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La proposta della CDU per un “nuovo Grundeinkommen”

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Circa due settimane orsono, dopo una lunga attesa e ripetute promesse di abolizione del Bürgergeld (“Abschaffung”), la direzione della CDU ha finalmente approvato un documento (https://assets.ctfassets.net/nwwnl7ifahow/PBvPDiuBZOaKSvlKSA67h/143b4df38cbce3c66954e98442734d47/Die_Neue_Grundsicherung.pdf) in cui si delinea la proposta del partito in fatto di assistenza a favore di persone senza impiego o percettori di un reddito netto al di sotto della soglia minima, sistema che oggi porta il nome di Bürgergeld. L’ottimista che si attendeva un documento in linea con le promesse fatte avrà provato un forte senso di delusione. La montagna di una CDU al seguito dell’ideologo del momento, Carsten Linnemann, ha partorito un topolino di quattro paginette scarse in cui non si può intravedere altro che l’abbozzo di un piano di forte inasprimento delle regole o poco più, come qui si cercherà di mostrare. Con riferimento alla massima programmatica di Schröder “richiedere e sostenere” (“fordern und fördern”) si vuole con forza uno spostamento dell’accento sul primo termine ubbidendo al principio secondo il quale solo una dissuasione preventiva e decisa potrebbe aiutare a ridurre drasticamente l’abuso e disabuso del Bürgergeld, fenomeno che viene considerato dalla CDU così rilevante da metterlo in cima a tutti i problemi e le priorità. Una posizione che molti esperti della materia hanno contestato non solo perché avversa agli interessi chi ha urgentemente bisogno del sostegno della comunità ma anche perché palesemente poco rispettosa dei fatti.

Il documento della CDU si compone di un elenco di dieci punti (più un undicesimo, che non tocco, a favore di una riorganizzazione della legislazione sociale) che cerco di riassumere qui di seguito dividendoli in tre segmenti principali: i principi seguiti, le richieste generiche, per lo più già oggetto di misure da parte del governo, e le richieste specifiche che sono le più problematiche.

Il primo luogo la CDU chiede al primo punto dei dieci il ritorno, in un modo che si pretende innovativo, all’uso del termine Grundsicherung (sicurezza di base) già in uso per Hartz IV al fine di sottolineare la convinzione che tale strumento di sostegno debba essere indirizzato alle sole persone che ne hanno effettivamente bisogno (”La Grundsicherung non è a disposizione di tutti ma solo di coloro che non possono far fronte alle esigenze della vita prestando il proprio lavoro o attingendo al proprio patrimonio”). Falsamente si sostiene nel documento che il Bürgergeld sia una variante di reddito universale incondizionato (“bedingungloses Grundeinkommen”) poiché ad esso attingerebbero anche persone che non dovrebbero avere il diritto.

Sebbene tale accusa non sia sostenuta dai fatti e perciò poco meritoria di risposta, sarebbe errato , dopo una breve alzata di spalle, vedere nella modifica della terminologia solo l’espressione di un’esigenza puramente nominalistica e dettata dal tentativo di drammatizzare artificiosamente il tema a proprio favore contro il governo – un atteggiamento studiato e voluto che l’Unione mette in mostra ogni giorno di più da quando la sua conduzione è nelle mani di Friedrich Merz, politico che vive delle distinzioni e delle divisioni.

Principi (punto 1 – mia numerazione sulla base dell’ordine di presentazione nel documento della CDU)

Alla base delle considerazioni della CDU sta il principio secondo il quale non saremmo di fronte a un “diritto” spettante ad ogni cittadino, ovvero Bürger, che versi in una determinata situazione di ristrettezza economica ma di una elargizione unilaterale dello stato a favore di un gruppo di persone che si ritrova in uno stato di bisogno cronico e quindi fondamentalmente non migliorabile. Chi è in grado di lavorare e ha probabilmente già percepito per un periodo sufficientemente lungo il sussidio di disoccupazione dovrebbe avere l’obbligo del reimpiego entro un periodo da stabilire che Linnemann si immagina di sei mesi. In una intervista al Deutschlandfunk, del 05.12.2023 il politico rivendica il diritto a „discutere dell’obbligo delle persone che sono in grado di lavorare di accettare un lavoro dopo un certo periodo di tempo – in Danimarca sono sei mesi. Altrimenti devono accettare un’attività di volontariato o una riduzione del sussidio.” Ci si ritrova di fronte a una visione della realtà dicotomica e dimentica dell’esistenza di situazioni intermedie e soggette a cambiamento attraverso un’azione di sostegno da parte dello stato: di qua i “veri” bisognosi cui si paga la “neue Grundsicherung”, di là chi è in grado di lavorare e deve trovare impiego secondo tempistiche di fantasia.

A poco vale osservare che ogni Bürgergeld deve tenere conto di fenomeni come la disoccupazione detta involontaria, ovvero quella di coloro che sono disposti ad accettare un lavoro alle condizioni prevalenti sul mercato senza che questo sia disponibile o che sono nella condizione di potere trovare una nuova collocazione solo dopo un più o meno lungo processo di riqualifica. È importante ricordare qui che tra le importanti novità introdotte dal Bürgergeld figura la priorità del prosieguo del percorso di riqualifica rispetto alle occasioni di impiego che nel mondo di Hartz IV significavano, anche se occasionale, la sua interruzione.

Malgrado il titolo del punto 3 (vedi oltre) possiamo dire che per la CDU invece il tema della riqualifica trova, anche a costo di evidenti contraddizioni nella pratica, un posto modesto all’interno di una Grundsicherung per il motivo cui accenno sopra: essa deve andare solo ai veramente bisognosi.

Non solo. Inutilmente si cerca tra i numerosi interventi degli esponenti dell’Unione un accenno al fatto che in realtà la legislazione attuale, contrariamente a quello che sembra voler far credere con il proprio silenzio in merito, stabilisce obblighi per il disoccupato riguardo alle offerte di lavoro che riceve, ovvero quando queste sono “ragionevoli” (“zumutbar”). In termini monetari il minimo della retribuzione è posto al 70% sulla base del Tarifvertrag o della remunerazione prevalente a livello locale. In termini non monetari ragionevoli sono “di regola tutte le attività la cui esecuzione è possibile per l’avente diritto al sussidio (del Bürgergeld, ndr) e che non collidono con disposizioni di legge.” (fonte: BMAS, https://www.bmas.de/DE/Arbeit/Grundsicherung-Buergergeld/Buergergeld/Fragen-und-Antworten-zum-Buergergeld/fragen-und-antworten-zum-buergergeld-art.html).

Il sospetto di insincerità da parte dell’Unione, che vuole vendersi come innovatrice nel richiedere un obbligo dell’accettazione di un lavoro, si avvicina pericolosamente alla certezza quando si legge nel sito dello stesso Ministero: “Se il lavoro proposto è ragionevole e il Jobcenter ne richiede l’accettazione l’offerta deve di regola essere accettata. Chi beneficia di sostegni da parte dello Stato, ovvero da parte dei contribuenti, deve rispondere a sua volta attivandosi e collaborando nello sforzo indirizzato al ristabilimento più rapido possibile del suo equilibrio economico.” L’obbligo esiste in realtà già dall’introduzione di Hartz IV contrariamente all’impressione che può nascere dalle affermazioni della CDU. Il problema si riduce quindi, come accennato sopra, al modo in cui tale obbligo viene realizzato. La CDU mette l’accento sull’uso educatore della coercizione – non per niente la quarta richiesta nella proposta della CDU si intitola “Sanzioni come strumento dell’accettazione”. Di più su questo punto più oltre.

Richieste generiche (punti 3, 4, 5, 9,10)

Tre delle quattro richieste generiche (3, 4, 9) riguardano la necessità di un’intensificazione dell’azione di collocamento da parte dei Jobcenter, una migliore digitalizzazione e automazione dei servizi e un’azione più forte contro l’abuso dei servizi sociali. Le richieste così espresse senza dettaglio qualificante non richiedono commenti se non quello che una volta di più, come in occasione del recente documento dei dodici punti sulla politica economica, la CDU evita prudentemente di addentrarsi sugli aspetti finanziari e non spiega quale fabbisogno si attenda e da dove vadano prese le risorse.

La richiesta 5 riguarda esclusivamente gli immigranti e propone una migliore integrazione grazie a un loro impiego sul lavoro prima ancora che abbiano raggiunto gli standard di padronanza della lingua tedesca attualmente richiesti. Si tratta di una proposta che il governo ha già presente e che è stata oggetto lo scorso novembre di misure specifiche mirate in particolare ad anticipare i tempi dei permessi di lavoro entro i sei mesi dall’arrivo sul suolo tedesco. Anche qui la mancanza nel documento della CDU di dettaglio nonché di riferimento all’azione del governo, anche solo per critica e  contrapposizione, fa specie.

La richiesta 10 sollecita una “modernizzazione (sic!) del meccanismo di adeguamento” degli importi dei sussidi. Mancando ogni riferimento all’indirizzo da prendere nella modifica del meccanismo vi è ben poco da dire se non attirare l’attenzione sul riconoscimento nel documento dell’esigenza che l’adeguamento rimanga su base annuale e che esso non debba riflettere l’inflazione solo a posteriori. Tale aspetto aveva condotto due anni fa a una modifica delle formule matematiche col fine di riflettere più velocemente gli aumenti di prezzo conducendo in una situazione eccezionale come quella del 2023 a un risultato indesiderato che verrà tuttavia corretto sulla base del meccanismo stesso l’anno che viene.

