica del sistema pensionistico.

L’interpretazione più ovvia della scelta di Macron, che non era riuscito in un primo tentativo quattro anni fa, complice il Covid, è quella di spiegare la mossa con il calcolo di formare direttamente una maggioranza in parlamento assieme ai conservatori moderati e in particolare ai repubblicani provocando una sconfitta clamorosa delle opposizioni. Altre interpretazioni attirano inoltre l’attenzione sul fatto che questo è l’ultimo mandato per Macron come Presidente della Repubblica e che questo lo abbia potuto indurre a osare di più.

La pessima comunicazione e la mancanza di dialogo, caratteristiche della persona Macron, hanno tuttavia fatto passare in secondo piano ogni obiettivo merito delle misure proposte. Il risultato è stato il compattamento dell’opposizione e dei sindacati spostando l’accesa discussione sulla persona di Macron e sullo stesso sistema presidenziale francese dato che il provvedimento è stato fatto passare in modo provocatorio ponendo la fiducia secondo l’art. 49.3 della Costituzione e senza sottoporlo quindi al voto dei deputati. Si è trattato di una fuga in avanti viste le difficoltà di trovare il consenso sperato dei partiti conservatori per raggiungere una maggioranza alla Camera dei deputati.

Le critiche rivolte al piano di riforma di Macron dalla sinistra vertono principalmente sull’aumento degli squilibri già esistenti. Prendendo l’economista Piketty1 come portavoce autorevole di tali critiche e senza dimenticare che il motore principale della “piazza” appare rappresentato dal semplice rifiuto di un allungamento della vita lavorativa, queste si concentrano sull’aumento delle diseguaglianze causato dalla nuova legge a vantaggio di chi ha più ricchezza. I divari dei tassi di contribuzione aumentano conseguentemente all’incremento del periodo contributivo poiché ciò va maggiormente a carico di coloro che entrano più presto nel mercato del lavoro e quindi di chi ha meno. La maggiore età legale di pensionamento significa inoltre che il rischio di povertà aumenti per chi è esposto maggiormente all’eventualità di licenziamento in età matura ma ancora relativamente lontana dal pensionamento. A correzione del sistema attuale Piketty suggerisce l’introduzione di un sistema universale in sostituzione dei numerosi regimi attuali sulla base della concessione della pensione piena in dipendenza solamente del numero degli anni di versamento, di una maggiore progressività operando su una differenziazione del tasso di sostituzione e di una maggiore giustizia incrementando la progressività dei contributi.

Nel riportare sull’opposizione generalizzata alla riforma di Macron molti commentatori fanno riferimento al fronte comune mostrato in questo frangente dai sindacati francesi2. In realtà la loro posizione originaria non è la medesima sulle pensioni, anche se l’intersindacale (organo informale comune dei sindacati) ha recentemente serrato i ranghi in seguito ai crescenti contrasti con l’amministrazione. La CFDT ad esempio, il maggiore sindacato francese per numeri di iscritti, aveva fatto intendere più volte in passato di essere disponibile a discutere una soluzione pensionistica universale con un sistema a punti e un possibile aumento della vita lavorativa in considerazione dell’allungamento della speranza di vita (così il segretario, Laurent Berger, nel suo discorso all’apertura del congresso di metà dell’anno scorso – posizione poi corretta in fase di discussione). Su questo approccio Macron aveva segnalato interesse, così come era avvenuto quattro anni fa al primo tentativo di riforma del suo governo, e molti avevano atteso in questa tornata una sua intesa di massima con la CFDT – cosa che non si è poi realizzata.

È utile a questo punto confrontare le posizioni ufficiali dei due sindacati maggiori, CFDT e CGT in merito a una riforma del sistema pensionistico.

La proposta avanzata questo mese dalla CGT3 può essere riassunta semplicemente come una serie di misure mirate ad allargare la base di contribuzione, in gran parte “a spese del capitale”:

  1. Aumento generalizzato dei salari, tra cui incremento del salario minimo a € 2.000 (oggi: € 1.709,28)
  2. Assunzione di 200.000 nuovi dipendenti da parte dello stato, di cui la metà nella sanità
  3. Assunzione di 100.000 persone nell’economia privata conseguente alla riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore
  4. Abolizione delle esenzioni esistenti al pagamento di contributi sociali
  5. Assoggettamento dei redditi da capitale, in particolare dei dividendi4, al pagamento di contributi sociali
  6. Assoggettamento alla contribuzione, sia per i salariati che per gli imprenditori, dei redditi da lavoro attualmente esenti (in generale: tutte le forme di interessamento all’impresa dei dipendenti)
  7. Aumento delle quote contributive

Si tratta di un programma radicale pensato principalmente in chiave di antagonismo tra reddito da lavoro e reddito da capitale che si ripartiscono un valore aggiunto fondamentalmente dato e dove la quota destinata ai lavoratori può essere aumentata a spese dall’altra senza conseguenze apparenti per la produzione di ricchezza. Tale approccio che propone misure a forti dosi sembra fare a meno di considerazioni sugli effetti macroeconomici. Questi porterebbero senza dubbio, fra altre conseguenze relative al PIL, a minori investimenti, contrariamente a quanto sostenuto in un brevissimo passaggio del documento. Interventi perequativi del reddito sarebbero in realtà molto più indicati nel contesto dell’imposizione diretta poiché essi avverrebbero in un ambito più generale e organico.  

Di tutto altro tono è la proposta della CFDT4, concentrata su una profonda ristrutturazione del sistema che preveda l’introduzione di un conteggio a punti5 mantenendo peraltro i diritti acquisiti fino all’introduzione della riforma, un’opportuna calibrazione dei parametri a favore dei redditi più bassi e dei curricoli dominati da lavori pesanti (ovvero della cosiddetta “pénibilité”) così come la possibilità di un passaggio graduale alla pensione implicando anche, con una cessazione progressiva dell’attività, la possibilità di un cumulo di reddito da lavoro e pensione. Punti importanti sono inoltre l’universalità del sistema, implicando anche una soluzione all’annoso problema dei regimi speciali (ad esempio a favore dei ferrovieri), e la dinamizzazione del valore dei punti sull’andamento dei salari e non più dell’inflazione.

Malgrado i contrasti sanguigni nella popolazione e la complessità del tema alcuni punti possono essere avanzati senza particolare timore di ritrovarsi in errore:

  • La bassa età di pensionamento in Francia è l’espressione di una preferenza della popolazione, almeno al momento attuale. Un’età superiore di pensionamento non è tuttavia necessariamente associata a lesioni di diritti acquisiti, a meno di voler santificare la ormai lontana legge Auroux (1982, governo Mitterand) come molti fanno. In un paese socialmente avanzato come la Svezia, tra gli esempi dei paesi nordici, l’età media effettiva di pensionamento è di 66 anni circa – per non scomodare gli stakanovisti giapponesi che sono a 68 anni. È inoltre previsto in Svezia un adeguamento automatico dell’età pensionabile6 sulla base dell’andamento della speranza di vita, apparentemente un anatema per moltissimi francesi.
  • Le variabili di regolazione delle pensioni sono assai numerose e l’età di pensionamento è solo una di queste, anche se una delle più potenti. Rinunciando al suo utilizzo per riequilibrare il bilancio delle pensioni, come la Francia intende fare, significa sostituire il suo effetto con quello di altre meno efficaci – questo in una situazione ove uno dei problemi maggiori in prospettiva è quello del forte impoverimento dei pensionati relativamente al resto della popolazione sulla base delle disposizioni attuali. Questo tema è ben presente a sindacati quale la CFDT come mostrano le sue proposte.
  • Un ripensamento del sistema pensionistico francese al pari di altri paesi appare opportuno – in particolare nel caso si intenda eliminare alla radice il problema dell’età pensionabile flessibilizzando l’uscita dal mondo del lavoro e inserendo fasi intermedie tra lavoro a tempo pieno e pensione.
    La complessità e la forte incertezza delle proiezioni consigliano infine una profonda riforma in modo da rendere il sistema pensionistico più robusto contro andamenti negativi dell’economia, soprattutto se non previsti.
    L’introduzione inoltre di un sistema universale faciliterebbe grandemente una ricalibrazione più equa delle pensioni ove il sistema pensionistico deve essere visto in rapporto a tutte le altri leggi relative alla protezione sociale, in particolare con riferimento alla disoccupazione e al livello di reddito minimo.

Un’ultima osservazione sia concessa, malgrado, come detto sopra, le decisioni siano da prendere democraticamente a buona maggioranza: alcuni – tra cui il sottoscritto – ritengono che l’esercizio di un’attività produttiva per la società cui si appartiene faccia parte del contratto sociale che la governa. A costoro sembra logico e naturale che ad un aumento della vitalità delle persone in corrispondenza dell’allungamento della vita attesa debba fare seguito anche uno spostamento in là nel tempo della fine dell’età lavorativa.

