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Stiamo sbagliando: si condannino azioni illegali ma non si demonizzino i russi

Di Federico Salvati, PD Berlino e Brandeburgo

Vorrei cominciare con un piccolo aneddoto personale. Di recente ho dovuto partecipare per lavoro ad una grande conferenza sugli studi dell’est Europa tenutasi a Berlino. Chiaramente, viste le circostanze, la questione Ucraina era al centro del dibattito. Durante una delle discussioni a margine, una delle relatrici (di origine ucraine) si è lanciata in un’appassionata arringa sulle colpe della Russia avanzando pesanti accuse nei confronti non solo del governo ma anche dell’identità nazionalista e imperialista del paese. A suo parere questa era considerabile come il substrato culturale che appoggiava e rendeva possibili le attuali politiche belliche. Il verdetto (a suo dire) era inevitabile: la Russia è responsabile delle sue azioni criminali e illegali non solo al livello politico ma anche a livello culturale e sociale in quanto dimostra inclinazioni imperialiste, aggressive e suprematiste.

L’intervento mi ha causato non poco imbarazzo dal momento che tra le persone del gruppo in cui stava avvenendo la discussione (ad insaputa della relatrice) c’erano anche alcuni miei colleghi di cattedra, tutti di origine russa e membri attivi della comunità russa qui a Berlino. Parlando in un secondo momento con loro la sensazione d’imbarazzo mi è stata confermata anche da questi, i quali mi hanno confessato che viste le loro origini, nonostante essi si dichiarino menti liberali critiche del regime putiniano, si sentono presi in questo momento un po’ tra l’incudine e il martello percependo ostilità da entrambi i lati del conflitto.

L’aneddoto credo sia illustrativo di quella che è la complicata situazione di quei cittadini in Russia che fino a ieri guardavano all’occidente come una possibilità di riforma e progresso in senso liberale e democratico della propria nazione ed oggi invece si ritrovano su un lato della barricata del conflitto che non hanno mai appoggiato, non vogliono appoggiare e per il quale non sono pronti a morire.

A tal riguardo mi sento in dovere di dire che in quanto europei stiamo commettendo un errore madornale.

Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad una serie di dichiarazioni da parte di paesi europei (e non) che hanno attaccato in maniera più o meno diretta la popolazione russa in quanto tale. Questo senza prendere in considerazione le reazioni draconiane all’inizio della guerra che sembravano quasi voler cancellare dalla vita pubblica del continente qualsiasi riferimento alla cultura russa (per esempio, il caso di Paolo Nori ha fatto il giro delle redazioni di tutto il mondo). A ciò si va a sommare il fatto che recentemente il regime agevolato per i visti russi è stato revocato dalle istituzioni dell’Unione, così come la maggior parte delle collaborazioni culturali scientifiche e accademiche. Alcuni paesi hanno addirittura negato l’accesso ai cittadini russi in toto, annullando anche visti già esistenti. In generale si sta assistendo ad un progressivo isolamento della popolazione russa dalla società europea e ad un crescere della distanza politica e culturale tra le due società.

Chiudendoci ai contatti con la popolazione russa stiamo commettendo un errore strategico che pagheremo nei decenni a venire. Infatti, la maggior parte di tali misure (come la chiusura totale dei confini) di certo non va a colpire punti strategici del sistema statale russo e non provoca pressioni sul governo in carica.

Se si guarda alle statistiche sul reclutamento militare conseguente alla mobilitazione, si noterà che la maggior parte dei coscritti viene da regioni come la Buriazia e il Daghestan. Queste sono circoscrizioni povere fatte da individui che, certamente, per la maggior parte non viaggia all’estero (non viaggia molte volte neanche in Russia) e non ha contatti al di fuori del paese. Sono quelle popolazioni che in gergo scientifico vengono chiamate “hard to reach people” e rappresentano la parte più conservatrice e integralista del paese.  

Con la chiusura completa dei contatti, chi andiamo a colpire non è la forza bellica russa ma gli intellettuali e i giovani liberali che hanno scambi con l’estero e contatti con il mondo occidentale. In altre parole, proprio le persone che sarebbero più vicine e recettive ad un messaggio di democrazia e libertà.