Richieste specifiche (punti 2, 6, 7, 8)

  • “Migliori incentivi al lavoro”
    Il documento propone una riduzione delle detrazioni compensatorie dal sussidio nel caso di lavori anche occasionali. Una discussione è in corso in merito e la proposta non è assolutamente un’esclusiva della CDU.  Sorprendentemente questa non appare prestare qui attenzione al fatto che un trattamento più favorevole dei redditi aggiuntivi comporterebbe una riduzione della differenza del ricavo netto tra i beneficiari del Bürgergeld e i lavoratori che si ritrovano nelle fasce basse di reddito – uno dei cavalli di battaglia dei conservatori usato da questi per lamentare l’eccessiva generosità del Bürgergeld.
  • “Sanzioni come incentivo al lavoro”
    In questo punto si sostiene l’ardua tesi, variamente commentata in tutti i giornali, secondo la quale sia legittimo negare il sussidio a chi rifiuta ripetutamente le offerte di lavoro (cosiddetti “Totalverweigerer”) poiché tale comportamento implicherebbe nei fatti l’assenza dello stato di bisogno (“Bedürftigtigkeit”). A parte l’inopportunità di una regola così draconiana che apre il discorso sul trattamento di chi non sia in grado per mancanza di istruzione o più semplicemente di voglia, di prestarsi alla fatica del lavoro (che si fa? lo si affama?), molti hanno fatto osservare che la Corte Costituzionale tedesca ha posto con sentenza del 05.11.2019 chiari limiti ai provvedimenti sanzionatori in considerazione del principio della proporzionalità. Tali limiti non consentono, tra l’altro, una riduzione, anche in caso di ripetuta infrazione, maggiore del 30% delle somme percepite come reddito nell’anno. A questo proposito è importante sottolineare il richiamo della Corte nel preambolo della sentenza al fatto che “Il diritto a una vita dignitosa non va perso anche nel caso di un comportamento non considerato dignitoso.”
    Da notare che anche qui mancano nel documento della CDU riferimenti alle recenti decisioni del governo in merito a inasprimenti delle regole. Ci si deve infine chiedere dove rimanga il senso pratico nelle proposte della CDU dato che solo meno di 14.000 percettori del Bürgergeld su oltre 5 milioni di aventi diritto hanno ricevuto sanzioni nel 2023. Sensibili riduzioni di costi per lo stato non sono assolutamente da attendere da queste misure quando le infrazioni hanno poco peso.
  •  “Gli appuntamenti vanno rispettati”
    Si tratta di una misura analoga a quella del punto 6 consistendo nella sospensione del sussidio fino al ristabilimento del contatto interrotto con il beneficiario del Bürgergeld – anch’essa in obbedienza al principio secondo il quale l’interessato dimostra con il suo comportamento di non essere in uno stato di bisogno giustificando così la misura.
  • “Solidarietà solo per coloro, che hanno veramente bisogno di sostegno””
    Nel documento si reclama la reintroduzione del controllo immediato sulle condizioni patrimoniali del richiedente del Bürgergeld oltre a una diminuzione del patrimonio protetto (“Schonvermögen” oggi fissato a 15.000 euro per persona dal secondo anno). Con l’introduzione del Bürgergeld si era provveduto a un rinvio del controllo all’inizio del secondo anno dalla percezione del sussidio – ciò soprattutto in considerazione di ragioni di economicità. Per ragioni analoghe e, in particolare, per la difficile praticabilità ed eccessiva invasività in caso di reintegro entro il primo anno nel mondo del lavoro della persona disoccupata, si è provveduto nel Bürgergeld al rinvio di ogni richiesta di trasloco in abitazioni più piccole.
    Data la ragionevolezza delle modifiche introdotte con il Bürgergeld non si può che essere perplessi per le richieste contenute nel documento della CDU che avrebbero come conseguenza una sensibile diminuzione della sicurezza economica delle persone senza particolari vantaggi finanziari prevedibili per lo Stato.

Termino qui un intervento già fin troppo lungo per essere dedicato a un documento povero nel contenuto e che, contrariamente alle pretese, è volto quasi unicamente, con ben poca inventiva, all’inasprimento di sanzioni. Il suo spirito si trova in evidente contraddizione con quanto proclamato nelle osservazioni iniziali del documento in esame, in particolare con la frase seguente: “ Vogliamo un ritorno a un sistema basato sul “richiedere e sostenere” con il proposito di aiutare la persona nell’apporto del proprio contributo di lavoro alla società, a essere finanziariamente indipendente e a provvedere con le proprie forze al proprio sostentamento.”

PAR – 03.04.2024




La spesa sociale in Germania – dov’è l’esplosione?

Fonte immagine: Image by freepik

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

In considerazione del moltiplicarsi degli interventi da parte di Unione ed FDP con richieste sempre più pressanti di riduzione della spesa sociale in modo da permettere investimenti e aumenti del budget militare urge fare ordine e guardare a dati e fatti. È ovvio che questo dilemma così posto è conseguenza in buona parte dell’applicazione del freno all’indebitamento (Schuldenbremse) che toglie flessibilità alla politica fiscale del governo. Non mi soffermo qui sugli aspetti negativi dello strumento che ieri Angel Uribe di Citadel ha definito “un fiasco” in Market Insight del Financial Times ma mi permetto di attirare l’attenzione su un recente studio di IMK a firma degli economisti Dullien e Ritzler che mostra un confronto tra la spesa sociale in Germania e negli altri paesi occidentali (“Die Mär vom ungebremst wachsenden deutschen Sozialstaat”). In molti giornali tedeschi, tra cui anche il Vorwärts del 20 febbraio scorso, si sono dedicati articoli sul breve lavoro in cui viene documentata la posizione di “metà classifica” della Germania tra i paesi europei a riprova del fatto che non si è assolutamente di fronte a una situazione particolarmente elevata dei costi sociali come viene venduto dai partiti conservatori.
Mancando tuttavia nel lavoro di Dullien e Ritzler un riferimento statistico all’evoluzione nel tempo della spesa sociale tedesca mi sembra importante coprire anche tale punto in modo veloce ma sufficientemente conclusivo in modo da mostrare la sua evoluzione sostanzialmente stabile e ben lontana dall’esplosione che alcuni sorprendentemente vogliono vedere e denunciano.
Il grafico mostra innanzitutto un andamento praticamente costante della spesa sociale del sistema, inclusa quella privata (ad es. per l’assicurazione sanitaria), con un temporaneo e prevedibile aumento del rapporto sul PIL in corrispondenza della pandemia e della forte turbativa sui mercati dell’energia negli anni 2000-2001. La leggera inclinazione verso l’alto è fondamentalmente riconducibile alla spesa pensionistica come mostrato nel successivo grafico 2. La parte della spesa finanziata dallo stato (mediante utilizzo delle entrate tributarie) si comporta in modo ancora più stabile in relazione al PIL ritrovandosi nel 2022 in linea con l’inizio del decennio passato (i dati per il 2033 saranno disponibili a breve).
GRAFICO 1 – fonti: Sozialbudget/BAS, Destatis

GRAFICO 2 – fonti: Sozialbudget/BAS, Destatis

Come è noto è il sistema pensionistico, a parte il sistema sanitario ove si parla di importi molto inferiori, a richiedere in particolare un intervento di riordino da parte dello stato in considerazione di una previsione negativa della sua dinamica. Cercherò di occuparmene in un altro contributo
È interessante dare uno sguardo al bilancio del Bund , ovvero agli aggregati che più immediatamente sono regolabili dal governo e in cui si ritrovano i principali capitoli di spesa oggetto di contesa da parte dell’Unione. Anche qui, nel quadro generale, l’evoluzione della spesa totale del Bund in rapporto al PIL (2011-2023, senza le gestioni straordinarie, ad es. per la spesa militare) evidenzia un ritorno l’anno scorso ai livelli storici conosciuti all’inizio degli anni ‘10 dopo l’impennata 2020-2022 dovuta alle cause già citate.
GRAFICO 3 – fonte: BMF

All’interno della spesa totale dell’amministrazione centrale quella sociale mostra anch’essa un andamento ancor meno problematico malgrado crescenti impegni e problemi, in particolare relativamente ai temi della pensione e della migrazione. È da notare che in rapporto al PIL la curva della spesa sociale si ritrova nel 2023 con il 5,2% al di sotto del livello ben più elevato degli anni 2011-2012. Ciò fa trasparire, con particolare riguardo al periodo della grande coalizione Unione/SPD, una politica restrittiva al fine di limitare la spesa in una rincorsa alla schwarze Null di Schäuble.
GRAFICO 4 – fonte: BMF

Diversamente si presenta la curva della spesa globale dello stato ove confluiscono anche gli impegni straordinari derivanti dai Sondervermögen (gestioni speciali, tra cui quello per le spese militari fino alla concorrenza di € 100 mrd).
GRAFICO 5 – fonte: Destatis

Qui sono i veri problemi cui non si è ancora dato veramente mano e dove una recente sentenza della Corte costituzionale, unitamente all’impasse su una revisione della Schuldenbremse, restringono fortemente la flessibilità della spesa pubblica mentre le necessità si fanno sempre più pressanti come mostra il fileggiamento della competitività del dell’economia tedesca .
È evidente che in un tale contesto i partiti conservatori, rifiutando sia un maggiore indebitamento sia una politica fiscale più aggressiva, non possono che richiedere una riduzione della spesa e in concreto di quella sociale attirando l’attenzione su un suo eccesso peraltro non documentato e non documentabile. Fa specie che il primo attacco sia avvenuto sul terreno del Bürgergeld ove è più facile giocare sui risentimenti di molti cittadini, già attizzati da un’AfD populista e xenofoba, contro terzi ritenuti approfittatori saprofiti. Di fronte alla realtà dei numeri modesti ricavabili da restrizioni sul Bürgergeld l’obiettivo va ora a includere altre posizioni della spesa e in particolare quelle relative al sistema pensionistico – anche se tuttora in modo non riconducile a un piano preciso. La richiesta generale di complementi pensionistici sotto forme a capitalizzazione non possono che portare a un sostanziale aggravio per lo stato (vedi l’infelice esempio del Cile) se non si vuole andare diritto a una riduzione in prospettiva delle pensioni, a parte l’assoggettamento all’obbligo di contribuzione di chi al momento è esente come i dipendenti pubblici. Il progetto della attuale coalizione ne è una dimostrazione, per quanto assai modesta negli importi e assolutamente insufficiente “a fare la differenza”.
È evidente dai grafici di cui sopra che la soluzione va trovata altrove.
Che significa tutto ciò per la sinistra, assodato che la situazione attuale è incompatibile con uno sforzo finanziario della dimensione richiesta dalle pesanti esigenze del momento?
È da notare che il peso dell’imposizione fiscale la Germania offre spazi indubbi di manovra. Contrariamente a quanto ripetuto incessantemente dall’Unione, per quanto prevalentemente con riferimento alle imposte sulle imprese, il sistema tedesco non figura tra quelli più soggetti ad alta tassazione come la seguente tabella tratta dalle statistiche della OECD:

