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Abolizione del Jobs Act? Che fare con l’art.18?

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Da molte parti si richiede l’abolizione del Jobs Act e il più delle volte senza altra specificazione dimenticando che esso è costituito da ben otto decreti emessi nel 2015 a copertura di una vastissima area del diritto del lavoro. Gli strali riguardano sovente anche il principio stesso della “flexicurity” vista in modo erroneo come espressione del pensiero neoliberale mentre essa è nata già alla fine degli anni ottanta nei paesi scandinavi, in particolare in Danimarca, e nei Paesi Bassi (invito a leggere il rapporto della insospettabile Friedrich Ebert Stiftung: “Flexicurity: Ein europäisches Konzept und seine nationale Umsetzung”, aprile 2008). La flexicurity sta in realtà per una politica alla ricerca di un equilibrio tra protezione del lavoratore e flessibilità operativa delle aziende e, in tale contesto, di una divisione equilibrata dei costi sociali dell’occupazione tra impresa e mano pubblica. Il pensiero corre quindi subito al tema del sostegno alla disoccupazione, in particolare riguardo al caso di licenziamenti per motivi economici che è il vero pallino della discordia legato all’accantonamento (non abbiamo qui giuridicamente un’abrogazione – vedi oltre) dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori: in primo luogo in termini preventivi impedendo il licenziamento facile da parte delle aziende – fra l’altro, mediante l’imposizione ad esse di un costo associato sufficientemente elevato – e, in secondo luogo, attraverso un adeguato intervento dello Stato oltre a quello imposto alle imprese.

Che nel nostro paese si sia cercata la via della dissuasione forte nei confronti dell’economia in fatto di licenziamenti è un dato che è stato ammesso in passato anche dal sindacato. Non solo nel 2003 la stessa CGIL fece una proposta che prevedeva in determinate condizioni l’indennizzo del lavoratore, ma i suoi stessi segretari generali ebbero a dire come l’autorevole Lucio Lama in una famosa intervista condotta da Eugenio Scalfari nel lontano 1978: “C’è un certo numero di aziende che ha un carico di dipendenti eccessivo… Noi siamo tuttavia convinti che imporre alle aziende quote di manodopera eccedenti sia una politica suicida. L’economia italiana sta piegandosi sulle ginocchia anche a causa di questa politica.” e, più oltre “È una svolta di fondo. Dal ’69 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza lavoro…”. Per onestà di cronaca e a testimonianza della coerenza dell’intervistato occorre aggiungere che Lama si riferiva nell’intervista in particolare alle imprese in “difficoltà economica” – il che tuttavia, a ben vedere, sottolinea ancora di più il forte carico economico sulle spalle del sistema produttivo. La cronaca ha mostrato nel passato un’applicazione molto restrittiva da parte tribunali dell’art. 3 della L. 604/1966, tuttora vigente, in cui la possibilità della rescissione del contratto di lavoro da parte dell’impresa per “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, ovvero nel caso del cosiddetto licenziamento per “giustificato motivo oggettivo”, era stata ammessa solo per le aziende in difficoltà economica sostenuta da adeguata prova ma non in genere per le altre, in particolare per quelle che perseguono razionalizzazioni organizzative e di produzione.

Oltre a un progressivo ammorbidimento della giurisprudenza negli ultimi tempi è intervenuto infine il Jobs Act nel 2015 con l’introduzione del “contratto di lavoro a tutele crescenti” lasciando l’applicazione dell’art. 18 della L. 300/1970 (Statuto dei lavoratori) ai soli rapporti di lavoro instaurati prima del 7 marzo 2015.  Il risultato è stato nella pratica l’abolizione in prospettiva della reintegrazione nel posto di lavoro a favore di un indennizzo crescente in ragione dell’anzianità aziendale.

Per rispondere a coloro che chiedono il ripristino della situazione precedente – o tout-court l’abolizione del Jobs Act – è bene preliminarmente dare un’occhiata alla situazione negli altri paesi europei. Premettendo che il meccanismo della buonuscita è di applicazione generale nei casi di licenziamento per motivi economici dell’impresa, questo è anche il caso notevole della Germania in cui per la fattispecie del licenziamento per motivi legati all’impresa (“betriebsbedingte Kündigung” – in cui ricadono, a parte i licenziamenti singoli per cancellazione della posizione, anche le razionalizzazioni operative delle imprese indipendentemente dalla loro situazione economica) non è prevista la reintegra ma un indennizzo economico in ragione principalmente dall’anzianità di servizio (“Abfindung”). In tale quadro il datore di lavoro è sottoposto peraltro ad alcuni obblighi notevoli tra cui la produzione di una decisione formale e motivata così come l’approntamento di un “piano sociale” (Sozialplan) nel caso di licenziamenti collettivi e il rispetto di determinati criteri sociali, in particolare nel caso di selezioni da operare tra i dipendenti, nonché, come in Italia, l’impossibilità dell’impiego in altre funzioni nell’impresa delle persone soggette al licenziamento.  