Chiudendo completamente le nostre frontiere e tutti i nostri contatti con la popolazione russa stiamo implicitamente dicendo alla parte liberale di essa (con cui noi abbiamo la maggior parte dei contatti) che deve restare nel paese e che è costretta a fornire supporto ad un regime in cui non si riconosce e che non vuole sostenere.

La Russia sta diventando una nazione progressivamente sempre più autocratica e se si guardano le immagini delle frontiere terrestri ai confini con la Georgia, per esempio, si noterà che le persone si stanno accalcando per cercare di lasciare il paese. In molti, infatti, non vogliono vivere sotto l’inasprirsi delle condizioni sociali o semplicemente non vogliono morire per una guerra in cui non credono, e che non ritengono necessaria.

L’Europa, a differenza di quello che stiamo facendo adesso, dovrebbe accogliere chi vuole lasciare la Russia. Dovremmo aprire le porte a coloro che ritengono che le condizioni nel proprio paese siano diventate così insostenibili da preferire lasciare affetti e carriera a casa e trasferirsi all’estero in un paese straniero, giudicato più o meno ostile dal proprio regime politico.

Queste persone, le quali una grossolana retorica anti-russa pone nella stessa cesta con i putiniani, soffriranno grandemente per essere stati alienati dalle nostre istituzioni e si ricorderanno in futuro di chi li ha supportati e di chi invece li ha abbandonati.

Alcuni credono che facendo pressione anche sull’élite liberale si possa generare sufficiente pressione da far scaturire un cambio di governo. La prospettiva è illusoria, e non rispecchia la natura sociale del paese. Il regime putiniano è in piena repressione e le comunità liberali non sono abbastanza forti da generare nessun tipo di opposizione significativa nei confronti del governo. Non si faccia neanche l’errore di riporre troppe speranze in Alexei Navalny, perché il leader di opposizione sicuramente renderà la Russia meno corrotta ma non obbligatoriamente più liberale. La Russia è un sistema sociale che funziona secondo ben definite norme collettive che non sempre rispecchiano gli standard liberali. La debolezza delle élite liberali in Russia sta nel fatto che una parte consistente del malcontento verso il regime non deriva necessariamente da una critica sui principi dei fondamenti dello stato ma dalla delusione sull’inefficienza e il malfunzionamento dei sistemi istituzionali. Una Russia più funzionale non significa quindi per forza una Russia più liberale.

Se il cambiamento avverrà, conseguentemente, esso verrà dall’interno del regime, non dai liberali. Lo scenario più probabile (ci dovesse essere un cambio di regime) è che la protratta situazione del conflitto possa compromettere interessi corporativi di figure chiave del regime putiniano, senza le quali il presidente non può mantenere in maniera stabile il potere sulla nazione.

Si badi bene: questo non significa non riconoscere le responsabilità legali della Russia come ente giuridico in relazione ai propri atti contro l’Ucraina. Ne significa accettare in maniera acritica le richieste politiche di Mosca perché mosse da una visione politica chiaramente in contrasto con i fondamenti istituzionali europei ed occidentali. L’aggressione russa viola norme relative alla sicurezza internazionale, il diritto umanitario, diritto umani etc. La Russia, in quanto ente internazionale, è però qualcosa di diverso dalle persone e dai cittadini che vi risiedono. Parafrasando le parole di Draghi durante il suo discorso alle Nazioni Unite di quest’anno: le responsabilità del conflitto ci sono e sono su un solo lato: della Russia. Non esiste nessuna discussione su quest’argomento.

Comportandoci, però, in maniera ostile verso la popolazione stiamo correndo a lungo termine verso la rovina. Forse potremo anche vincere l’odierno confronto con Mosca, ma di certo perderemo la Russia post-bellica, e perderemo quei pochi contatti con gli individui e le comunità che potrebbero cercare di portare all’interno del dibattito politico nazionale una voce affine ai valori occidentali ed europei.