Introiti fiscali: imposte, contributi sociali 2022
Francia 46,1 Grecia 41,0  
Norvegia 44,3 Germania 39,3  
Austria 43,1 Lussemburgo 38,6  
Finlandia 43,0 Paesi Bassi 38,0  
Italia 43,0 Spagna 37,5  
Belgio 42,4 Portogallo 36,4  
Danimarca 41,9 Gran Bretagna 35,3  
Svezia 41,3 Svizzera 27,2  

Ma sarebbe errato risolvere la questione prevalentemente sul piano fiscale mentre il nocciolo del dilemma riguarda lo spazio disponibile per un aumento particolarmente consistente del PIL e come questo possa essere realizzato senza che un eccesso di domanda provochi inflazione e/o non sia ottenibile per una disponibilità insufficiente di fattori di produzione, in particolare di capitale umano allorché il tasso di occupazione si trova a un massimo storico, e senza che la sola via praticabile sia quella di una riduzione del consumo – come sarebbe la conseguenza logica seguendo le prese di posizione dei partiti conservatori.
PAR 14.03.2024




L’attacco allo stato sociale in Germania: il caso notevole del Bürgergeld

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Si stanno moltiplicando, nel contesto politico tedesco, attacchi contro l’intero sistema previdenziale perché troppo generoso. In tali attacchi politici conservatori giungono a proporre una generale riduzione della spesa sociale per permettere, in particolare, maggiori investimenti. Ciò è anche una logica conseguenza del loro rifiuto di considerare una sospensione o una revisione della legge di freno all’indebitamento pubblico (Schuldenbremse) che è tra le più rigide e restrittive in circolazione. In tal senso, ad esempio, si è apertamente espresso Mathias Middelberg, vicepresidente della frazione dell’Unione al Bundestag durante il dibattito parlamentare sulla legge di bilancio lo scorso 30 gennaio ponendo apertamente e senza mezzi termini un’infausta e improvvida alternativa tra investimenti e spesa sociale.

Come ha recentemente osservato su Die Zeit Marcel Fratzscher, presidente del DIW: “Ormai solo di rado lo stato sociale viene considerato come parte integrante di una democrazia e di un’economia di mercato funzionanti. Al contrario, costi e organizzazione dello stato sociale vengono presentati come uno dei grandi problemi economici e politici del nostro tempo… e si prospettano riduzioni pesanti delle prestazioni sociali come l’unica soluzione per permettere gli investimenti necessari per il futuro della nostra economia.” Non si può essere più d’accordo con queste parole alle quali l’autore aggiunge una constatazione importante: “Quasi tutti i fatti contraddicono tale narrativa.” Il che implica anche che l’opposizione dei conservatori non si cura della statistica e dei dati economici mostrando di avere assorbito la lezione trumpiana preferendo ai discorsi ragionati il gioco delle frasi ad effetto in un richiamo a istinti elementari degli elettori. In tale ottica il beneficiario della spesa sociale viene visto principalmente come un approfittatore che ruba risorse economiche alla società e costringe lo stato a imporre imposte esose – il mito discutibile della Germania dalle imposte e spesa sociale elevate nel confronto con altri paesi. Di ciò mi riprometto di parlare un’altra volta, sempre sulla base di fatti ed evidenze.

Per quanto riguarda il Bürgergeld è opportuno come prima cosa contestare la falsa affermazione secondo la quale chi lavora si trova economicamente svantaggiato rispetto a chi è senza occupazione e percepisce il sussidio. Ciò rappresenterebbe, secondo i sostenitori di tale tesi, un forte ostacolo all’integrazione del non occupato nel mondo del lavoro per la mancanza di un sufficiente stimolo economico nella ricerca di un’occupazione. Tra i vari esempi e in un coro a più voci, Casper Linnemann, segretario della CDU e responsabile di un recente programma del partito assai ritrito e presentato come grande novità, è giunto ad affermare circa un anno fa in televisione presso Maybrit Illner l’enormità secondo la quale chi prende il Bürgergeld arriva ad avere in tasca mensilmente fino a 800 euro netti più di chi è occupato a parità di situazione familiare. L’incauta iperbole di Linnemann si basava, per sua sfortuna, su calcoli errati di uno studio dell’IfW che dovette essere celermente ritirato dalla circolazione a pochi giorni dalla sua pubblicazione dopo che un’ondata di contestazioni aveva travolto gli autori.

Numeri corretti possono essere trovati sul sito del Portal Sozialpolitik, che è stato tra i principali affossatori dello studio dell’IfW, e qui sintetizzati in un confronto che copre in modo sufficientemente rappresentativo la complessa casistica assumendo una remunerazione della persona occupata a tempo pieno più bassa possibile sulla base del salario minimo (Mindestlohn).

Come si può facilmente constatare, anche nel caso in cui l’occupato sia remunerato ai minimi di mercato sulla base del MIndestlohn e una sola persona sia occupata nel caso di una coppia, il delta del reddito netto (detto “Lohnabstand”) è chiaramente a favore della persona occupata. È importante osservare qui che nei casi in cui il delta risulta negativo (nella tabella: coppia senza prole e genitore single con un figlio) interviene il meccanismo compensatore del sussidio integrativo (“Aufstockung”), pure parte del Bürgergeld e inopinatamente trascurato nello studio non più disponibile dell’IfW, che si aggiunge al reddito da lavoro in modo da ristabilire una differenza positiva rispetto al reddito netto del percettore del Bürgergeld. Tale misura compensatrice fu introdotta con l’Hartz IV nel 2005, quando ancora non esisteva il salario minimo, al fine di assicurare che, in linea di principio, la differenza di reddito non sia negativa a sfavore dell’occupato.

È bene osservare che in generale gli istituti economici non seguono il parere dei politici dell’Unione su questo punto – così ad esempio Andreas Pichl, direttore presso l’istituto Ifo: „Quanto dicono alcuni politici secondo cui chi vive esclusivamente di prestazioni sociali riceva netto più di chi lavora con un basso salario è semplicemente falso.”

Rimane naturalmente aperto il quesito soggettivo se la differenza positiva dei redditi disponibili a favore dell’occupato non sia troppo ridotta e demotivante poiché “lavorare non conviene”. Mi limito qui a osservare che il quesito è assai mal posto se la diagnosi è che beneficiario del Bürgergeld è trattato troppo generosamente. Chiederei quindi a coloro che sostengono tale posizione per quale ragione non siano invece i salari stessi a essere bassi e sovente così bassi da trovarsi sotto il “livello minimo di vita rispettoso dell’individuo” (“menschenwürdiges Existenzminimum” che discende dall’art. 1 Grundgesetz – sentenza 05.09.2009 del Primo Senato, Corte Costituzionale) obbligando alla concessione di un introito compensativo sotto forma di Bürgergeld.  

La discussione si è fatta ancora più accesa successivamente al forte aumento per il 2024 del sostegno base del Bürgergeld, +12% rispetto all’anno precedente. Molti contestano tale aumento in considerazione del notevole rallentamento in corso dell’inflazione e a fronte dell’aumento molto più contenuto del salario minimo (+3,4%). Tale ragionamento non tiene però conto del fatto che i due meccanismi di determinazione sono profondamente diversi. Il secondo meccanismo segue nell’adeguamento del salario minimo le raccomandazioni di una commissione di esperti che agisce sulla base dell’evoluzione attesa dell’economia, ovvero di una previsione, mentre il primo contempla un adeguamento a posteriori sulla base per il 70% di un paniere di beni rappresentativo del livello di vita dei percettori di Bürgergeld (che viene rivisto ogni cinque anni, l’ultima volta nel 2021) e per il 30% dell’incremento dei salari. Il ritardo insito in questo meccanismo nel trasmettere le variazioni, positive o negative, dell’inflazione aveva causato nel 2022 una sensibile perdita di potere di acquisto per i percettori del Bürgergeld, come evidenziato nel grafico 2. Volendo quindi evitare il ripetersi di una situazione simile si è introdotto dal 2023 un secondo fattore nel calcolo dei sussidi al fine di accelerare la trasmissione della dinamica dei prezzi. Tale fattore aggiuntivo è basato sulla rilevazione dell’inflazione dell’ultimo trimestre disponibile nel momento della determinazione, ovvero nella seconda metà di ogni anno, del sussidio per l’anno a venire. Ciò ha tuttavia provocato per il 2024, in seguito a un’inversione del trend dell’inflazione nel corso del 2023, un eccesso nell’incremento dei sussidi, inversamente a quanto avvenuto, come detto sopra, nel 2022. È qui fondamentale ricordare che accelerazioni del sussidio oltre il livello calcolabile a posteriori sulla base di dati effettivi vengono compensate nel calcolo dell’anno successivo grazie a una neutralizzazione dell’eccesso dell’anno precedente. In tal senso le varie richieste di riduzione del sussidio avanzata dall’Unione (Merz era giunto a richiedere semplicemente un’assai problematica sospensione dell’aumento) trovano automaticamente risposta grazie al meccanismo di calcolo senza intervento esterno. Il caso opposto si verifica nel caso di un’accelerazione dell’inflazione.