Per quanto riguarda invece un confronto dell’importo dell’indennizzo al lordo di imposte e contributi, quanto offerto in Italia è superiore ai livelli previsti dalle leggi dei principali paesi europei come mostra il seguente grafico (fonte: F. Teoldi, “L’indennità di licenziamento nei paesi europei maggiori” 2017, sito P. Ichino – i dati italiani sono da rettificare in aumento dopo le modifiche del Decreto Dignità del 2018 che hanno portato a 36 il massimo delle mensilità e a 6 il loro minimo). Tale confronto è ancora più favorevole se si tiene conto della ampia discrezionalità, fondamentalmente sconosciuta altrove, data in Italia al giudice nel fissare il numero delle mensilità a favore della persona licenziata.

Corrige! – dal 2018 in Italia: aumento del massimo e del minimo delle mensilità a 36 e 6 rispettivamente

La ragione per la quale si è optato nei vari paesi per la soluzione dell’indennizzo è facile da vedere: è fondamentale non impedire la trasformazione e razionalizzazione del sistema produttivo a difesa della sua concorrenzialità ed espansione nel tempo proteggendo nel contempo la situazione economica dei dipendenti in caso di ridondanze. Ciò vale in particolare nelle fasi economiche come l’attuale che richiede, nel volgere di un tempo particolarmente breve, una massiccia trasformazione verso un’economia sostenibile ecologicamente e più digitale. Tale processo sarà particolarmente arduo per i paesi come il nostro dove il livello degli investimenti è particolarmente basso così come il tasso di occupazione e dove l’attività economica è polverizzata in un numero molto alto di piccole imprese chiuse in una situazione di produttività modesta e incapaci troppo spesso di espandersi, anche per limitazioni alla qualità della stessa cultura imprenditoriale oltre a ostacoli endogeni di vario genere dell’economia la cui lista è lunga.

Non vi è qui lo spazio per una indicazione precisa delle conseguenze per l’economia italiana della passata applicazione dell’art.18 e delle prospettive per una sua reintroduzione. Ma si può dire che essa ha sostanzialmente contribuito nel passato, al di là del fattore in sé positivo della protezione di posti di lavoro, alla riduzione della dinamica delle imprese e, con esse, dell’economia italiana.

La domanda chiave non è di natura giuridica nel senso dell’applicazione stretta di diritti considerati come acquisiti indipendentemente dalle conseguenze economiche che in ogni caso si ripercuotono sulla condizione economica del lavoratore stesso come l’Italia ha potuto constatare per esperienza diretta, ma di natura pragmatica, ovvero in che termini sia possibile l’evoluzione del sistema produttivo in presenza di un adeguata protezione del lavoratore dipendente.

La strada da seguire sulla base delle osservazioni fatte non può che essere quella del rafforzamento della protezione economica e sociale dei lavoratori nel quadro di una flexicurity estesa. Si tratta di adottare un approccio volto al futuro e alla creazione di nuovi sviluppi economici e non al passato nel mantenimento di posti di lavoro diseconomici che di per sé sono precari. Gli sforzi vanno indirizzati verso una ridefinizione del sistema della previdenza sociale in un quadro organico che implica anche una riforma del sistema pensionistico. 

È difficile qui sopravvalutare la necessità, in concomitanza con l’introduzione di un salario minimo, della realizzazione di un reddito di cittadinanza (non nel senso di una sua universalità) efficace e provvisto della seconda gamba di una politica attiva del lavoro degna del nome. È inoltre da realizzare un’istituzionalizzazione secondo la Costituzione degli organismi di rappresentanza dei lavoratori a migliore protezione dei loro interessi e una più efficace organizzazione dei loro rapporti con la proprietà. Altro discorso, per la stabilizzazione dei buoni posti di lavoro, è da dedicare alla più decisa difesa e promozione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato rendendoli economicamente più vantaggiosi per l’imprenditore rispetto ad altre strutture contrattuali.

Se quanto detto significa che la strada non dovrebbe passare attraverso una reintroduzione dell’art.18, rimane tuttavia sempre aperta ogni discussione sulla perfettibilità degli obblighi del datore di lavoro, ad esempio in senso tedesco.