PAR 31.03.2023

1 https://www.lemonde.fr/blog/piketty/2023/02/14/sortir-de-la-crise-des-retraites/

2 È significativo ricordare che i sindacati francesi derivano la forza della loro posizione contrattuale più dalla applicazione molto elevata dei contratti collettivi (copertura: 98% dei salariati – banca dati ILO; Italia: 99,0%) piuttosto che dal tasso di sindacalizzazione che è particolarmente basso (9% – banca dati ILO; Italia: 32,5%). I sindacati nazionali sono otto in Francia.

3  https://www.cgt.fr/actualites/france/retraite/mobilisation/la-cgt-propose-une-autre-reforme-du-systeme-des-retraites

4 Il taglio dell’approccio della CGT su questo punto è reso in modo plastico dalla frase seguente: “In modo più generale noi auspichiamo l’azzeramento dei dividendi o che essi almeno vengano ridotti a qualcosa di trascurabile” (De manière plus générale, nous souhaitons que les dividendes disparaissent ou au moins soient réduits à peau de chagrin). 

4 https://www.cfdt.fr/upload/docs/application/pdf/2023-02/tract_retraites_revendications _et_obtentions_ de_la_cfdt_-_pdf_avec_traits_de_coupe.pdf

5 Da accumulare nel periodo contributivo e da convertire in un livello pensionistico al momento del pensionamento – Piketty è favorevole invece a una soluzione non troppo dissimile con l’utilizzo di conti nozionali. Uno dei vantaggi di tali sistemi è che essi possono fare a meno dell’età pensionabile grazie alla propria flessibilità Un sistema a punti è già applicato alle pensioni supplementari (AGIRC – ARRCO).

6 In Svezia esiste fondamentalmente una forchetta d’età per il pensionamento tra un minimo di 62 anni e un massimo di 68 anni. L’importo della pensione viene cumulato nel tempo fino a un massimo di 8,07 volte il reddito base, nel 2022 pari a SEK 71.000 (SEK 1 = 0,089 €). È interessante notare che coloro che hanno redditi annui superiori a SEK 672.600 non hanno diritto alla pensione statale.




Soluzione spagnola per i contratti di lavoro italiani? Così pensa Schlein

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Didascalia: Le parti sociali il giorno della firma dell’accordo sulla “reforma laboral” del 2021. In primo piano il presidente del governo, Pedro Sanchez, a destra la ministra del lavoro, Yolanda Díaz

Uno dei temi toccati sovente da Schlein durante la campagna elettorale è stato quello dell’introduzione anche in Italia di regole che riducano la possibilità dell’uso dei contratti a tempo determinato rendendo di default quelli a tempo indeterminato così come è avvenuto in Spagna con l’approvazione della “Reforma laboral” (l’ennesima: circa una trentina di provvedimenti legislativi si sono succeduti dalla fine degli anni settanta) a ridosso del Capodanno con il Real Decreto-ley 32/2021 del 28.12.2021. Ragione della fretta era quella di arrivare in tempo per assicurarsi l’utilizzo di 10 dei 140 mrd di euro del fondo NextGenerationEU destinati al paese iberico.

L’accordo tripartito tra le parti sociali, caso raro nel passato (l’ultima volta fu nel 2006 in un’occasione significativamente meno importante), fu siglato dopo lunghe ed estenuanti trattative e coronato dall’assenso finale delle varie organizzazioni sul filo di lana dopo l’astensione di una parte di quelle padronali mentre gli organi deliberanti delle parti sindacali principali (CCOO e UGT) si espressero all’unanimità. L’approvazione della legge a pochi giorni di distanza in Parlamento avvenne con lo scarto di un solo voto (175 contro 174) al termine di furiose contestazioni a causa di errori tecnici avvenuti in fase di votazione.

Data l’importanza della legge al fine di dare una struttura più stabile ai rapporti di lavoro riducendo il fenomeno del precariato è interessante esaminare gli aspetti salienti della riforma spagnola e i risultati acquisiti finora in modo da avere un’indicazione sull’opportunità di un’applicazione anche nel nostro paese. A questo proposito è bene ricordare che la Spagna si contraddistingue storicamente per un alto tasso di disoccupazione (attualmente a circa il 13%) e una bassa frequenza dei contratti a tempo indeterminato (vedi grafici), ancor più dell’Italia – ragione in più per prestare attenzione ai dettagli delle misure in materia di lavoro introdotte in tale paese.

A parte altri aspetti, anch’essi importanti, relativi fra l’altro a una revisione dei contratti formativi, alle frodi in materia di lavoro (tra cui: false dichiarazioni di lavoro autonomo), all’aumento del salario generale minimo al 60% di quello medio spagnolo (SMI – “salario minimo interprofesional” ora fissato per il 2023 a € 1.080/mese) nonché alla cancellazione di misure introdotte dal governo Rajoy nel 2012 quali la subordinazione dei contratti nazionali a quelli aziendali, la limitazione a un anno della loro efficacia temporale oltre la scadenza in mancanza di nuovo accordo (la cosiddetta “ultraactividad”, ora nuovamente illimitata) e l’assoggettamento dei subcontratti al contratto nazionale del subcontrattante, la parte centrale della legge delega è dedicata a un riordino della contrattualistica del lavoro.

Con la nuova legge è stato introdotto il principio secondo il quale il contratto di lavoro sia per definizione a tempo indeterminato a meno di situazioni definite che permettono l’utilizzo di accordi a termine ora ristretti a due soli tipi avendo abolito il contratto d’opera (“por obra y servicio”): a- per motivi di sostituzione di altri lavoratori su base temporanea e b- per motivi strutturali con due varianti, ovvero per temporaneo fabbisogno “prevedibile” di breve durata o “imprevedibile” per improvvise necessità dell’impresa come picchi della produzione. È qui da notare l’esplicita intenzione del legislatore di contenere la tipologia contrattuale.

La durata dei contratti a termine è stata significativamente ridotta così come il numero dei loro possibili rinnovi: il primo tipo di cui sopra a una durata complessiva di 90 giorni in un anno, anche non consecutivi, e il secondo a una durata massima di 90 giorni rinnovabile più volte fino al massimo totale di un anno. È interessante ricordare che il precedente contratto d’opera poteva essere rinnovato fino a una durata totale di ben tre anni, quattro in determinate circostanze.

Come chiave di volta di tutta l’architettura si considera dipendente fisso il lavoratore che negli ultimi 24 mesi è stato impiegato per almeno 18 mesi (precedentemente: 30 e 24 mesi rispettivamente).  

Per quanto riguarda la formazione si prevedono solo due tipi contrattuali. Il primo di carattere duale (“formativo en alternancia” di lavoro e istruzione) e di durata da tre mesi a due anni con limite di età per il percettore a 30 anni (precedentemente: 25) e il secondo “per l’ottenimento di pratica professionale” con una durata massima di un anno (precedentemente: 2).  

I dati relativi alla disoccupazione, in leggera riduzione dal 13,3% nel dicembre 2021, all’epoca dell’approvazione della legge, al 13% lo scorso gennaio, e quindi senza i pesanti aumenti paventati dall’opposizione sembrano dare ragione al governo spagnolo dopo che il rapporto tra nuovi contratti a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato ha subito una radicale riduzione dal 90% circa al 50 – 60% in seguito all’introduzione della nuova legge di riforma. La percentuale dei contratti a tempo indeterminato in essere sul totale dei contratti ha raggiunto ultimamente quasi l’80% con un aumento di circa quattro punti percentuali in un solo anno.

È da segnalare che la spinta del mercato del lavoro verso la conclusione di contratti a tempo indeterminato è facilitato dalla legittimità in Spagna del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (“despido objetivo”) dovuto a cause “economiche, tecniche, organizzative o della produzione” (art. 52, Estatuto de los Trabajadores) ove esse, tranne la prima, non sono collegate di necessità a una situazione di crisi del datore di lavoro e sono sufficienti a giustificare il licenziamento che quindi non risulta “abusivo” se determinate forme e condizioni sono rispettate. In tale caso il licenziamento è legittimo (“procedente”) e il lavoratore ha diritto a un risarcimento che dipende dalla sua anzianità di impiego secondo uno schema a tutele crescenti. Ma anche quando le condizioni non sono rispettate e il licenziamento è pertanto giudicato illegittimo (“improcedente”), il datore di lavoro ha la scelta tra la reintegra e il pagamento di un indennizzo salariale ulteriore da corrispondere al lavoratore per il periodo della sua disoccupazione fino alla sentenza del tribunale o, se precedente, a una nuova occupazione (cosiddetto “salario de tramitación”).