Il seguente grafico mostra (fonte: H. Schäfer, C. Schröder, S. Seele: “Bürgergeld und Preisentwicklung”, iW) come la dinamica del Bürgergeld nel periodo 2020-2024 sia rimasta in modo continuativo inferiore a quella dei prezzi del paniere con la sola eccezione notevole dell’anno in corso che, come detto sopra, troverà correzione in futuro con la conseguenza che non si attendono al momento aumenti del Bürgergeld per l’anno prossimo. Non sembra pertanto realistico e consigliabile, come raccomanda anche l’iW, di procedere a interventi ad hoc sotto la pressione degli eventi. Consigliabile è invece procedere a una revisione del meccanismo di calcolo a ulteriore riduzione della sua inerzia tuttora eccesiva che può favorire (nel caso di riduzione dell’inflazione dopo l’aggiornamento dei sussidi, come nel caso attuale) o sfavorire (nel caso contrario di aumento dell’inflazione) i beneficiari a seconda della situazione.

GRAFICO 1 – Andamento cumulato degli aumenti del Mindestlohn e del Bürgergeld (caso della persona single), 2020-2024

Linea rossa: Bürgergeld, single; linea blu: Mindestlohn; linea continua: indice prezzi paniere Bürgergeld

Per procedere a una valutazione economica del Bürgergeld è però bene analizzare come i sussidi si siano sviluppati nel tempo a partire dell’introduzione di Hartz IV nel 2005, a cui si è sostituito il Bürgergeld dall’inizio del 2023, ricordando che il paniere di beni di consumo e di servizi del Bürgergeld è stato determinato tenendo come riferimento la situazione di rischio povertà fissato a due terzi del reddito disponibile mediano. L’andamento del sussidio base calcolato in termini reali utilizzando per semplicità l’indice dei prezzi al consumo (grafico 2) mostra che il suo percettore non abbia sostanzialmente partecipato all’aumento di benessere della popolazione tedesca. L’Indice raggiunge un valore di solo +4,3% in termini reali alla fine del 2023 rispetto all’inizio del periodo. Il 2024 mostrerà a dicembre un insolito balzo verso l’alto che verrà riassorbito successivamente, come spiegato sopra.

GRAFICO 2

Il seguente grafico evidenzia come la dinamica del Bürgergeld sia rimasta sostanzialmente al di sotto di quella ben superiore del prodotto lordo e del reddito disponibile, entrambi pro capite. La differenza tra l’indice del PIL pro capite e quello del sussidio base (linea gialla) raggiunse il valore massimo nel 2022 con un notevole +40% rispetto all’inizio del periodo.

GRAFICO 3

L’andamento del carico per l’erario dal momento dell’introduzione di Hartz IV a oggi evidenzia, grazie a una sostanziale riduzione degli aventi diritto fino al 2021 e alla crescita più veloce del PIL rispetto al Bürgergeld come detto sopra, una progressiva riduzione dell’impatto percentuale della spesa imputabile al SGB II (Codice di sicurezza sociale, libro II) sul bilancio statale. Tale spesa include, oltre al Bürgergeld in senso stretto (precedentemente: Hartz IV), i costi per le misure di politica attiva del lavoro associate e quelli della relativa amministrazione. È importante notare come i rapporti rispetto sia al PIL sia alla spesa pubblica totale mostrino un trend alla riduzione per tutto il periodo di riferimento malgrado gli aumenti in valore assoluto a partire dal 2012, da € 40,0 mrd a € 46,8 mrd con un incremento medio annuo dell’1,4% solamente. Si comprende facilmente come i politici dell’Unione amino fare riferimento nei loro discorsi ai valori assoluti della spesa tacendo sul quadro d’insieme che contraddice la loro argomentazione contro un costo ritenuto proibitivo del Bürgergeld.

GRAFICO 4

Il grafico seguente mostra infine come il recente aumento degli aventi diritto al Bürgergeld, dopo un periodo di continua riduzione, sia relativamente modesto evidenziando alla fine dell’anno scorso un livello non superiore a quello prepandemico e quindi assolutamente non tale da giustificare gli allarmi lanciati da molte parti.

GRAFICO 5

La logica delle argomentazioni dell’Unione mostra ancora di più la corda se si considera che il recente incremento degli aventi diritto dal 2021 deriva fondamentalmente dall’afflusso di migranti dall’Ucraina (0,7 milioni di aventi diritto ucraini al Bürgergeld nell’ottobre 2023 su un totale di 5,5 milioni circa) – un afflusso che in realtà con l’aiuto della perfida Russia minaccia di apportare all’economia tedesca almeno parte di quei lavoratori di cui ha sempre più bisogno e la cui ritardata integrazione è in buona parte da ricondurre alla scelta del governo di dare priorità all’apprendimento della lingua rispetto all’avvio nel mondo del lavoro, differentemente da quanto deciso in altri paesi europei. Come sappiamo il governo tedesco ha recentemente corretto in modo opportuno la sua decisione.

Sulla base delle informazioni di cui sopra è difficile comprendere la richiesta portata avanti in particolare da Caspar Linnemann di abrogare (“abschaffen”) il sistema attuale del Bürgergeld – soprattutto se si considera che i rappresentanti stessi dell’Unione hanno elogiato apertamente in un passato non tanto remoto l’introduzione di Hartz IV, di cui il Bürgergeld rappresenta un’evoluzione. Il modo estremo con cui Linnemann e altri avanzano la loro richiesta sorprende ancora di più se si considera che l’Unione votò compatta con un solo voto contrario a favore della legge istitutrice del Bürgergeld il 25 novembre del 2022. Il fatto che l’Unione abbia appoggiato fra l’altro, durante il percorso della legge, il meccanismo di calcolo in seno alla Commissione di conciliazione parlamentare (Vermittlungsauschuss) è un ulteriore dettaglio significativo (vedi ad es. Tagesschau, 8 settembre 2023).

È interessante notare che in assenza di proposte concrete da parte dell’Unione riguardo all’introduzione di un nuovo sistema in luogo del Bürgergeld a parte puntate miranti a restringere flessibilità nel rifiuto di offerte di lavoro o a una riduzione degli aventi diritto, soprattutto con riguardo ad altre nazionalità, la linea di fuga dell’Unione contempla in vario modo una spinta diretta a un maggiore impiego dei senza lavoro e a modifiche dell’imposizione fiscale a favore dei già occupati con il fine di accrescere l’attrattività dell’occupazione – ciò ad esempio attraverso l’esenzione di determinate prestazioni come quelle in giorni festivi o gli straordinari. È un dato di fatto, fra l’altro, a spiegare le giravolte dell’Unione, che riduzioni sistematiche del Bürgergeld sono difficilmente immaginabili anche solo per il più che probabile conflitto con le disposizioni del Grundgesetz cui si accenna sopra.

Esemplare per l’indeterminatezza di molti degli interventi dei rappresentanti dell’Unione è quello di Mathias Middelberg, vicepresidente della frazione democristiana al Bundestag e particolarmente impegnato nelle questioni che riguardano la tematica delle finanze dello stato, durante un’intervista concessa lo sorso 18 gennaio a Cicero e di cui riprendo integralmente una risposta:

Domanda: Dove vedrebbe risparmi con il fine di alleggerire il carico sui cittadini tedeschi?
Risposta: Risparmi sul Bürgergeld e dal tema asilo. La spesa legata al Bürgergeld che è la posizione di bilancio che più velocemente cresce non viene quasi toccata attualmente. Nel frattempo 44 miliardi di euro vengono spesi ogni anno per il Bürgergeld, un euro su dieci nel bilancio pubblico. Qui si deve girare la barra in modo deciso. Non si tratta di togliere qualcosa alle persone più povere ma di portare più gente nel mondo del lavoro.
Quattro milioni di beneficiari del Bürgergeld sono abili al lavoro e potrebbero lavorare. Se riuscissimo ad avviare al lavoro anche soltanto un milione di queste persone che sono in linea di principio abili al lavoro riusciremmo a generare tra Bürgergeld risparmiato e maggiori introiti fiscali e previdenziali fino a trenta miliardi circa di euro per le casse dello Stato.”

Middelberg viene da molti ritenuto un ottimista in merito al potenziale di impiego degli aventi diritto al Bürgergeld. Non solo la Germania è riuscita a incrementare il tasso di occupazione dal 2010 dal 69,7% al 77,4% nel 2023 figurando oggi tra i primi della classe ma gli stessi numeri del Burgergeld non farebbero intravedere il potenziale che Middelberg scorge. Secondo calcoli del DIW solo 1,7 milioni di persone circa, un numero assai inferiore a quello immaginato dall’esponente della CDU, sono in linea di principio potenzialmente a disposizione per un’assunzione di qualche tipo, previa riqualifica o meno.

Da ultimo è importante rilevare quanto possano essere diverse le concezioni per una sicurezza sociale di base (“Grundsicherung”). Mentre l’introduzione del Bürgergeld ha avuto come fine principale quello di mettere in maggiore risalto rispetto ad Hartz IV la funzione di riqualifica e ricollocazione del non occupato (ad esempio attraverso l’abolizione del Vermittlungsvorrang che obbligava all’interruzione del processo di riqualifica in caso di un’opportunità di lavoro per quanto limitata nel tempo) l’Unione vede in esso, così come la Presidente del Consiglio italiana, uno strumento di aiuto per persone impedite nell’esercizio di un lavoro. Come Carsten Linnemann ha detto non molto tempo fa alla Süddeutsche: “Lo stato sociale deve essere presente per le persone che sono realmente bisognose, che non possono lavorare… In futuro ognuno che può lavorare e riceve sussidi dovrà accettare un’offerta di lavoro entro i sei mesi o lavorare in volontariato.” Inoltre: “Chi non vuole lavorare non lo deve fare – ma non può poi attendersi che la comunità assuma i suoi costi.” È significativo e sintomatico che i temi, fra i tanti trascurati, di una maggiore efficienza dei Job-Centers tedeschi e dei processi di riqualifica non vengano affrontati in molti dei discorsi che sentiamo.