Fonte foto: Yelena Afonina/TASS via ZUMA Press (https://abcnews.go.com/International/tens-thousands-russians-flee-putins-mobilization/story?id=90588897)




Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro dello sciovinismo

di Matteo Elis Landricina, PD Berlino e Brandeburgo

Si è fatto un gran parlare negli ultimi mesi dello stato di salute mentale, oltre che fisica, di Vladimir Putin. Esperti di varie discipline si sono lanciati in speculazioni secondo le quali dietro alla decisione del leader della Federazione Russa di scatenare l’aggressione attualmente in corso contro l’Ucraina potrebbe celarsi un qualche tipo infermità mentale. Confesso che anch’io, come molti altri, di fronte alle mostruosità scatenate dall’ordine di invasione dato da Putin ai suoi comandanti, mi sono più di una volta chiesto se il capo del Cremlino non sia da considerarsi pazzo, nel senso clinico del termine. Troppo inverosimile e folle  sembrava nell’immediato post-invasione – e lo sembra ancora oggi – l’idea di aggredire a freddo un paese vicino, senza neanche uno straccio di provocazione, causando migliaia di morti e feriti oltre che una crisi energetica ed economica mondiale, e rischiando una degenerazione nucleare del conflitto di proporzioni apocalittiche. In realtà, a mente fredda, adoperandosi nel non facile distacco emotivo, la decisione del presidente russo appare per ciò che è, ovvero il sintomo di una tendenza politica di tipo sciovinista in atto da anni in Europa e nel mondo. Vladimir Putin vuole rendere – con i suoi metodi brutali e con il suo cinismo – la Russia great again, grande di nuovo, e per fare ciò è disposto a provocare una crisi di proporzioni mondiali.

Il putinismo, l’ideologia neo-zarista di cui si nutre il regime russo, si può far rientrare a pieno titolo nella categoria delle filosofie politiche scioviniste contemporanee, anche se si distingue in questa ultima fase per la sua particolare brutalità e per il disprezzo per tutte le norme del diritto internazionale e umanitario. Donald Trump, Jair Bolsonaro, Xi Jinping, Narendra Modi, Recep Tayyip Erdoğan, Vladimir Putin: negli ultimi anni alcune delle maggiori potenze mondiali a livello politico, economico, militare sono state governate da personalità carismatiche, nazionaliste e reazionarie. Si tratta certamente di paesi molto diversi tra di loro – alcuni sono democrazie, altri dittature – ma i governi e i regimi di cui sopra hanno tutti un trait d’union, ovvero quella particolare prospettiva che possiamo chiamare “il mio paese innanzitutto”. L’Europa per la storia che ha avuto è da questo punto di vista probabilmente il continente più a rischio di derive nazionaliste e scioviniste. Spesso a noi europei piace pensare al nostro continente come al faro della democrazia e dei diritti umani – se non nel mondo, perlomeno per quanto riguarda la massa territoriale euro-asiatica – e in buona misura certamente lo è. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che l’Europa è anche un cimitero di imperi. Laddove vi sono oggi stati democratici, fino a qualche secolo o anche solo qualche decennio fa si ergevano grandi imperi continentali e “madrepatrie” di enormi imperi coloniali. Questo passato sarà sempre lì, un recondito “patrimonio” ideologico a disposizione di demagoghi pronti ad alimentare nostalgie reazionarie per i propri scopi di potere.

Alcuni stati europei già titolari di vastissimi possedimenti territoriali, come Portogallo, Olanda, Belgio, Austria, sembrano essersi lasciati per sempre alle spalle velleità imperiali, viste anche le proprie dimensioni geografiche ormai ridotte, ma non sono per questo necessariamente immuni al populismo reazionario. Altri invece, come la Gran Bretagna e, in misura minore, la Francia, faticano invece a staccarsi dai loro “sogni di gloria”. Così come le grandi potenze Stati Uniti, Russia e Cina sono tutte più o meno animate da spiriti eccezionalistici e anche missionaristici, anche in Europa sono ancora molti coloro che considerano il proprio paese “diverso da tutti” e portatore di una “missione storica”. Se il caso della Russia di Putin è estremo nella sua radicalità, il germe del nazionalismo e dello sciovinismo è più o meno presente in praticamente tutti i maggiori popoli europei.