Non vi sono attualmente discussioni in Spagna su un ampliamento dell’applicazione della reintegra che è obbligatoria solo nel caso di dichiarazione di nullità del licenziamento per atto discriminatorio o attentato contro diritti e libertà fondamentali della persona. Le richieste sindacali (un ricorso del sindacato UGT è al momento pendente presso il Comitato europeo dei diritti sociali riguardo al licenziamento improcedente) riguardano in prevalenza l’ottenimento di più alti indennizzi per il lavoratore, che il governo Rajoy portò nel 2012 a 20 giorni di salario (33 nel caso improcedente) per ogni anno di anzianità con un massimo di 12 anni. Si tratta effettivamente di valori decisamente inferiori a quelli applicati in genere in Italia (un salario mensile per anno di anzianità aziendale con un massimo di 36 anni e un minimo di 6).

Pur essendo ancora presto per un giudizio compiuto sui benefici dall’introduzione in Spagna dell’obbligatorietà del contratto a tempo indeterminato, salve situazioni ben definite e relativamente ristrette, si può concludere sulla base dei dati finora disponibili (per quanto in mancanza di informazioni sull’andamento dei litigi) che un miglioramento apprezzabile della protezione del lavoratore dipendente possa essere atteso e che sia più che opportuna una riflessione in merito anche nel nostro paese. Da considerare pure è la semplificazione della tipologia dei contratti come perseguito in Spagna con beneficio anche per le funzioni di controllo del mercato.




Abolizione del Jobs Act? Che fare con l’art.18?

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Da molte parti si richiede l’abolizione del Jobs Act e il più delle volte senza altra specificazione dimenticando che esso è costituito da ben otto decreti emessi nel 2015 a copertura di una vastissima area del diritto del lavoro. Gli strali riguardano sovente anche il principio stesso della “flexicurity” vista in modo erroneo come espressione del pensiero neoliberale mentre essa è nata già alla fine degli anni ottanta nei paesi scandinavi, in particolare in Danimarca, e nei Paesi Bassi (invito a leggere il rapporto della insospettabile Friedrich Ebert Stiftung: “Flexicurity: Ein europäisches Konzept und seine nationale Umsetzung”, aprile 2008). La flexicurity sta in realtà per una politica alla ricerca di un equilibrio tra protezione del lavoratore e flessibilità operativa delle aziende e, in tale contesto, di una divisione equilibrata dei costi sociali dell’occupazione tra impresa e mano pubblica. Il pensiero corre quindi subito al tema del sostegno alla disoccupazione, in particolare riguardo al caso di licenziamenti per motivi economici che è il vero pallino della discordia legato all’accantonamento (non abbiamo qui giuridicamente un’abrogazione – vedi oltre) dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori: in primo luogo in termini preventivi impedendo il licenziamento facile da parte delle aziende – fra l’altro, mediante l’imposizione ad esse di un costo associato sufficientemente elevato – e, in secondo luogo, attraverso un adeguato intervento dello Stato oltre a quello imposto alle imprese.

Che nel nostro paese si sia cercata la via della dissuasione forte nei confronti dell’economia in fatto di licenziamenti è un dato che è stato ammesso in passato anche dal sindacato. Non solo nel 2003 la stessa CGIL fece una proposta che prevedeva in determinate condizioni l’indennizzo del lavoratore, ma i suoi stessi segretari generali ebbero a dire come l’autorevole Lucio Lama in una famosa intervista condotta da Eugenio Scalfari nel lontano 1978: “C’è un certo numero di aziende che ha un carico di dipendenti eccessivo… Noi siamo tuttavia convinti che imporre alle aziende quote di manodopera eccedenti sia una politica suicida. L’economia italiana sta piegandosi sulle ginocchia anche a causa di questa politica.” e, più oltre “È una svolta di fondo. Dal ’69 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza lavoro…”. Per onestà di cronaca e a testimonianza della coerenza dell’intervistato occorre aggiungere che Lama si riferiva nell’intervista in particolare alle imprese in “difficoltà economica” – il che tuttavia, a ben vedere, sottolinea ancora di più il forte carico economico sulle spalle del sistema produttivo. La cronaca ha mostrato nel passato un’applicazione molto restrittiva da parte tribunali dell’art. 3 della L. 604/1966, tuttora vigente, in cui la possibilità della rescissione del contratto di lavoro da parte dell’impresa per “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, ovvero nel caso del cosiddetto licenziamento per “giustificato motivo oggettivo”, era stata ammessa solo per le aziende in difficoltà economica sostenuta da adeguata prova ma non in genere per le altre, in particolare per quelle che perseguono razionalizzazioni organizzative e di produzione.

Oltre a un progressivo ammorbidimento della giurisprudenza negli ultimi tempi è intervenuto infine il Jobs Act nel 2015 con l’introduzione del “contratto di lavoro a tutele crescenti” lasciando l’applicazione dell’art. 18 della L. 300/1970 (Statuto dei lavoratori) ai soli rapporti di lavoro instaurati prima del 7 marzo 2015.  Il risultato è stato nella pratica l’abolizione in prospettiva della reintegrazione nel posto di lavoro a favore di un indennizzo crescente in ragione dell’anzianità aziendale.

Per rispondere a coloro che chiedono il ripristino della situazione precedente – o tout-court l’abolizione del Jobs Act – è bene preliminarmente dare un’occhiata alla situazione negli altri paesi europei. Premettendo che il meccanismo della buonuscita è di applicazione generale nei casi di licenziamento per motivi economici dell’impresa, questo è anche il caso notevole della Germania in cui per la fattispecie del licenziamento per motivi legati all’impresa (“betriebsbedingte Kündigung” – in cui ricadono, a parte i licenziamenti singoli per cancellazione della posizione, anche le razionalizzazioni operative delle imprese indipendentemente dalla loro situazione economica) non è prevista la reintegra ma un indennizzo economico in ragione principalmente dall’anzianità di servizio (“Abfindung”). In tale quadro il datore di lavoro è sottoposto peraltro ad alcuni obblighi notevoli tra cui la produzione di una decisione formale e motivata così come l’approntamento di un “piano sociale” (Sozialplan) nel caso di licenziamenti collettivi e il rispetto di determinati criteri sociali, in particolare nel caso di selezioni da operare tra i dipendenti, nonché, come in Italia, l’impossibilità dell’impiego in altre funzioni nell’impresa delle persone soggette al licenziamento.  

Per quanto riguarda invece un confronto dell’importo dell’indennizzo al lordo di imposte e contributi, quanto offerto in Italia è superiore ai livelli previsti dalle leggi dei principali paesi europei come mostra il seguente grafico (fonte: F. Teoldi, “L’indennità di licenziamento nei paesi europei maggiori” 2017, sito P. Ichino – i dati italiani sono da rettificare in aumento dopo le modifiche del Decreto Dignità del 2018 che hanno portato a 36 il massimo delle mensilità e a 6 il loro minimo). Tale confronto è ancora più favorevole se si tiene conto della ampia discrezionalità, fondamentalmente sconosciuta altrove, data in Italia al giudice nel fissare il numero delle mensilità a favore della persona licenziata.

Corrige! – dal 2018 in Italia: aumento del massimo e del minimo delle mensilità a 36 e 6 rispettivamente

La ragione per la quale si è optato nei vari paesi per la soluzione dell’indennizzo è facile da vedere: è fondamentale non impedire la trasformazione e razionalizzazione del sistema produttivo a difesa della sua concorrenzialità ed espansione nel tempo proteggendo nel contempo la situazione economica dei dipendenti in caso di ridondanze. Ciò vale in particolare nelle fasi economiche come l’attuale che richiede, nel volgere di un tempo particolarmente breve, una massiccia trasformazione verso un’economia sostenibile ecologicamente e più digitale. Tale processo sarà particolarmente arduo per i paesi come il nostro dove il livello degli investimenti è particolarmente basso così come il tasso di occupazione e dove l’attività economica è polverizzata in un numero molto alto di piccole imprese chiuse in una situazione di produttività modesta e incapaci troppo spesso di espandersi, anche per limitazioni alla qualità della stessa cultura imprenditoriale oltre a ostacoli endogeni di vario genere dell’economia la cui lista è lunga.

Non vi è qui lo spazio per una indicazione precisa delle conseguenze per l’economia italiana della passata applicazione dell’art.18 e delle prospettive per una sua reintroduzione. Ma si può dire che essa ha sostanzialmente contribuito nel passato, al di là del fattore in sé positivo della protezione di posti di lavoro, alla riduzione della dinamica delle imprese e, con esse, dell’economia italiana.

La domanda chiave non è di natura giuridica nel senso dell’applicazione stretta di diritti considerati come acquisiti indipendentemente dalle conseguenze economiche che in ogni caso si ripercuotono sulla condizione economica del lavoratore stesso come l’Italia ha potuto constatare per esperienza diretta, ma di natura pragmatica, ovvero in che termini sia possibile l’evoluzione del sistema produttivo in presenza di un adeguata protezione del lavoratore dipendente.