Non si può che ripetere la considerazione di Marcel Fratzscher: “Quasi tutti i fatti contraddicono tale narrativa” (dei partiti conservatori).

03.03.2024




Stellantis, i posti di lavoro e l’illusione dell’italianità. Che fare?

Immagine. 1960, quando l’auto italiana era innovazione: trazione anteriore, motore boxer a cilindri contrapposti montato di sbalzo, freni a disco sulle quattro ruote a doppio circuito, servosterzo, iniezione diretta (modello successivo).

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Sull’importante e un tempo economicamente più importante fronte dell’automobile le notizie non sono buone in Italia. Ciò spinge molti suoi politici a intervenire con forza e a colorare non di rado la realtà – anche usando fraseologie prese da un passato che si sperava dimenticato. Questo approccio confonde le cose e impedisce una riflessione matura e oggettiva. Così Meloni, facendo la voce grossa come sua abitudine anche quando ha solo scartine in mano, pesca nel passato remoto ed esige un’italianità nella produzione di auto che non esiste più in un mondo in cui la globalizzazione significa di necessità una ripartizione delle funzioni produttive a scavalcare i confini nazionali: “Se si vuole vendere auto sul mercato internazionale pubblicizzandola come gioiello italiano allora quell’auto deve essere prodotta in Italia questa la questione che dobbiamo porre”, rivolgendosi a Stellantis il 24 gennaio. In realtà vetture con il marchio Fiat vengono prodotte in modo crescente fuori dal nostro paese così come si costruiscono in Italia auto di altri marchi del gruppo Stellantis cui Fiat appartiene. Non solo: così come i modelli concorrono fra di loro sul mercato così anche gli impianti di uno stesso gruppo, disseminati in vari paesi, rivaleggiano al suo interno per la produzione dei veicoli sulla base della rispettiva efficienza produttiva. Ragionamenti analoghi valgono presso i fornitori dell’indotto. A mescolare ancora di più le carte, i marchi stessi sono divenuti, col crescere dell’agglomerazione in grandi gruppi, moduli indipendenti tra i fattori che fanno un prodotto e diventano intercambiabili a seconda del mercato. La nuova Fiat 600 elettrica, ad esempio, utilizzerà una piattaforma Peugeot e verrà prodotta in Polonia.

Coerentemente con il desiderio di “italianità” – anche il nome di un ministero è stato modificato in questo senso – potremmo attenderci in un futuro prossimo che si richieda, analogamente a quanto avvenuto in America con il trattato USCMA (ex-NAFTA), l’introduzione di quote minime di contenuto nazionale per i veicoli malgrado la complessità della realizzazione e gestione di una misura in tal senso in un contesto europeo caratterizzato da un grande numero di paesi relativamente piccoli che hanno fra l’altro un potenziale ridotto di verticalizzazione produttiva.

Senza dimenticare che tali tentativi sarebbero in Europa assai problematici già solo in considerazione del principio di libera di circolazione di persone fisiche, merci, servizi e capitale che è sancito per legge comunitaria (art. 63, Trattato sul funzionamento UE), occorre considerare che condizionamenti nazionali, o meglio nazionalistici, andrebbero inevitabilmente a detrimento della logica industriale e quindi della redditività delle case automobilistiche europee complicando fortemente la loro situazione in un mercato mondiale dove la difficile conversione verso nuove tecnologie unitamente alla preannunciata entrata massiccia dei produttori cinesi metteranno in prospettiva a dura prova la loro resilienza. La globalizzazione nel mondo dell’automobile è destinata a restare e per ragioni di necessità economica non si farà senz’altro più debole.

Altrettanto difficile è il tema dell’assetto azionario del gruppo Stellantis, anch’esso preso di mira dai critici, ove non pochi si dicono pubblicamente favorevoli al perseguimento da parte dello stato italiano dell’obiettivo di esercitare un’influenza politica sulle sue decisioni strategico-operative. In tale ottica si prospetta con enfasi un’entrata dello stato italiano nell’azionariato di Stellantis a bilanciare quella dello stato francese detenuta attraverso Bpi – un investimento che, secondo alcune veloci stime, potrebbe costare al nostro erario più di sei miliardi di euro se le due partecipazioni statali dovessero essere paritarie. Per tale ipotesi si pronuncia un ampio coro di voci che va da rappresentanti di governo (Meloni: “Si prenda sul serio l’ipotesi di una partecipazione italiana a Stellantis che bilanci quella francese”; Urso: “Noi vogliamo difendere l’interesse nazionale, instaurare un rapporto equilibrato con Stellantis.”) e dell’opposizione (Schlein:  “Si studi concretamente la strada della partecipazione pubblica per incidere sulla strategia aziendale”) ad esponenti sindacali (Landini/CGIL: “Gli incentivi di per sé non risolvono e c’è bisogno di una logica di intervento più forte. In Francia è presente lo Stato. Torniamo a chiedere che anche lo Stato italiano entri. Lo chiediamo da tempo.” mentre altri sono invece restii come Bombardieri/UIL: “Come si fa a sostenere di vendere un pezzo di Poste e poi comprare un pezzo di Stellantis?”)

Apparentemente vi è difficoltà a riconoscere che Stellantis è una società quotata con un azionariato internazionale e che va attentamente vagliata la fattibilità dell’entrata nella proprietà di uno stato in una situazione non di crisi – come fu invece nel caso dello stato francese in PSA – e per di più con il fine scoperto di esercitare influenza a favore di soli “interessi nazionali”, per quanto con la motivazione che si spererebbe non di facciata a protezione dell’occupazione, con tutte le immaginabili complicazioni nei confronti di numerosi terzi, inclusi i governi di altri paesi europei che ospitano anch’essi unità operative del gruppo Stellantis e che potrebbero avere interessi antagonistici a quelli dello stato italiano. In tal senso una sua partecipazione nel capitale di Stellantis potrebbe avere ripercussioni negative per gli stessi intenti originari che derivano da un palese conflitto di interessi – già esistente con la partecipazione dello stato francese.

Ci si dovrebbe attendere invece che ci si occupi in cima a tutte le priorità del tema relativo all’attrattiva degli investimenti in Italia e, in questo caso particolare, nel settore dell’auto e si risponda al quesito chiave riguardo allo stato di salute di FCA e, in particolare, delle strutture produttive in Italia ex-Fiat al momento della fusione con PSA. Si comprenderebbe allora diversamente il senso delle parole della Presidente del Consiglio allorché denunciò il 24 gennaio “la pretesa fusione con il gruppo francese PSA che nascondeva in realtà l’acquisizione della parte francese del gruppo storico italiano.” – il che, fra l’altro, non sembra necessariamente vero sulla base dei rapporti di proprietà che vede la famiglia Agnelli attraverso la finanziaria Exor controllare come azionista di maggioranza relativa il 23,1% dei voti degli azionisti di Stellantis contro l’11,1% della famiglia Peugeot e il 9,6% dello stato francese. È inoltre problematico parlare di “gruppo italiano” a proposito di FCA allorché nel momento della fusione la componente operativa italiana non poteva essere detta preponderante nel gruppo.

Concentrando l’attenzione per amore della brevità sui siti produttivi italiani occorre innanzitutto riconoscere con atto di sincerità che la loro difficile situazione attuale non è che il risultato di un declino in atto da tempo. Questa vede oggi la componente “italiana” chiaramente in posizione fortemente più debole in termini di capacità operativa rispetto a quella “francese” che ha una chiara superiorità già solo nel campo della tecnologia e della capacità progettuale.

Quando Elkann si attivò per trovare un accordo con PSA dopo un primo tentativo fallito con Renault, il gruppo FCA con Fiat, penalizzato da tempo da un cash-flow troppo debole per permettere un flusso stabile e concorrenziale di nuovi prodotti, si trovava in piena ritirata che era cominciata in modo conclamato  con la decisione significativa alla fine degli anni novanta di concentrarsi sull’offerta di auto medio-piccole (2 piattaforme, quella A della Panda-Uno e quella B delle Stilo-Ritmo) riservando alla gamma media-superiore il compromesso di una piattaforma B allungata che significò il declino definitivo per marchi come Alfa e Lancia, costruttori acquistati a suo tempo da Fiat prevalentemente a protezione del proprio mercato domestico contro i concorrenti stranieri. I loro modelli furono costretti a condividere con effetto negativo non solo l’architettura ma anche l’impiego di componenti di qualità modesta con il resto della produzione del gruppo di gamma più bassa.

Mentre il mercato si muoveva in una logica di trading-up, come ad esempio i produttori tedeschi, il gruppo Fiat si ritrovò in un trading-down scegliendo per costrizioni economiche di ritirarsi sostanzialmente su un segmento del mercato caratterizzato da bassi margini di profitto e concorrenza crescente, in particolare da parte dei paesi asiatici che possono vantare velocità di progettazione e realizzazione di nuovi modelli superiori a quelle dei concorrenti europei. Il deperimento graduale del know-how, ove ancora negli anni ’90 vi erano validi capisaldi come il common-rail nel settore dei motori diesel, trovò infine l’epilogo in un matrimonio con PSA, che veniva da una rincorsa coronata da un discreto successo nei confronti dei concorrenti tedeschi e che otteneva nella fusione, come accennato sopra, la leadership in termini di strategia, obiettivi e tecnologia in virtù di un migliore posizionamento in termini di risorse e di prodotto. È importante tenere presente che, oltre a quote di mercato e la presenza negli Stati Uniti con Chrysler, tra gli asset della Fiat figuravano le unità produttive in Brasile, Polonia e Turchia – ma non quelle in Italia ove la ripresa produttiva dopo il 2015 fu dovuta principalmente all’introduzione di modelli Jeep e Chrysler, tra cui i SUV, che andarono a attivare, almeno parzialmente, la capacità produttiva non utilizzata. Per questo motivo l’intelligente mossa di Marchionne con il matrimonio con Chrysler del 2014 può essere vista essa stessa come un’altra manifestazione di debolezza avendo tra gli obiettivi l’innesto, senza il peso di costi di progettazione, di nuovi prodotti nel flusso anemico dei veicoli al di fuori della piccola e media cilindrata.