L’Italia, patria fondatrice del fascismo, ha storicamente fatto tra i primi paesi europei l’esperienza dell’ubriacatura nazionalista e delle sue nefaste conseguenze. Nonostante ciò, come un alcolista incorreggibile, anche l’Italia in momenti di crisi è sempre tentata di fuggire dai problemi della realtà affidandosi all’ebbrezza del populismo e del nazionalismo, come ci hanno mostrato per ultime le recenti elezioni politiche. Gli esempi degli ultimi anni a livello mondiale ci mostrano chiaramente che il populismo neo-sciovinista arreca più o meno danni alle comunità politiche nazionali ed internazionali a seconda di quanto il sistema politico in cui si sviluppano li lascia fare. Se c’è una risposta popolare forte di opposizione, se i sistemi istituzionali, culturali e sociali di checks and balances funzionano, il nazionalismo arretra, come nel caso degli Stati Uniti e, speriamo, anche del Brasile. Se invece vengono lasciati agire, se non incontrano abbastanza resistenza, i nazionalismi dilagano e possono provocare danni gravissimi.

Personalmente mi auguro che il Partito Democratico, al di là della doverosa riflessione nei prossimi mesi – anche autocritica – su se stesso, sul proprio profilo e sulle proprie prospettive, si renda conto della responsabilità che ha in quanto principale partito di opposizione a questa destra, che andrà giudicata nei fatti ma che già si prevede potenzialmente rovinosa per il paese. L’opposizione non dev’essere in questo senso solamente l’occasione per leccarsi le ferite e riorganizzarsi in vista delle prossime elezioni, ma il momento di dimostrare all’Italia e all’Europa la propria utilità in quanto partito democratico di massa radicato sul territorio per riuscire ad arginare la marea di populismo sciovinista che si preannuncia. Questo il mio auspicio e la mia speranza in tempi purtroppo sempre più preoccupanti.

Fonte immagine: Asatur Yesayants/Shutterstock




La destra italiana ha sempre sostenuto la Russia di Putin e dovrebbe essere ritenuta responsabile per le proprie decisioni politiche

Di Federico Salvati, PD Berlino e Brandeburgo

In Italia abbiamo un problema di politica estera. Il paese capisce male e discute peggio le questioni estere. Diplomaticamente l’Italia è ancora un paese di un certo riguardo, l’apparato burocratico è solido e funziona abbastanza bene. Dal punto di vista tecnico non mancano le occasioni di sentirsi persino orgogliosi dell’operato istituzionale (che recentemente diventano sempre più rari).

Sentire il dibattito politico-culturale italiano in temi esteri è però come bere acqua salata. Più se ne ingerisce e più ci si ritrova assetati e insoddisfatti perché narrative bizzarre e contrastanti molte volte creano ancora più confusione e incertezze invece di rassicurare gli spettatori.

Stessa cosa con la leadership politica. Quando si guarda alle posizioni politiche sullo spettro partitico, ci si aspetta di vedere come le varie opzioni del mercato elettorale prospettino un ventaglio di possibili evoluzioni future della nostra linea e strategia estera. Al contrario, ci si imbatte in rocamboleschi salti di schieramenti che farebbero invidia al Cirque du Soleil.

È il caso della linea politica tenuta nei confronti di Mosca dalla destra italiana. L’Italia è un paese atlantista sia per tradizione che per necessità. Essendo una cosiddetta “media potenza”, la nazione ha bisogno di una politica multilaterale per restare politicamente rilevante. Sebbene i rapporti con Mosca, quindi, abbiano rappresentato una necessità sia dal punto vista economico che politico, la natura di questi rapporti ha continuamente diviso le posizioni progressiste e di sinistra da quelle più conservatrici e di destra.

Contrariamente agli anni della guerra fredda, oggi è la destra Italiana che simpatizza e guarda con interesse alla Russia. In qualità di “esperti della geopolitica”, personalità della (estrema) destra culturale italiana come Diego Fusaro, Daniele Scalea e Tiberio Graziani hanno promosso negli anni passati le idee di autori come Alain de Benoist, Yves Lacoste, Stefan Breuer (studiosi che oggi costituiscono i padri fondanti dell’ideologia populista della destra europea) ma soprattutto quelle di Alexander Dugin, noto ideologo del regime putiniano. Conseguentemente, il dibattito culturale nella destra in Italia, prima dello scoppio della guerra in Ucraina, non ha mai negato di guardare alle posizioni conservatrici nella politica russa come un modello di riferimento per lo sviluppo politico del paese Italia.