La strada da seguire sulla base delle osservazioni fatte non può che essere quella del rafforzamento della protezione economica e sociale dei lavoratori nel quadro di una flexicurity estesa. Si tratta di adottare un approccio volto al futuro e alla creazione di nuovi sviluppi economici e non al passato nel mantenimento di posti di lavoro diseconomici che di per sé sono precari. Gli sforzi vanno indirizzati verso una ridefinizione del sistema della previdenza sociale in un quadro organico che implica anche una riforma del sistema pensionistico. 

È difficile qui sopravvalutare la necessità, in concomitanza con l’introduzione di un salario minimo, della realizzazione di un reddito di cittadinanza (non nel senso di una sua universalità) efficace e provvisto della seconda gamba di una politica attiva del lavoro degna del nome. È inoltre da realizzare un’istituzionalizzazione secondo la Costituzione degli organismi di rappresentanza dei lavoratori a migliore protezione dei loro interessi e una più efficace organizzazione dei loro rapporti con la proprietà. Altro discorso, per la stabilizzazione dei buoni posti di lavoro, è da dedicare alla più decisa difesa e promozione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato rendendoli economicamente più vantaggiosi per l’imprenditore rispetto ad altre strutture contrattuali.

Se quanto detto significa che la strada non dovrebbe passare attraverso una reintroduzione dell’art.18, rimane tuttavia sempre aperta ogni discussione sulla perfettibilità degli obblighi del datore di lavoro, ad esempio in senso tedesco.  




Comunicato di condanna nei confronti del Ministro Valditara per le dichiarazioni a proposito dell’attacco fascista a Firenze del 18 febbraio 2023

Il Circolo PD Berlino e Brandeburgo, essendo venuto a conoscenza della reazione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, in data 23 febbraio 2023 alla lettera della preside del liceo Da Vinci di Firenze Annalisa Savino sull’indifferenza come causa scatenante del fascismo in Italia, relativamente ad un’aggressione di matrice fascista avvenuta di fronte al liceo classico Michelangiolo di Firenze  in data 18 febbraio 2023, esprime la sua più sentita solidarietà alla dirigente scolastica e la più ferma condanna all’atteggiamento del ministro.

Sminuire la portata delle aggressioni fasciste in Italia spiana la strada alla legittimazione delle stesse. Minacciare ritorsioni per una pubblica presa di posizione antifascista della preside Annalisa Savino, peraltro in linea con l’orientamento repubblicano e antifascista della Repubblica Italiana, ci sconcerta. In modo particolare l’affermazione per cui potrebbero esserci provvedimenti disciplinari. Ribadendo che è tra i principali compiti della scuola e dei suoi singoli insegnanti istruire giovani italiane e italiani sul passato del nostro paese e in particolare sulle scelleratezze fasciste ricordiamo che il ministero ha pensato che sia opportuno tacere fino ad oggi sui fatti fiorentini.

Il governo dica se questa è la visione che ha di società, di scuola e di civile convivenza.

Nell’auspicio che l’attuale fase costituente del Partito Democratico riporti energie fresche per costituire un’opposizione valida e alternativa a questo governo, chiediamo al Ministero dell’Istruzione di ritirare le affermazioni fatte e rispettare l’articolo 33 della nostra costituzione che prevede la libertà d’insegnamento nonché di pronunciarsi finalmente senza ulteriore ritardo in merito all’assalto  di fronte al liceo Michelangiolo, ricordandosi fra l’altro che l’apologia del fascismo è reato nel nostro paese come in Germania.




Comunicato sulle primarie 2023 – seggio a Berlino

In occasione delle primarie del Partito Democratico 2023 previste per domenica 26 febbraio 2023, anche da Berlino si potrà votare fisicamente nel seggio previsto e organizzato dalla sezione locale del PD. L’appuntamento è dalle 10:00 alle 20:00 alla Willy Brandt Haus, Bürgerbüro, ingresso laterale in Wilhelmstraße 140, 10963 Berlino (U1 U6 Hallesches Tor o U7 Möckernbrücke). Così continua la tradizione inaugurata nel 2012 con la costituzione del gruppo locale rivolto ad italiane e italiani residenti a Berlino e a Brandeburgo. Anche turiste e turisti italiani in visita nella capitale tedesca potranno recarsi al seggio, mostrando un documento d’identità. L’iniziativa è finanziata con un contributo di 2,00 euro a votante ma è gratis per chi risulta iscritto al partito nell’anno in corso.




PD: è l’ora di un programma, i manifesti sono una sua anticamera

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Immagine: Enrico de Nicola appone la firma alla nuova Costituzione italiana – 27.12.1947

“Dobbiamo avere la coscienza dell’unica forza di cui disponiamo: della nostra infrangibile unione. Con essa potremo superare le gigantesche difficoltà che s’ergono dinnanzi a noi; senza di essa precipiteremo nell’abisso per non risollevarci mai più.” Discorso di insediamento a Capo provvisorio dello Stato italiano – 15.07.1946

Una settimana fa circa il PD ha presentato il suo nuovo Manifesto dei valori. Molti si sono chiesti se questo sia quello di cui il partito ha principalmente bisogno in questo momento. La risposta è ni.

Se si considera che il precedente Manifesto dei valori era ancora quello del 2008 allorché si fondò il partito, appare logico procedere almeno a un inventario e a una riscrittura là dove essa viene imposta dai nuovi tempi dopo che molto è passato sotto i ponti. Se si tiene inoltre anche conto del fatto che la scrittura del precedente Manifesto era stata tenuta particolarmente alta delegando la specificazione di obiettivi concreti a “piattaforme politico-programmatiche che affinino il chi siamo come conseguenza del cosa vogliamo” e che tale intenzione è stata fondamentalmente disattesa in tutti questi anni non può essere errato procedere a una nuova stesura. Ciò non vuol dire tuttavia che non sarebbe stato preferibile invertire l’ordine delle azioni: prima l’urgente sostituzione della dirigenza dopo la sconfitta elettorale e poi la riformulazione di manifesti e programmi promossi da una nuova segreteria. Non appare logico assegnare la gestione di un tale esercizio a chi è in uscita quando dovrebbe rappresentare il marchio del nuovo sulla base di una discussione che coinvolga tutto il partito.

Per alcuni, tuttavia, l’esercizio indirizzato a una “rifondazione” deve apparentemente avere come fine, anche attraverso l’eterna ricerca di una cosiddetta identità che è sfuggente perché soggetta al lavorio del tempo, il ristabilimento di antichi valori che sembrano persi e che si attribuiscono soprattutto a una delle tre anime che dettero originariamente vita al PD. Ci si rifà allora, tra l’altro, all’art. 1 della Costituzione dimenticando, diversamente da altri, che la sua formulazione nel punto rilevante fu il risultato di un compromesso proposto da Amintore Fanfani, un democristiano. Basso e Amendola proponevano invece che la Repubblica fosse quella “democratica dei lavoratori”, i quali, dati i tempi di allora, non si intendevano fondamentalmente includere gli indipendenti, che ben rientrano nelle statistiche ILO comprendendo anche gli imprenditori quali occupati di sé stessi. Ruini, Presidente della Commissione dei 75, disse infatti nella sua Relazione finale che lavoro è il “lavoro di tutti, non solo manuale ma in ogni sua espressione umana”. Se la redazione del nuovo Manifesto avesse dovuto tradursi, come non mi sembra sia avvenuto, in una ricerca volta al passato, essa non sarebbe stata produttiva politicamente se non nel riaffermare principi. Non può quindi essere questo quello di cui il partito ha più bisogno, pena inoltre una sua ulteriore riduzione numerica, ma la ricerca di una migliore e chiara definizione della sua collocazione politica concreta guardando in avanti verso il futuro, ovvero un programma.

Non avendo lo spazio per un confronto dettagliato tra i due Manifesti e premettendo che non risulta facile ai non addetti spiegare il perché della mancata conferma della funzione del partito stabilita alla sua fondazione quale punto di incontro dei progressisti indipendentemente dalla loro origine ideologica, si possono richiamare brevemente i punti di novità lasciando da parte senza negarne l’importanza tutti gli altri temi che sono sostanzialmente riconfermati sotto altra formulazione rispetto al testo precedente.

A parte lo stile molto differente, occorre segnalare una minore distanza dalle tematiche concrete senza che si entri peraltro nei particolari di un futuro programma che rimane da affrontare. Siamo appunto ancora in un ambito ideale dei “valori” – che è poi più semplice di quello programmatico perché non obbliga a occuparsi dei contrasti potenziali fra i vari obiettivi che la realtà immancabilmente evidenzia costringendo non solo a priorizzazioni ma anche a loro revisioni. Per tale motivo Annunziata parlava in “Mezzora in più” del 22 gennaio, con una certa provocazione, di un documento non molto utile alle necessità immediate del PD perché insieme di affermazioni di principio.