La situazione si è fatta rispetto ad allora ancora più problematica e foriera di nuovi rischi per tutti i produttori europei, inclusi quelli tedeschi – questo in particolare dal momento dell’avvento sul mercato dell’auto elettrica, incluso l’ibrido. Qui il gruppo Stellantis si trova in ritardo rispetto alla concorrenza mentre si teme un’invasione di prodotti cinesi a basso prezzo e prestazioni concorrenziali, soprattutto nell’elettrico. Le fabbriche italiane di Stellantis sono svantaggiate da bassa efficienza e fanno la figura dei vasi di coccio, in particolare Mirafiori, mostrando utilizzazioni della capacità produttiva al di sotto di altri siti di produzione del gruppo Stellantis. Non è un caso che nei programmi del gruppo per l’Italia concordati nel 2021 sia prevista la produzione di quattro modelli di gamma medio-superiore e di progettazione transalpina che grazie a un maggiore margine di contribuzione permettono di sostenere un’intensità di costi di produzione più elevata, almeno per un periodo transitorio.

Di fronte alla necessità di contribuire alla risoluzione di una situazione compromessa permettendo anche un mantenimento soddisfacente dell’occupazione lo stato italiano è chiamato a un impegno che favorisca, nell’ambito di una strategia di politica industriale oggi evanescente, il miglioramento delle condizioni di investimento e gestione imprenditoriale individuando insieme ai costruttori un ruolo delle loro attività nell’auto che permetta un futuro e non meri sussidi “a perdere” in aree in crisi. I campi di intervento possono spaziare dall’istruzione e dalla riqualifica professionale e ricollocamento a tutte le condizioni quadro come l’approvvigionamento di energia stabile e a prezzi concorrenziali, un’infrastruttura efficiente dei trasporti, adeguate norme ambientali e altri elementi portanti di un sistema produttivo senza dimenticare gli importanti aspetti relativi all’amministrazione, incluso un adeguato sistema fiscale e del diritto. L’intervento finanziario dovrebbe avere in tale prospettiva il fine principale di dare impulso e sostenere l’innovazione e l’investimento in campi tecnologicamente avanzati (come ad esempio nel settore delle batterie e dell’impiego dell’idrogeno) – non secondo modelli che ricordano la filosofia di almeno parte delle defunte partecipazioni statali italiane indirizzate al mantenimento di attività, come si diceva un tempo, “decotte” e caratterizzate dalla prospettiva di una probabile perdita sostanziale se non totale di valore. Tale è anche il senso delle raccomandazioni nei suoi libri della Mazzucato che alcuni interpretano invece come una dichiarazione a favore dell’intervento statale in veste di imprenditore che dovrebbe essere riservata a casi nell’ambito dei servizi pubblici o attività produttive di particolare criticità.

In tale ottica si inserisce la contrattazione, pure serrata, sul mantenimento di posti di lavoro, anche con un supporto da parte dello stato nelle situazioni in cui esso è essenziale e uno sviluppo economicamente positivo dell’intervento è da attendersi. Non consigliabili sono in tali contesti atteggiamenti apertamente antagonistici, come manifestato ripetutamente da alcuni nei giorni passati. Essi potrebbero compromettere l’attrazione del nostro paese come destinazione di investimenti rivelandosi controproducenti per l’occupazione che altrimenti si vuole giustamente preservare ed espandere.




Comunicato sulla Giornata della Memoria 2024

Il 27 gennaio, anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau da parte dell’esercito sovietico nel 1945, si celebra il Giorno della Memoria dell’Olocausto, ovvero dell’eccidio di circa sei milioni di ebrei da parte del regime nazista perpetrato come “soluzione finale”.  È bene ricordare per nostra memoria che tale disumano atto “finale” va inquadrato in una successione di persecuzioni intermittenti verso le comunità ebree in Europa, in un considerevole arco di tempo di oltre mille anni, cui la creazione dello stato di Israele avrebbe dovuto segnare la fine. La folle furia eugenetica e razzista, che non fu purtroppo solo diffusa tra le popolazioni di lingua tedesca, finì per coinvolgere e colpire anche altre comunità, quali Sinti e Roma, così come tutti coloro che venivano visti come un pericolo da eliminare fisicamente in difesa di una immaginaria purezza della razza, e quindi della società intera, in quanto diversi per il loro orientamento politico, sessuale, la loro identità di genere, il loro grado di abilismo fisico e mentale.   

“Mai più”: sono le parole che spesso si sentono in occasione di eventi legati al ricordo dell’Olocausto, in molteplici occasioni. “Mai più” la repressione, mirata, scientificamente messa a punto, organizzata come la gestione di un affare di stato, in cui gli individui o servono gli interessi nazionali acriticamente o vengono rimossi fisicamente, senza che venga loro riconosciuta una titolarità di diritti umani. “Mai più” un’ideologia afferrata ad un pregiudizio, carica d’odio e di senso d’insicurezza, di sconfitta, dovrebbe orientare le coscienze e il vivere civile degli uni con gli altri. “Mai più un olocausto” deve essere e dovrà sempre essere. 

L’Olocausto fu il culmine di un odio antico che si riversava nei confronti di parti della popolazione, ebree e non ebree, percepite come inferiori in un ordine gerarchico che negava l’autodeterminazione dell’individuo e spingeva al dominio. Il nazismo, difatti, fu sospinto da un’idea totalitaria nella costruzione della società e nei rapporti tra i popoli. Nel ricordare l’Olocausto e nella realizzazione dell’impegno affinché esso non si ripeta in futuro dobbiamo avere la coerenza di declinare gli insegnamenti storici in tutti i contesti del nostro vivere, costruendo, soprattutto in un periodo difficile per le democrazie come quello attuale, una cultura d’integrazione e di cooperazione, rifiutando le divisioni e i venditori di paura. C’è bisogno di visione per dare un indirizzo di giustizia allo sviluppo mondiale, ponendoci la sostenibilità come obiettivo trasversale.  

L’odierna Giornata della Memoria ci impone di riconoscere le discriminazioni e le persecuzioni laddove inizino ad essere organizzate, nonché tollerate, se non addirittura socialmente accettate come panacea per un malessere diffuso e mal compreso. I paralleli storici e il valore intrinseco della memoria sono uno strumento di guardia preziosissimo ed efficace, e infatti spesso osteggiato da chi sostiene un certo tipo di sviluppo, una certa civilizzazione in ottica di scontro perenne e imprescindibile con l’altro. 

Il nostro Partito Democratico, antifascista, custode dei valori della Resistenza deve tradurre l’impellenza di uno sviluppo sociale dello spazio che abitiamo e trasmettere alle nuove generazioni l’impegno per un ordine che ha garantito pace, democrazia, benessere e progresso sotto tutti gli aspetti. L’identità dell’Europa sta in quelle parole: “Mai più”, ed è un impegno vivo e costante. 




Incontro sul futuro dell’Europa

Incontro sull’evoluzione dell’Europa il 9 gennaio 2024 al bar Creme Caramel a Berlino. Grazie a chi anche in ibrido ha contributo ad alimentare le riflessioni su come contribuire ad una campagna elettorale che possa arginare le preoccupanti derive autoritarie. Inoltre, un grazie di cuore a Pierantonio Rumignani, il nostro iscritto che ha rilanciato la discussione. Di seguito una sintesi.




Il dilemma della spesa pubblica

Di Pierantonio Rumignanani, PD Berlino e Brandeburgo

Ogni stato si trova oggi di fronte a impegni finanziari fortemente crescenti. Alla necessità di dare impulso a processi radicali di digitalizzazione e di conversione ecologica ed energetica, cui l’iniziativa privata non può fare fronte da sola mancandole sufficienti risorse e incentivi economici, si accompagna anche l’urgenza di provvedere al rinvigorimento dei negletti servizi pubblici, dalla sanità all’istruzione e alle infrastrutture ivi inclusa, in particolare nel nostro paese, la stessa macchina dello stato. Si aggiungono ora anche accresciuti impegni militari dopo anni di quiete resa possibile da quello che è stato definito il “dividendo della pace”. Si tratta di una tempesta perfetta e preannunciata da tempo ove quasi ogni misura da prendere si presenta con urgenza, in cima a tutte l’impendente disastro ecologico come ci viene ricordato del monito continuo  di vicende ambientali.

Ora si vendica il rifiuto di affrontare per tempo e in modo organico il sistema fiscale e di spesa dello stato avendo optato per un ben più modesto perseguimento di politiche finanziarie mirate principalmente al rispetto di vincoli finanziari a dispetto di bisogni crescenti. A complicare le cose e a restringere la flessibilità dell’azione di governo sono intervenute, in particolare a partire dalla crisi finanziaria del 2008, una riduzione della crescita economica e della dinamica della produttività. Per l’Italia le cose si sono fatte particolarmente complicate a causa di specifici fattori penalizzanti quali i livelli elevati dell’indebitamento pubblico e della tassazione nel confronto con altri paesi.