Dal momento che, come si suol dire, la mela tende a non cadere molto lontano dall’albero, si nota che la leadership emergente da questo dibattito culturale non poteva avere delle opinioni molto critiche nei confronti del regime politico russo.

Oggi tre su tre dei candidati leader del polo della destra italiana (Berlusconi, Meloni e Salvini) hanno avuto in passato posizioni di aperta simpatia nei confronti della Russia.

Non c’è bisogno di ricordare i rapporti di Berlusconi con il presidente Putin. L’ex Presidente del Consiglio fino a qualche anno fa lodava il capo del Cremlino come un “vero liberale e democratico”. Silvio Berlusconi è stato il perno geopolitico della strategia russa nel nostro paese. Fonti diplomatiche americane (Relazione Spogli) e fonti accademiche (Anton Shekhovtsov) hanno affermato che il Cavaliere e le persone intorno a lui si siano arricchite tramite provvigioni e percentuali legate alle forniture energetiche russe in Italia traendo profitto personale da una politica che ha incatenato il paese alla dipendenza dalla Russia.

In modo analogo, Giorgia Meloni, all’indomani della crisi Ucraina del 2014, si vantava di posizionarsi contro le sanzioni alla Russia perché “folli e irrazionali”. I richiami ai valori conservatrici e reazionari sostenuti da Mosca sono stati sostenuti da Fratelli d’Italia e sono rimasti costanti in questi anni. Inoltre, FdI è stato in passato apertamente accusato di aver accettato donazioni provenienti dalla Russia e da altri gruppi esteri, simpatizzanti delle posizioni populiste di destra.

La punta di diamante nella questione russa resta tuttavia Matteo Salvini. Numerose sono le prove che testimoniano i rapporti diretti dei quadri della Lega con Mosca (esempio fra tutti, il caso Savoini). Oltre a ciò, il programma elettorale della Lega del 2018 (Pagina 22) affermava che la Russia non costituirebbe una credibile minaccia militare, bensì un potenziale partner per la Nato e l’Ue. Si invocava addirittura un rovesciamento della lealtà ai vertici atlantisti e un approfondimento dei rapporti con Mosca, il cui intervento in Europa avrebbe, secondo il Lega-pensiero, aiutato a stabilizzare lo scenario politico.

All’indomani della guerra in Ucraina, tutti i leader della destra italiana hanno dichiarato a gran voce la propria fede nell’atlantismo e nei valori occidentali, prendendo dunque le distanze dal regime putiniano. Giorgia Meloni si è persino guadagnata le attenzioni non esattamente positive del giornale russo di regime Pravda, su cui venne pubblicato un articolo che denunciava l’inversione a “u” della capa dell’esecutivo nazionale di Fratelli d’Italia. L’autore dell’articolo definì la scelta della Meloni “la via dell’abisso”, in base alle dichiarazioni pro-atlantiste della stessa.

Vale il detto che chi non cambia mai idea non sia necessariamente una persona di cui prenderemmo ad esempio le capacità intellettive. Ognuno ha il diritto di evolversi e, riguardando a posizioni e scelte passate, dichiarare di aver preso un abbaglio. Le opinioni mutano e il fatto non è intrinsecamente sbagliato. Oggi, tuttavia, alla vigilia delle elezioni nazionali italiane siamo chiamati a scegliere i nostri rappresentati per la loro capacità di giudizio su fatti politici. Andando alle urne, dobbiamo quindi porci una domanda specifica: è possibile accettare che la destra italiana ricusi senza conseguenze due decenni di posizioni apertamente filo-putiniane liquidando il tutto con: “scusate, abbiamo preso un abbaglio”? Non dovremmo, invece, ritenere questi signori (e signore) responsabili politicamente per aver sostenuto con così tanta convinzione la leadership violenta e criminale di un paese estero in nome del proprio arrogante e ammiccante realismo? Desideriamo veramente che a questi cittadini sia dato il compito di esercitare discrezionalità politica sulle decisioni fondamentali che il paese aspetta? A mio parere, non dovremmo. Mi aspetto una qualche forma di responsabilità per l’operato politico portato avanti per due decenni dalla destra italiana, con coerenza e costanza. Rimane il fatto che l’Italia, contrariamente alla Russia, è un paese libero che permette a ciascuno di formulare il proprio giudizio politico e morale, votando di conseguenza.