Nuova, in particolare, è l’assegnazione nel campo dell’economia di un compito più attivo allo Stato, accompagnando il ruolo di regolatore (precedentemente: “Compito dello Stato non è interferire nelle attività economiche ma fissare le regole per il buon funzionamento del mercato, per mantenere la concorrenza anche con politiche di liberalizzazione e per creare condizioni di contesto e di convenienza utili a promuovere innovazione e qualità”) con un “ruolo strategico … che, nel rispetto delle dinamiche di autonomia, concorrenza e innovazione delle imprese nel mercato, può assumere le forme e gli strumenti di volta in volta più utili a garantire che l’economia e i processi di innovazione, anche sociale, siano indirizzati a un benessere condiviso.” Sulle possibili forme e strumenti dell’intervento di uno Stato ora anche “innovatore” si tace però – definizione questa che sarà da affrontare nell’ambito di un piano programmatico.

Si chiama inoltre alla conclusione di un “patto sociale” ponendo inoltre su un piano comune, data la crescente urgenza dei problemi ambientali, “giustizia climatica e giustizia sociale da realizzare simultaneamente” in ciò vedendo forse in modo involontariamante restrittivo la crescita di economia e imprese nella sola ottica di una funzione ecologica e sociale.

Altro tema affrontato in modo, se non nuovo, più esplicito è quello dell’evoluzione dell’UE verso una struttura ora definita dichiaratamente federale attraverso l’accelerazione del suo processo integrativo, senza peraltro accennare al come, propugnando inoltre un piano di difesa militare comune, anch’esso punto di novità rispetto al testo precedente.

Riconoscendo un maggiore realismo e attualità del nuovo Manifesto rispetto al precedente (detto al negativo: minore astrattezza) ma rammentando anche che le passate sconfitte del PD sono state fondamentalmente dovute a una mancanza di chiarezza sui programmi e non sui valori dichiarati è giunta l’ora di un maggiore impegno nel senso anglosassone di uno stretto “commitment” passando a una definizione di punti concreti per futuri programmi di governo.

In attesa della pubblicazione dei programmi dei quattro candidati alla Segreteria nazionale che spero riducano ulteriormente la distanza dalla necessaria concretezza, che gli elettori da tempo si attendono, possono essere avanzate alcune considerazioni.

Premesso che compito centrale di una società sia quello di garantire un’esistenza degna ai propri membri, il primo passo di ogni programma di governo deve essere dedicato alla definizione dell’intervento equilibratore dello stato a favore di chi si ritrova in una situazione svantaggiata. Nelle circostanze attuali si tratta in primo luogo di pronunciarsi per un reddito di cittadinanza ricalibrato nelle sue componenti di sussidio e in cui trovi attuazione una soddisfacente politica attiva del lavoro (con la definizione di obiettivi concreti in termini di riqualificazione e reintegro nel mondo del lavoro) coniugata con l’introduzione di un salario minimo che permetta, fra l’altro, la riduzione della manipolazione delle retribuzioni al fine dell’acquisizione del RdC. Parallelamente, con l’obiettivo di favorire una contrattazione tra datori e dipendenti più efficace ed equa, è necessario prevedere la realizzazione del dettato costituzionale all’art. 39 in materia di sindacati dando loro personalità giuridica e provvedendo a una loro registrazione.

Massima attenzione è da dedicare infine a un’opportuna flessibilizzazione del sistema pensionistico ai fini della sua preservazione attraverso un riequilibrio finanziario e facilitando a chi può e desidera una continuazione in età avanzata della propria attività professionale – questo anche al doppio fine del contemporaneo mantenimento del know-how critico del personale occupato e dell’aumento della popolazione attiva cui si accenna anche oltre.

Sulla base di tali risultanze la politica economica e finanziaria è da definire in modo da conseguire in un determinato arco temporale determinati obiettivi in campo sociale. In tale ambito un ribilanciamento della fiscalità e della contribuzione sociale è da perseguirsi in senso perequativo riguardo alle distribuzioni di reddito e ricchezza che sono attualmente tra le più diseguali in Europa.

Condizione fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi, a parte una ristrutturazione e un rafforzamento dell’amministrazione pubblica, inclusa la giustizia, oggi palesemente inadeguata rispetto alle necessità, è la realizzazione delle condizioni per una maggiore crescita dell’economia e nel contempo di un forte incremento della produttività, requisito per un miglioramento così necessario dei livelli salariali nonché della concorrenzialità dell’economia rompendo un’evoluzione negativa degli ultimi tre decenni. Varie leve dovranno essere usate che portino a una maggiore popolazione attiva, oggi tra le più basse in Europa in particolare tra le donne, e a maggiori investimenti – inclusi quelli dello Stato, anch’essi tra i più bassi in Europa. Ruolo principale dello Stato sarà qui quello di aiutare un’opportuna canalizzazione dei capitali italiani ed esteri, anche attraverso facilitazioni finanziarie, verso i settori più produttivi di ricchezza nel rispetto di criteri ambientali piuttosto che attraverso l’intervento diretto attraverso lo strumento delle partecipazioni pubbliche se non in campi particolari dove criticità consigliano un suo impegno in prima persona. Essendo il nostro paese prevalentemente un compratore e non creatore di proprietà intellettuale occorrerà, con l’assistenza di Stato e privati, dare maggiore impulso alla ricerca avvalendosi anche del supporto da parte delle università da cui sarà da attendere, grazie a un maggiore sostegno finanziario e a un ammodernamento delle loro strutture, una generazione più intensa di laureati, oggi ai minimi europei, e di iniziative imprenditoriali innovative.

Di fronte alla complessità e alla scala degli interventi necessari dopo anni di deriva della società italiana e della sua economia risulta evidente come uno sforzo comune si imponga. Non si tratta solo di dare seguito alle richieste di equità da parte soprattutto della popolazione più svantaggiata economicamente ma anche di creare le condizioni affinché esse siano soddisfatte. Il ruolo di un PD rinnovato dovrebbe essere quello di guidare l’evoluzione senza restringere il proprio impegno a un’attività di appoggio a giuste rivendicazioni ma proponendo soluzioni che riguardino la società italiana nella sua interezza. La ragione che portò alla sua creazione quale incontro dei progressisti di diverso colore rimane quindi più valida che mai e condizione per un suo successo è la definizione di un programma con un chiaro e concreto profilo non dettato dalle considerazioni tattiche del momento.

PAR 26.01.2023




Il piano inclinato del semi-presidenzialismo alla Meloni

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Sotto varie spoglie e manifestazioni aleggia sempre qui e là.

Dopo essere finita con il suo governo nella palude della legge di bilancio, come i più si attendevano, e avere distribuito alle varie clientele della maggioranza quel poco che c’è, dimostrando una volta di più l’assenza di visioni coerenti nel governo se non quella di protezione di interessi particolari, Meloni indirizza ora i suoi sforzi alle riforme a costo zero – per forza di cose, ma anche perseguendo una strada che possa bullonare una maggioranza di destra per i tempi venturi. Così si ritira fuori dal cassetto la “Proposta di legge costituzionale” del “lontano” giugno 2018 che vede una ridefinizione del ruolo del Presidente della Repubblica: via dalla figura di garanzia e verso una funzione di parte perché appunto votato direttamente da una maggioranza dei cittadini contro una minoranza. In questo lo si dota di nuovi attributi che permettono una sua primazia sul Presidente del Consiglio, ribattezzato Primo ministro e sminuito nel suo ruolo. I paladini di FdI mostrano tutta la corda del loro ragionamento accusando Mattarella di non essere imparziale per poi concepire un’architettura delle istituzioni dove il Presidente della Repubblica non lo è per definizione. Ovvero: se si riceve l’investitura dal popolo l’imparzialità di una carica a garanzia della democrazia diventa un accessorio di cui si può fare a meno.

Il nuovo art. 95 designa il Presidente alla “direzione della politica generale del Governo” sostituendosi in questa responsabilità al Primo ministro che ora, in posizione di subordine, “concorre” solamente nella promozione e coordinamento dell’attività dei ministri. Nel suo nuovo ruolo il Presidente continua ad avere la facoltà di sciogliere le Camere (con l’eccezione dei primi 12 mesi dalle elezioni politiche – nuovo art. 88). Ciò potrebbe in particolare occorrere qualora esse ardissero di mettergli davanti un Primo ministro sgradito. Da notare anche, per comprende la portata delle modifiche in programma, che il Presidente può (nuovo art. 89) promulgare così come rinviare leggi senza la controfirma del Primo ministro ora invece necessaria per ogni atto legislativo. Avremmo quindi in un prossimo futuro, se la riforma caldeggiata da FdI dovesse passare, non una sola istituzione in un panino, quella del Parlamento come sostiene Zagrebelsky (La Repubblica, 6 agosto 2022), ma due perché possiamo vedere nel ruolo del salame anche un Primo ministro condizionato da tutte le parti – pure da un Parlamento in cui il Presidente potrebbe cercare di formare una maggioranza alternativa. Chiave di volta del tutto è infine l’impossibilità per chiunque di sfiduciare il Presidente durante tutto il suo mandato non essendo previsto neanche lo strumento della messa in stato d’accusa (impeachment).