Davanti alla prospettiva per lo stato di dovere fare fronte a un eccezionale aumento della spesa operando contemporaneamente un sensibile mutamento della sua composizione i partiti – così anche in Italia – hanno reagito spaziando fondamentalmente da una negazione più o meno conclamata della realtà a una sua accettazione reticente e selettiva di fronte agli elettori per tacito timore di conseguenze negative nei sondaggi, come se le elezioni fossero domani, e concentrandosi sul soddisfacimento degli interessi di chi è considerato parte dei propri sostenitori naturali.

La considerazione centrale va allo stato di crisi della visione conservatrice dell’economia che ha dominato negli ultimi decenni secondo la quale le soluzioni, qualunque esse siano, devono continuare a venire da meccanismi definiti “liberi” del mercato anche quando questo si dimostra in forte difficoltà a fornire rimedi se non sostenuti da una forte azione pubblica imposta da situazioni di eccezione. Abbiamo quindi il caso dei cristiano-democratici tedeschi, ad esempio, che in nome di un’ortodossia fatta sovente di mere parole d’ordine, predicano la finanziabilità delle politiche ecologiche ed energetiche così come la neutralità del sostegno pubblico nei confronti delle varie tecnologie in competizione tra loro ritrovandosi in piena contraddizione con l’esigenza di un intervento pubblico necessariamente selettivo a favore delle soluzioni più promettenti in presenza di risorse e tempo limitati. L’ambiguo criterio della finanziabilità (ma quale politico dirà mai che si debba raccomandare una politica non finanziabile?) mostra il proprio colore nel momento in cui si ubbidisce contemporaneamente, per coazione a ripetere dettata da interessi che si intende favorire, al mantra di una riduzione del livello impositivo o, nel modo assoluto di chi difende il Piave, il rifiuto di ogni possibile aumento della tassazione, anche parziale. Il risultato di tale impostazione non può che essere la limitazione della spesa pubblica secondo criteri che vedono investimenti e spesa sociale perdenti rendendo strutturalmente insufficiente l’intervento dello stato – a detrimento del sistema intero e della stessa economia privata. Questa posizione parzialmente “negazionista” trova espressione in frasi improbabili che si possono leggere nel sito della CDU in merito alla politica ambientale come: “Siamo pur sempre sulla buona strada” o “Non è che il mondo scomparirà domani” – parole di Friedrich Merz, segretario del partito.

L’attuale insuccesso di conservatori tradizionali presso gli elettori in tutta Europa, che li spinge fino a mettersi al traino della destra radicale come in Italia, spiega perché la versione non edulcorata del negazionismo in materia ambientale e sociale possa avere il vento in poppa. Il suo successo attuale, frutto della sfiducia nei confronti dei partiti tradizionali soprattutto da parte di chi teme di perdere l’acquisito e che vede un nemico nell’immigrato e nello “scansafatiche” aiutato dallo stato, non può essere apportatrice di soluzioni poiché si basa sul misconoscimento e travisamento della realtà. Tali partiti non possono che promettere polarizzazione e conflitto sociale. 

Il terzo fronte, quello dei “progressisti”, dovrebbe trovarsi in una situazione favorevole perché più aperto al cambiamento e più cosciente dei problemi relativi all’ambiente e alla società. Ma non riesce nella realtà quotidiana a trarne vantaggio. Molteplici sono le ragioni, tra cui si trova anche quella che vede più difficile il raggiungimento di un consenso su un programma politico comune tra convinzioni politiche diverse rispetto alla tipica operazione di ripartizione di potere tipica della destra conservatrice a protezione di interessi determinati. Ma la forte concorrenzialità tradizionale tra i partiti della sinistra e la spinta sempre presente verso posizioni di coerenza che limita la capacità di compromesso non sono che parte della spiegazione.

Evitando di entrare nei dettagli delle vicende storiche della sinistra nei vari paesi europei e trascurando l’aspetto importante della discriminante tra riformatori e radicali salta all’occhio la difficoltà della sinistra attuale ad affrontare la situazione di crisi incipiente della società occidentale con una risposta coerente che copra l’obiettiva complessità dei problemi dalle questioni sociali a quelle dell’ambiente e dell’economia collegandole in modo organico – in contrasto con l’ambizione che fu propria fra gli altri persino di un partico come il PCI. A fronte dell’accentuato scetticismo dell’elettore che in assenza di una visione globale si rivela restío a dare fiducia, in questo influenzato anche dall’onda della disinformazione e, presso molti, dalla tentazione di trovare soluzioni semplici e muscolari, la reazione di riflesso è spesso quella del rifugio in schemi rintracciabili nel passato per quanto, come in Italia, in una versione moderna di matrice “liberal” anglosassone. Questo è il quadro in cui si muove infatti l’attuale gestione del PD ove è palese il tentativo della riduzione delle tematiche a punti nodali (diritti, lavoro, ambiente) nell’attesa di trovare maggioranze, anche di coalizione di cui si aspira la leadership, in un modo puntuale su temi specifici. Se questo approccio sarà capace di ristabilire la maggiore fiducia da parte degli elettori di cui ha goduto il partito in anni ormai passati è un quesito che non trova ancora risposta. Considerevole è però qui il rischio di esaurirsi in un gioco di rivendicazioni per quanto singolarmente giustificate. La stessa scelta della segmentazione selettiva degli interventi può anche ingenerare l’impressione presso gli elettori di una “vendita ottimistica” e quindi poco credibile del tema ambientale come se esso potesse essere visto prevalentemente come occasione e non come un problema spinoso le cui soluzioni si pongono non di rado in contrasto con esigenze e aspirazioni sociali.

Che l’alternativa possa difficilmente essere rappresentata nel campo progressivo da riedizioni del blairismo all’interno della sinistra, inclusa quella italiana, sta il fatto che esso ha sostanzialmente rappresentato un adeguamento alla vittoria del neoliberismo di stampo thatcheriano e reaganiano degli anni ottanta con l’inserimento di paletti nel campo del sociale. Per le ragioni esposte sopra anche una riedizione del blairismo soffrirebbe forzatamente delle stesse criticità del neoliberismo. Dovesse il leader laburista Keith Starmer, vincere come si prevede al momento le prossime elezioni nel Regno Unito, si troverà di fronte a questa complicazione.

È opinione dello scrivente che i democratici americani mostrino in linea di principio quale sia la direzione da seguire sebbene abbiano finora solo potuto attaccare, per motivi di aritmetica parlamentare, il tema delle uscite dello stato e non quello delle entrate. Il tema fiscale è un capitolo al momento incompiuto – ma rimane passaggio obbligato così come lo è per tutti i paesi avanzati dell’occidente rivedendo le politiche di alleggerimento delle imposte perseguite nel passato a particolare vantaggio dei ceti ricchi.  

PAR – 23.07.2023




Può essere il 70%+ dei francesi in errore? “Ni”, ma non “no”, anche considerando l’interesse dei ceti meno abbienti

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Sul piano dei principi democratici la risposta è delle più semplici: è temerario e ingiustificabile che un Presidente della Repubblica nel suo ruolo “esecutivo” si sovrapponga alla volontà della maggioranza della propria popolazione, mettendo nell’angolo il potere legislativo attraverso l’uso formalistico della sfiducia in Parlamento per evitare il voto (ma non suona noto a noi italiani?). Ancora una volta, fra l’altro, tocchiamo con mano i problemi insiti in ogni sistema presidenziale, sempre preso dalla necessità di trovare un equilibrio tra i vari poteri dello Stato – negli USA come in Francia. Se poi il Presidente ha allures regali e sembra trovare gusto nell’affermazione di sé e del proprio ruolo nel paese dei sollevamenti popolari, tra jacqueries oscurantiste e giacobinismo sanculotto, le proteste anche violente non si fanno attendere.

Ma c’è una seconda ragione che parla a favore di una risposta positiva al quesito: ogni paese è libero di scegliere il proprio tenore di vita distribuendo le risorse tra presente e futuro, decidendo tra l’altro del livello delle proprie pensioni. Se è vero che la Francia presenta dati statistici particolari è pure vero che ciò riflette preferenze che non possono essere messe in discussione – ma attenzione: a meno di contraddizioni che rimangono sovente sconosciute al normale cittadino perché nascoste tra le pieghe delle statistiche o anche perché più o meno incoscientemente rimosse per la loro scomodità. In tale caso una discussione si impone, soprattutto se a lungo termine i possibili perdenti sono i ceti meno abbienti.

È da considerare inoltre che le preferenze dei cittadini francesi si sono profondamente modificate negli ultimi decenni. Un’indagine condotta per la Fondation Jean Jaurès mostra come l’attività lavorativa sia scesa drammaticamente in termini di priorità di vita: dal 60% nel 1990 al 24% trenta anni dopo mentre il valore del tempo libero è salito di dieci punti percentuali dal 31% al 41%. Ciò non deve sorprendere considerando che lo stress sul lavoro è costantemente aumentato nel tempo accompagnandosi a una stagnazione dei redditi nei quartili più bassi portando a numerose manifestazioni collegate alla “great resignation”, ovvero al fenomeno dell’abbandono del posto di lavoro da parte dei lavoratori subordinati per scelta di vita.  

Che i tempi siano cambiati dimostra anche un paragone con quanto avvenuto al tempo della riforma Balladur, ministro del governo Mitterand, che portò nel 1993 il numero minimo degli anni contributivi da 37,5 a 40 senza incontrare praticamente opposizione. Ancor meno difficile fu il caso della precedente legge Boulin sotto Pompidou nel 1971 che portò gli anni contributivi in modo drastico da 30 a 37,5. In realtà, come più volte ricordato dai giornali nei giorni scorsi, il cuore francese batte per la legge Auroux, ministro del governo Mitterand, che nel 1983 ridusse l’età pensionistica da 65 a 60 anni con 37,5 anni contributivi. Occorre tuttavia ricordare qui un dettaglio importante che gioca ancora oggi un ruolo importante nella critica alla riforma Macron di questi giorni: fine centrale delle misure di Auroux era la riduzione della disoccupazione, in particolare di quella giovanile, che si era acuita fortemente negli anni settanta, attraverso un pensionamento più rapido, misura dal successo assai contestato sulla base dei rilievi statistici generalmente deludenti successivi all’introduzione di tali norme. Oggi il tema del prepensionamento non sembra avere più l’importanza di allora, allorché, sempre in Francia, esso rappresentava fino a un quarto dei nuovi pensionamenti. Il prepensionamento porta alla rinuncia di know-how importante nelle aziende – oggi un grave problema.