Buone votazioni a tutte e a tutti!




È uscito il numero di maggio di Agorà

Lunedì 30 maggio è stato pubblicato il numero di maggio del giornale di Circolo, Agorà. Agorà è un’iniziativa che si basa sul libero contributo di iscritte e iscritti a partecipare con le loro conoscenze su dei numeri tematici, pubblicati dietro iniziativa del Circolo e che non seguono una periodicità.

Nel numero di maggio si affronta il tema in Ucraina da una prospettiva geopolitica, economica e politica. Viene data attenzione al caso russo per cercare di risalire alle cause del conflitto e analizzare impatto e conseguenze. Hanno contribuito alla stesura del numero Alberto Vettese, Federico Salvati, Pierantonio Rumignani e Federico Quadrelli. Ha redatto il numero Alberto Vettese.

Agorà maggio 2022




Comunicato sull’aggressione russa dell’Ucraina

Il PD Berlino-Brandeburgo rappresentato dall’organo direttivo

1. condanna l’operazione militare aggressiva e ingiustificata nei confronti dell’Ucraina avviata nella scorsa settimana.
Le principali città ucraine sono sotto il fuoco dell’esercito russo: Kharkiv, Kyiv, Odessa, Dniepro, più diverse città sulla sponda est del fiume Dniepro.

2. qualifica il discorso alla nazione del presidente Putin, nella giornata precedente come fortemente nazionalista e reazionario e nota che la Russia ha fomentato il conflitto per un anno usando il pretesto di esercitazioni militari congiunte con la Bielorussia e senza mai ritirare le truppe dalle postazioni di confine.

3. riafferma l’importanza del rispetto dei confini e dell’indipendenza dell’Ucraina. La fine dell’URSS avvenne nel 1991 con la dichiarazione de-facto di indipendenza dall’URSS della Federazione Russa di Eltsin ed in seguito di tutte le altre Repubbliche, tra cui della Repubblica Socialista Ucraina.
Da allora l’Ucraina è un paese indipendente riconosciuto dalla stessa Federazione Russa, con legittima aspirazione Europee.
Il PD Berlino-Brandenburgo guarda dunque con grande preoccupazione alla lesione di accordi che mettono in dubbio il sistema di cooperazione internazionale che nei decenni passati ha evitato conflitti di scala maggiore.

Prendendo atto delle scelte aggressive della Russia e con il desiderio di mantenere un sistema internazionale che possa garantire pace e prosperità invece che guerre il PD Berlino-Brandenburgo si appella ai governi europei ed ai nostri rappresentanti PD nel governo italiano per il conseguimento dei seguenti obiettivi:

a) Il mantenimento ed inasprimento di dure sanzioni economiche per isolare la Russia dal sistema di cooperazione internazionale che ha scelto di ignorare.

b) La creazione nel medio termine di una forza di difesa europea con stazionamento a est per proteggere i paesi che hanno più da temere (Baltico, Finlandia).

c) La razionalizzazione della produzione bellica con riduzione di modelli a favore di maggiori volumi, spostamento di competenze verso la commissione con un ministro degli esteri.

d) La sincronizzazione della riduzione dell’utilizzo dell’energia fossile unitamente quella della dipendenza dalla Russia.

e) Il congelamento di conti bancari intestati a russi o società di comodo (in particolare Cipro) e di proprietà immobiliare fino all’espropriazione.

d) Il blocco all’accesso al mercato dei capitali europeo per le imprese russe.

Queste misure devo però essere accompagnata dalla massima disponibilità al dialogo. L’ obiettivo rimane un sistema di cooperazione pacifica internazionale e non un’escalazione del conflitto.
Allo stesso modo i contatti con la società civile russa vanno sostenuti con decisione.

 

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Fonte immagine: https://apnews.com/article/russia-ukraine-europe-russia-media-kyiv-bcbfb2c802a44d94b89343ac1d3afbae