Gratta gratta, tutto può andare a finire nella creazione di un nuovo uomo del destino, magari con l’aiuto dall’introduzione di una nuova legge elettorale favorita da un assetto istituzionale più compiacente rispetto a quello attuale e fatta su misura senza il bisogno di precedenti marce sulla capitale e di aiuti da parte di regnanti. Sarebbe un’altra versione di una democrazia che uccide sé stessa.

Come facilmente si può vedere la Proposta di FdI è configurabile come un primo tassello verso un governo autoritario ove i FdI si immaginano fantasiosamente, come detto nell’introduzione alle modifiche di legge, di “regalare (sic!) a una nazione che ha bisogno di stabilità, ma anche di passare da una « democrazia interloquente » a una « democrazia decidente ».“ Non è una necessità che finisca così, ma si deve dire che ci sono gli elementi dato che anche non ci troviamo davanti a una riformulazione organica di tutta la seconda parte della Costituzione, come richiama Cassese, che è necessaria per la creazione dei pesi e contrappesi propri del presidenzialismo a protezione del sistema democratico.

Se la storia mostra il presidenzialismo non conduce di per sé all’autoritarismo si può però dire che esso si è prestato nel passato a tali evoluzioni, come ad esempio hanno dimostrato le vicende del Sud America. Occorre anche aggiungere che alla base dei piani di FdI c’è l’intenzione manifesta di rompere, coerentemente con la loro ideologia, con la democrazia parlamentare e rappresentativa misconoscendo a questa le qualità che l’hanno contraddistinta nella storia rispetto a tutte le altre forme di governo e pronunciandosi a favore di ipotesi decisamente decisioniste nello spirito. E come la dittatura aspira al riconoscimento della sua legittimità costruendola con il richiamo a una finta volontà popolare truccata in tutti i modi, dall’antichità fino ai regimi fascisti e comunisti recenti, così anche, nel suo piccolo, FdI racconta la frottola del “Presidente votato dagli italiani, legittimato dagli italiani e che risponde del proprio operato solo di fronte ai suoi elettori” quando questi si pronuncerebbero solo una volta ogni cinque anni e non si sa sotto quali circostanze a tendere. Quale possa essere il loro modello di ispirazione salta fuori se si legge fra le righe, in un modo critico, quello che scrivono quando si richiamano a “una riforma che affonda certamente le proprie radici nella storia della nostra nazione”. Ma in quale parte della storia? La matrice culturale tradisce la vera natura delle persone, malgrado quello che esse professano ufficialmente, per convinzione o comodità e alibi. Lo spirito degli “antenati (vedi sopra foto) continua ad aleggiare qui e là.

È vero che vari costituzionalisti, che FdI cita numerosi nella sua Proposta appropriandosene subdolamente e falsamente inserendo anche un dubbio Pacciardi (coinvolto nell’affare del golpe bianco), abbiano avuto simpatie per il presidenzialismo (come Calamandrei per quello degli Stati Uniti). Ma le statistiche della storia non sono favorevoli al presidenzialismo. A dimostrazione riporto qui di seguito una tabella che per quanto degli anni novanta è tuttora valida e in cui si mostra come il presidenzialismo sia animale raro e limitato a pochi paesi. Nel caso di quelli occidentali questi hanno per lo più fatto la loro scelta presidenzialista o precedentemente allo sviluppo del parlamentarismo di democrazia rappresentativa come gli USA o in situazioni molto particolari come la Francia (in questo caso un semipresidenzialismo con la famosa “coabitazione” tra Presidente e Primo ministro) al tempo drammatico per il paese della “sal guerre” d’Algeria e di un uomo particolare come De Gaulle, politico attratto dal cesarismo.

Juan Linz, studioso riconosciuto dell’autoritarismo e professore emerito al termine della sua carriera alla Yale University, diceva (“The perils of Presidentialism”, The Journal of Democracy, 1990): „La prestazione storica superiore delle democrazie parlamentari non è casuale”.

 Fonte: S. Mainwairing, M. Shugart “Juan Linz, presidentialism and democracy: a critical appraisal”, 1993




Corruzione, Europa e la sinistra Italiana

Di Federico Salvati, PD Berlino e Brandeburgo

Un commento sugli sviluppi del Qatargate resta veramente difficile da declinare.

Ammetto che, essendo la maggior parte dei personaggi coinvolti esponenti della sinistra italiana, la questione mi rammarica due volte: prima come italiano e poi come uomo di sinistra.

Tutto ciò alla luce delle ulteriori vicende che negli ultimi mesi (per non dire anni) hanno offuscato l’immagine del polo progressista in Italia (dal caso Soumahoro a D’Alema che fa il commerciante di armi fino alla famosa “scalata bancaria” di Fassino, i casi non ci mancano). Nel sistema politico le forze democratiche, liberali e progressiste dovrebbero essere motivate dai principi dell’uguaglianza, inclusività e altruismo. L’immagine che si dipinge a Bruxelles è invece quella di esponenti motivati dall’opportunismo e dall’individualismo: principi che a mio parere non dovrebbero appartenere al PD e in generale a tutte le forze che vogliano schierarsi a sinistra.

Più volte si è citata nella cornice del Qatargate la “questione morale” come fattore irrisolto della politica italiana. Io però non credo che la sinistra italiana abbia un problema di “questione morale” in se ma di “questione ideologica”.

Mi spiego. Negli ultimi anni è chiaramente emerso che né destra né sinistra possano vantare un marcato primato per quanto riguarda onestà e corruzione (con dovute misure e distinzioni chiaramente. La vicinanza di elementi, anche altolocati, di Forza Italia ad ambienti e personaggi di stampo mafioso è un fatto difficile da eguagliare, per esempio). Questo è segno che l’ambiente politico in Italia (nel suo complesso) è vulnerabile ad opportunisti e affaristi, i quali sfruttano i partiti più come trampolino di lancio per i propri interessi, piuttosto che come piattaforma di partecipazione. Uno dei fattori che ha agevolato e normalizzato questa tendenza è la profonda deideologizzazione dell’attività pubblica. La mancanza di un posizionamento politico forte fa mancare alle istituzioni di partito una morale interna chiara che può essere utilizzata per giudicare e regolare i comportamenti dei propri esponenti. Una posizione politica chiara significa infatti anche una morale deontologica ben definita.

Certamente questo non è in se una garanzia perfetta di onestà e legalità. Dopotutto i partiti della prima Repubblica avevano un forte carattere ideologico ma risultarono coinvolti ad ogni modo in forti scandali di corruzione. Un profilo politico chiaro, però, crea un sistema di giudizio e introduce un codice di etica, al di fuori del quale non si può legittimante agire nei confronti della “cosa pubblica”. Questo però alla politica italiana oggi manca dal momento che orami si è “ammalata di pragmatismo”.

Un posizionamento disambiguo inoltre aiuta anche a livello elettorale, come ci ha dimostrato la Meloni. In un’era di ambiguità ed eccessivo realismo, prendere posizioni chiare su determinati temi può essere un fattore di successo.

Alle soglie della ricostituzione del Partito Democratico io invito a riflettere sul nostro futuro. Credere nella democrazia e nel progressismo vuol dire credere in dei principi e dei valori che cozzano con l’eccessivo pragmatismo. Al contrario, ritenere che non ci sia differenza sostanziale tra le fazioni politiche e che il dibattito democratico sia semplicemente “il gioco delle parti” ci lascia in una posizione pericolosamente nichilista in cui il vantaggio personale diviene l’unico obiettivo razionale da perseguire.

Credere in qualcosa significa prendere posizione e per le personalità corsare senza bandiera come quelle coinvolte nelle vicende di Bruxelles non ci deve essere posto nella sinistra italiana.

Fonte immagine: [EPA-EFE/JULIEN WARNAND] https://www.euractiv.com/section/justice-home-affairs/news/qatargate-scandal-casts-light-on-untouchable-eu-lawmakers/




Si è aggiunto nella corsa anche Cuperlo. Che significa?

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Pochi giorni fa Gianni Cuperlo ha lanciato, tra la sorpresa di molti, la sua candidatura alla Segreteria nazionale del PD aggiungendola alle tre già esistenti. Come ci si poteva attendere, non vi è giornalista che non gli abbia chiesto la ragione. Cerco di ordinare brevemente alcuni pensieri sul significato della sua decisione.

Innanzitutto occorre risolvere l’apparente contraddizione tra il giudizio negativo sul processo congressuale in corso (“Avrei voluto un congresso che non partisse dai nomi.” Repubblica del 23 dicembre) e il fatto che alla fine vi partecipi. Ricordando che non siamo macchine e che tutti i mortali possono cadere in contraddizione, mi si presenta una sola risposta logica: Cuperlo intende influire sull’andamento della contesa cercando di portarla sul piano dei contenuti e dell’impegno nella formulazione di proposte politiche nette e riconoscibili per il proprio elettore sebbene sappia di non avere molte probabilità di venire eletto – “con umiltà, nella chiarezza delle idee, fuori dai trasformismi” come lui stesso dice. Visto che il processo è in corso e difficilmente modificabile non possiamo che attendere i programmi dei candidati, tema che a mio avviso si presenta la sola vera carta disponibile attualmente al fine di dare nuovo impulso al partito. 

Sappiamo che Cuperlo non è il solo a pensare che le scelte fatte non siano le migliori. Ma quali potevano essere le alternative per il partito tenendo anche in considerazione che lui stesso non ritiene la rivisitazione del Manifesto dei valori un atto utile (“I valori non si riscrivono ogni dieci anni e sono gli stessi di quando il Pd è nato”)? Se intende dire che la mancanza principale è stata quella di non riuscire a tradurre valori già riconosciuti – definiti come i principi che devono guidare le scelte politiche, inclusa la loro priorizzazione – in programmi di cose concrete da fare e atti politici è difficile non essere d’accordo. Il problema del partito, a mio avviso, si riassume in due punti:

  • Non avere osato formulare misure concrete ritenendo evidentemente che un impegno in tal senso avrebbe potuto ridurre il proprio consenso mentre si cercava per sé il ruolo del sensale in una coalizione più ampia possibile. In questo modo, ad esempio, ci si è fatti scippare da terzi il tema del Reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia invece dei cugini tedeschi della SPD.
  • Avere mancato nel trasporto e comunicazione del proprio messaggio. Esempio: Letta si è mantenuto “alto” nell’argomentazione durante il duello elettorale televisivo con Meloni mentre gli spettatori probabilmente attendevano da lui messaggi specifici sulle misure da prendere in una situazione difficile per il paese.

Controprova: attese e giudizi sulle prospettive del partito erano ben diversi e positivi prima dello scoppio del secondo stadio della crisi avviato dalla invasione dell’Ucraina mostrando i sondaggi un testa a testa con FdI. La dirigenza pensò erroneamente che il cambiamento della situazione non comportasse una modifica del proprio messaggio politico continuando a limitarlo a un appoggio qualificato al governo Draghi finendo per essere identificati con chi non ha altre idee e ambizioni.

Sotto lo choc della sconfitta elettorale non si è visto poi che le esigenze erano in realtà due con distinti orizzonti temporali scegliendo invece di abbinare le due cose mantenendo il segretario in carica ma solo per un breve periodo, al fine di attuare un processo ambiziosamente definito di “rifondazione” mentre il nuovo capo viene scelto.

L’invito che possiamo rivolgere a noi stessi è ora a mio avviso quello di fare di vizio virtù e di concentrarci sulle cose concrete che sono i programmi dei candidati e sulla scelta di chi dovrà gestire il cambiamento interno. Questo, fra l’altro, non potrà non riguardare una profonda modifica dei processi decisionali, inclusi quelli relativi a tutte le nomine dei candidati, ribaltando l’attuale piramide in cui la base ha ben poca voce in capitolo senza per questo compromettere la capacità decisionale al vertice.

Occorre infine riflettere con realismo sulla lamentela di Cuperlo, cui si accenna sopra, che si sia erroneamente “partiti dai nomi”. Qui mi permetto di dissentire sul piano pratico a meno che non ci si voglia riferire a un processo elettivo senza impegno sui contenuti. È compito del partito intero che ciò non avvenga.

Personalmente non credo molto nei consessi, men che meno se di grandi dimensioni, in cui per incantamento e dal basso profondo di una comunità di anime affini sorga, come risultato di un magico processo dialettico, un programma politico in sé compiuto e coerente. Io sono convinto invece che la discussione in tali consessi non possa che avvenire tra tesi ben delineate ed esposte da “nomi” per una loro discussione che altrimenti non potrebbe essere in alcun modo ordinata. Questo è appunto compito dei candidati nel frangente attuale quando urge l’elezione di un nuovo segretario e con esso di una linea politica che non soffra delle carenze passate.

Ciò porta a un’ultima osservazione. È proprio quando i candidati si limitano all’esposizione di principi e intenzioni, anche con il fine di massimizzare il gradimento grazie a una minimizzazione dell’esposizione, che la discussione viene mortificata e il confronto diviene personale e quindi anche più acceso. In tale situazione assumono importanza e risalto le manovre dei gruppi sostenitori, con grave danno per il partito. I candidati hanno tuttavia ancora il tempo, per quanto scarso, per smentire che questa sia effettivamente la prospettiva del partito, a parte i normali conflitti in una competizione di questo genere.

D’altra parte non ritengo che quello che dicono i diversi candidati come riportato dalla stampa presenti contrasti così ampi e insanabili da permettere solo falsi compromessi in una situazione ove è un rischio reale il lungo governo di una destra socialmente retrograda e clientelare. In tale senso ha significato più che mai la cooperazione in un partito a gestione democratica (più di quella attuale) cui partecipano tutte le forze che si dicono progressiste – il che è stata la ragione della nascita del PD.




„It’s the economy, stupid“, negli USA come da noi

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Tutto sembra indicare che i democratici USA riusciranno alla fine a salvare di giustezza la loro pelle dall’assalto del GOP nelle attuali elezioni di medio termine – diciamo meglio: per questa volta, poiché un reazionario insidioso al pari di Desantis già scalpita dietro le quinte. Molti commentatori hanno lodato, dopo un incerto altalenarsi di opinioni, la scelta del partito blu di puntare principalmente sui temi dei diritti e della minaccia impedente sulla democrazia USA evitando per quanto possibile uno scomodo confronto sul tema dell’economia. Io dubito fortemente di questa interpretazione. Non perché non sia convinto del fatto che i temi di cui sopra siano stati, nella somma dei fattori, determinanti ma perché, malgrado l’eccezionalità dei tempi, avremmo dovuto aspettarci un fallimento elettorale senza appello dei repubblicani solo per il fatto di cavalcare tesi palesemente menzognere a sostegno di qualcuno che ha tentato un vero e proprio colpo di stato, un precedente inaudito per la democrazia americana. Ciò mostra in realtà, a parte evidenti problemi connessi alla diffusione e accettazione di fake news e di teorie cospirative, quanto peso abbiano i temi economici presso gli elettori nelle considerazioni di voto. I repubblicani li hanno usati come argomento principale, accanto a quello della criminalità, nella loro campagna contro i democratici – questo in una situazione in cui il partito al governo ha mostrato evidenti difficoltà a trasmettere quanto di positivo sia stato fatto dall’amministrazione in carica nei suoi due anni di governo a dispetto di due crisi di vaste proporzioni e gravi conseguenze innestate dalla pandemia del Covid e dall’invasione russa dell’Ucraina1.

Un’altra dimostrazione lampante di quanta importanza abbiano i temi economici in una contesa elettorale ci è stata fornita recentemente dalle elezioni presidenziali brasiliane ove un’inattesa svolta congiunturale positiva, sostenuta dall’accelerazione di un depredamento dissennato delle risorse naturali, ha mancato per poco di premiare un personaggio altamente tossico come Bolsonaro contro Lula da Silva, un avversario dato per favorito e dalle comprovate qualità democratiche malgrado la penalizzazione derivante da passate vicende di corruzione – vedi in particolare lo scandalo del lava jeto.

Che l’elettore usi sovente linguaggi diversi quando parla e quando vota è cosa conosciuta, mostrandosi particolarmente sensibile alle ragioni del portafoglio nella seconda situazione. Il fatto che valga il detto „It’s the economy, stupid“ come ripetevano gli strateghi della campagna elettorale di Clinton nel 1992, consci dell’importanza di presentarsi competenti in materia di economia, non dovrebbe però scandalizzare chi premia gli aspetti etici rispetto ai temi di bassa pianura dato che dalla capacità di un paese di creare reddito e progresso economico dipende anche il soddisfacimento di una domanda sociale in costante aumento a fronte di cambiamenti radicali delle strutture produttive dell’economia e della necessità, drammatica ed esistenziale per l’umanità intera, di salvare l’habitat in cui viviamo.

Questa semplice ma fondamentale constatazione vale naturalmente anche nel nostro paese e dovrebbe guidare quanti chiedono, con molte ragioni, una ridefinizione della politica e del posizionamento del Partito democratico. Come potrebbero infatti condurre a durature vittorie elettorali programmi in cui si privilegiano l’affermazione di legittimi diritti e una migliore redistribuzione di un reddito che rimane tuttavia condannato a stagnare e a rimanere modesto – questo in una situazione ove non solo la spesa sociale ma tutto il grande resto, dall’ambiente e l’energia fino all’insegnamento e le infrastrutture inclusa la sanità, reclama interventi forti? Tra i numerosi esempi: come procedere senza adeguate risorse al tanto necessario dispiegamento di un reddito di cittadinanza nella riqualifica e ricollocazione dei senza lavoro? Il solo confronto tra la spesa annua in tale campo in Germania (SGB II) e in Italia (Rdc) – rispettivamente nel 2020 e 2021: € 44 mrd. e € 9 mrd. – offre un’indicazione plastica della dimensione del problema e del compito di fronte al quale si trova il nostro paese.

Non può essere ripetuta abbastanza l’osservazione secondo la quale buona parte delle difficoltà nell’ultimo ventennio dei governi italiani e con essi del PD, per quanto ne facesse effettivamente parte, sono dipese dalla mancanza di risorse dovuta principalmente alla crescita carente dell’economia che ha invariabilmente limitato gli interventi. La dimostrazione al contrario può essere cercata nel periodo del centro-sinistra degli anni ’80, per lungo periodo a direzione socialista con Bettino  Craxi, allorché si scelse, in presenza di tassi di interesse ben più alti di oggi e di un forte rallentamento della crescita economica, la strada della spesa generando un’impennata dell’indebitamento pubblico rispetto al PIL da poco oltre il 60% all’inizio del decennio a ben oltre il 90%, raggiungendo poi il 120% con il primo governo Berlusconi nel 1995 (vedi grafico). Ciò costrinse, anche in vista della creazione dell’euro al tempo dell’Ecu, a una robusta frenata, compito non invidiabile che toccò principalmente, dopo la breve parentesi „tecnica“ di Dini con l’appoggio esterno del PDS, ai governi di sinistra, a cominciare dal Prodi I mentre i governi Berlusconi si comportarono sostanzialmente da comparse in contraddizione con i loro stessi proclami. Si tratta di un filo rosso che ha accompagnato la politica italiana fino ad oggi legando la sinistra, non solo moderata, al ruolo dell’attore prudente nella spesa pubblica danneggiandone l’immagine presso il proprio elettorato.

Detto in maniera metaforica: la crescita dell’economia deve essere vista come la benzina che permette al motore della società di muoversi verso una ripartizione più equa del reddito attraverso una politica sociale avanzata. In una situazione, come in Italia, di bassa crescita, alto indebitamento dello stato – ora tanto più pesante a causa di tassi di interesse in salita – e alta imposizione fiscale la libertà di movimento è particolarmente limitata per un governo in termini economici e proibitiva in termini politici. A meno di una riduzione della spesa pubblica – preferito campo di gioco dei conservatori che chiudono volentieri il rubinetto di quella sociale – ogni impegno finanziario aggiuntivo dello stato non può che essere sostenuto da nuove imposte ove il nostro paese ha già raggiunto livelli molto elevati. Questi ne fanno un percorso periglioso dove è, e sarà difficile, trovare maggioranze in futuro.

Poiché sono di „tutti“, questi problemi influiranno pesantemente anche sulle azioni del presente governo di destra che si troverà a dovere rispettare promesse fatte in campagna elettorale senza avere lo spazio finanziario di manovra necessario. Lo vediamo già in questi giorni nell’estenuante ricerca di una quadra con i pochi fondi disponibili che finisce in un esercizio di elargizione di sostegni in piccole dosi, non di rado destinati a gruppi ristretti di beneficiari come l’aumento dei „fringe benefits“ a € 3mila per un solo anno cui possono attingere secondo alcuni calcoli solo 2,5 milioni di cittadini, o destinati a un successo assai scarso come quota 41 con il vero e mezzo taciuto intento di rinviare di un anno l‘urgente riforma del sistema pensionistico – una manovra che sembra ironicamente fatta apposta per limitare la spesa dato che il cosiddetto tiraggio – ad esempio secondo le previsioni della Cgil – dovrebbe essere basso a causa dell’entità della rinuncia di reddito per chi esercita l’opzione così come è già stato per quota 102. Per il resto siamo nell’attesa di misure spicciole e dedicate prevalentemente alla clientela di destra, in particolare a elementi della piccola borghesia e bottegai, tra cui una flat tax in un’edizione bislacca „FdI“ e condoni fiscali contrabbandati come elementi di una „pace sociale“ in una situazione in cui l’evasione ricomincia a salire in alcuni settori (dettaglio significativo in questo contesto: il „tax gap“, ovvero il rapporto tra le imposte percepite e quelle potenziali, riguardo all’Irpef ha raggiunto nel 2021 presso i lavoratori autonomi e le imprese ben il 68,3% – !!; fonte: „Relazione sull’evasione fiscale“ presentata lo scorso 5 novembre)

Per il resto non si possono cogliere presso la coalizione di governo, neanche nelle riflessioni alla base delle misure da programmare, espressioni autentiche di linee guida per un miglioramento della dinamica economica e della produttività nonché formulazioni, aliene alla coalizione di destra, di un nuovo indirizzo della fiscalità e della contribuzione sociale meno sperequante con il fine principale di garantire in prospettiva a ogni residente in Italia (e non solo a chi ha la cittadinanza!) un’esistenza dignitosa e vivibile.

Se da questo lato non si può essere ottimisti, quanto detto dovrebbe però anche significare un’occasione imperdibile per la sinistra di contrastare l’azione del governo attraverso un messaggio puntuale e organico mobilitando le proprie risorse e gli esperti dei vari settori ad essa vicini, ad esempio già in vista del congresso del PD in fase di organizzazione. Non solo: ma si potrebbe immaginare di dare forma a un „governo ombra“ sul modello britannico con il compito di perseguire un contraddittorio serrato e continuo trasportando il proprio messaggio mediante l’utilizzo dei moderni mezzi di comunicazione. Le conferenze programmatiche annuali potrebbero fornire l’occasione puntuale in questo contesto per un confronto delle posizioni al fine di una loro conferma o modifica, anche profonda.

I temi da affrontare in campo economico, senza trascurare quelli di valenza più spiccatamente sociale che qui non menziono, sono assai vasti e vanno da una ridefinizione del ruolo dello stato nell’economia (nel senso di stimolo anche finanziario delle attività economiche ma sostanzialmente fuori dalle logiche di intervento gestionale diretto se non in particolari situazioni di interesse pubblico) con un rafforzamento e ammodernamento delle sue strutture (tra l’altro soggette da anni a un blocco indiscriminato delle assunzioni con conseguenze altamente negative nel tempo), un aumento della popolazione attiva (in Italia la seconda più bassa in Europa), una ripresa degli investimenti, privati e pubblici, incluso un maggiore impulso alla creazione di nuove attività imprenditoriali, fino a misure più indirette e a lungo termine come l’ammodernamento e il rafforzamento dell’istruzione (in particolare, ma non solo, di quella terziaria ove il ritardo dell’Italia è statisticamente più sensibile) e al completamento della riforma dell’ordinamento e sistema giudiziario.

Qualcuno si potrà mostrare contrariato di fronte a una tale lista, soprattutto se vede l’aspetto redistributivo tra le classi in cima alle priorità secondo il principio per il quale a maggiori salari corrispondono minori guadagni per il capitale senza altra considerazione particolare in merito al livello del reddito nazionale. Riconoscendo la validità del concetto di interessi tra loro contrastanti tra lavoro e capitale, soprattutto a livello microeconomico, preferisco lasciare qui da parte altre considerazioni – in particolare sull’importanza centrale della funzione nell’economia della domanda effettiva di derivazione keynesiana – per evitare di cominciare discussioni teoriche. Richiamo però l’attenzione ancora una volta (sperando nella comprensione di chi legge e ringraziando) sul profondo significato, per un partito che aspira a una leadership di governo, della svolta di Bad Godesberg della socialdemocrazia tedesca allorché sostenne la trasformazione del partito di classe („Klassenpartei“) in un partito del popolo („Partei des Volkes“)².  Chi governa ha il compito di pensare alla totalità del paese verso il quale esercita la propria responsabilità senza peraltro rinnegare né le proprie origini storiche né i suoi obblighi verso le classi da cui proviene la propria base elettorale e che verrebbero in realtà danneggiate da una visione esclusivamente particolaristica della politica.

1  Il governo USA ha varato in questi ultimi due anni misure importanti e ingenti nell’ambito di una agenda globale „ Build Back Better“ che comportano una spesa totale nei prossimi dieci anni pari a US$ 3,8 bilioni e che comprendono cinque misure chiave:

  1. American Rescue Plan per contrastare la pandemia
  2. Infrastructure Investment and Jobs Act a sostegno della base economica del paese
  3. Inflation Reduction Act a sostegno della spesa sociale e a protezione dell’ambiente
  4. Chips and Science Act per il miglioramento della competitività dell’economia
  5. Buy American Regulations a protezione dell’industria statunitense

„Die Sozialdemokratische Partei ist aus einer Partei der Arbeiterklasse zu einer Partei des Volkes geworden“ (SPD, Godesberger Programm – 1959)

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Autore: Alessandro Arena 

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