La Francia è un paese in cui la decisione consolidata negli anni è chiaramente quella di un sistema sociale generoso e ad alto costo che include un’età particolarmente bassa di pensionamento come il grafico seguente mostra (la statistica dell’OECD distingue purtroppo tra uomini e donne senza la stima di una media – l’andamento del grafico relativo alle donne non è dissimile).

Non solo l’età di pensionamento è particolarmente bassa rispetto ad altri paesi, ma il tasso di sostituzione (la percentuale della pensione sull’ultimo stipendio percepito) è tra i più elevati così come la spesa pensionistica in rapporto al PIL è inferiore solo a Grecia e Italia inquadrandosi in uno schema di alta spesa sociale, la più elevata dei paesi coperti dalle statistiche dell’OECD.

Il problema – non solo riguardo alla Francia – si riduce in sostanza, per quanto detto sopra, al quesito sulla sostenibilità nel tempo del sistema a ripartizione che è basato in Francia, come da tempo anche in Italia, sui contributi prestati e non sul reddito percepito. Qui le opinioni divergono nel paese transalpino anche se si fa universalmente riferimento alle previsioni prodotte annualmente dall’organismo indipendente di saggi COR – Conseil d’Orientation des Retraites, in un lungo rapporto di circa 350 pagine che esamina in modo particolarmente dettagliato i parametri che determinano la spesa pensionistica sulla base di molteplici fattori che vanno da quelli relativi al contesto demografico e all’andamento della popolazione attiva fino all’evoluzione della produttività del lavoro per la quale vengono sviluppate quattro ipotesi, in un ventaglio che va da un aumento medio dello 0,7% all’1,6% annuo in un orizzonte temporale fino al 2070 sull’ipotesi di un tasso medio della disoccupazione del 7%.

Il seguente grafico del Rapporto 2022 del COR – in cui l’andamento della spesa pensionistica in relazione al PIL si stabilizza dopo il 2035 senza che tale rapporto superi il picco avuto nel 2021 a causa del Covid – mostrerebbe che l’allarmismo da parte del governo sia fondamentalmente ingiustificato.

Grafico 1 – Spesa pensionistica come percentuale sul PIL – 2000-2070

Tuttavia, analizzando le ipotesi alla base delle proiezioni, le cose si fanno più complicate – e non solo perché l’espansione prevista del monte pensioni dell’1,8% annuo è ben più veloce dell’aumento della spesa pubblica totale dello 0,6% sulla base del Programma di stabilità del governo (PSTAB) 2022-2027 ove la spesa per le pensioni rappresenta attualmente circa un quarto degli impegni dello stato francese. Di fatto si prevede da qui al 2032, sulla base del regime attuale contributivo, un aumento dell’incidenza della spesa sul PIL dal 13,8% al 14,7%, pari al picco del 2021, nel 2035 secondo l’ipotesi più pessimista dell’andamento della produttività (0,7% all’anno) per poi restare sostanzialmente costante, sempre in tale ipotesi, o addirittura in riduzione nelle altre. Il governo prevede che il saldo del bilancio pensionistico, ancora positivo nel 2021 per circa € 900 milioni (entrate: € 346 mrd; uscite: € 345 mrd) diventi negativo fino a raggiungere € 21,2 mrd nel 2035.

Per quanto riguarda il grafico della spesa pensionistica occorre osservare quanto segue – ove l’ultimo punto appare di particolare importanza:

  1. L’andamento orizzontale della curva pensionistica nel periodo 2022-27 è fortemente influenzata dall’ipotesi di una riduzione al 5% del tasso di disoccupazione prevista dal Programma di stabilità – previsione che può apparire ottimista se confrontata con il livello storico della disoccupazione in Francia, per lo più al di sopra dell’8% a partire dall’anno 2000. In modo più prudente il COR prevede per il periodo successivo un riassestamento della disoccupazione al 7%. In ragione di una eventuale mancata riduzione della disoccupazione la curva della spesa pensionistica riprenderà l’andamento verso l’alto prima del 2027 producendo deficit sostanzialmente maggiori di quelli programmati.

Grafico 2 – Tasso annuo medio di disoccupazione 2000-2021 (fonte: OECD)

  • I dati statistici di questo secolo indicano per la Francia un aumento medio della produttività del lavoro al di sotto dello 0,7% (0,43% nel periodo 2010-2021 e 0,57% nel periodo 2000-2021; fonte: OECD). Il ventaglio delle ipotesi del Rapporto COR appare quindi tendenzialmente ottimistico e la curva futura della percentuale della spesa pensionistica sul PIL potrebbe ritrovarsi comodamente sopra quelle mostrate nel grafico.
  • In conseguenza del progressivo aumento del minimo degli anni di contribuzione a 43 (riforma Touraine del 2014, governo Hollande) è in atto un ulteriore aumento previsto dell’età effettiva media di pensionamento (media generale – base diversa rispetto a quella del grafico precedente) da 62,4 anni nel 2022 a 63,7 anni verso la metà del prossimo decennio. Senza tale movimento la curva del grafico 1, già più bassa per un aumento indipendente della popolazione attiva francese (OECD: 80,8% sulla popolazione in età da lavoro nel 2022; + 3,5% circa rispetto all’anno 2000), sarebbe maggiormente inclinata verso l’alto contribuendo a un maggiore carico della spesa pensionistica sul PIL.

Grafico 3 – Età media di pensionamento

  • Con la legge Balladur del 1993 il sistema pensionistico pubblico francese, a differenza ad esempio di quelli vigenti in Germania e Italia, passò da una rivalutazione delle pensioni correnti sulla base dell’andamento dei salari a quello sulla base dell’inflazione. Ciò ha significato la continuazione della difesa delle pensioni in termini reali ma privandole della partecipazione all’aumento della produttività del lavoro. Ciò avrà una forte incidenza in futuro in un confronto con il livello di reddito lordo delle persone attive. Nel periodo considerato dalla proiezione del COR ciò significherà, sulla base della presente legislazione, una consistente riduzione relativa delle pensioni ben di più di un quinto rispetto ai salariati al termine del periodo di previsione nell’ipotesi meno positiva dell’evoluzione della produttività (+0,7%).

Grafico 4 – Pensione media in rapporto al reddito medio della popolazione attiva

Ciò significa, come mostrato dal successivo grafico 5, che il tenore di vita dei pensionati, che aveva raggiunto quello del resto della popolazione all’inizio del secolo per poi mantenere il livello raggiunto, si ridurrebbe sensibilmente in futuro nel confronto relativo.

Garfico 5 – Tenore medio di vita dei pensionati come percentuale di quello medio della popolazione

Sulla base del veloce esame dei dati statistici possiamo quindi dire in conclusione:

  1. Le proiezioni del COR mostrano la possibilità di un sostanziale contenimento del carico della spesa pensionistica a lungo termine anche senza l’introduzione di ulteriore legislazione, per quanto a un livello elevato sul PIL. Un incremento apprezzabile nel prossimo decennio è comunque da attendersi. È bene ricordare che in assenza dei numerosi interventi regolatori del passato l’incidenza della spesa pensionistica sul PIL sarebbe oggi superiore di ben circa il 4% (corrispondendo a un aumento di circa un terzo del deficit) rispetto al livello attuale secondo i calcoli del COR.
  2. Il COR attira l’attenzione sul fatto che le variabili in questione così come i parametri di intervento sono molteplici e non facili da predire rendendo più che possibili scostamenti del deficit pensionistico, anche sostanziali rispetto alle proiezioni elaborate. Queste possono inoltre apparire ottimistiche in alcune aree sulla base delle serie storiche come osservato sopra contribuendo ulteriormente all’incertezza.
  3. Il precario equilibrio della spesa pensionistica è stato “comprato” sostanzialmente con l’aggancio delle pensioni alla sola inflazione senza partecipazione, neanche parziale, all’aumento dei salari (come in Germania e Italia) comportando in prospettiva un impoverimento degli anziani rispetto al resto della popolazione. In ogni caso, la forte pressione che nasce dalla inesorabile riduzione verso la parità numerica dei contributori rispetto ai percettori di pensione rimane una fonte imprevedibile di incertezza.

Di fronte a questo scenario Macron decise verso la fine dell’anno scorso di spingere per una (da lui considerata) urgente riforma del sistema pensionistico elevando, in particolare, l’età minima per la pensione da 62 a 64 anni, anticipando l’aumento del periodo minimo contributivo da 42 a 43 anni (già previsto dalla legge Touraine) e aumentando la pensione minima all’85% dello SMIC (salario minimo) nonché prospettando una semplificazione dei numerosi regimi pensionistici esistenti (se ne contano ben 42 più una varietà di regimi complementari e supplementari). Le conclusioni esposte sopra, oltre la ben conosciuta e crescente avversione dei cittadini francesi verso ulteriori riforme pensionistiche, rendono difficile da comprendere l’urgenza della scommessa di Macron che ha fatto della riforma delle pensioni il punto focale della sua battaglia politica contro la Nupes di Mélenchon e il Rassemblement National di Marine Le Pen senza avere cercato e trovato un appoggio presso i sindacati, in particolare della CFDT, la maggiore organizzazione francese per numeri di iscritti. Tale sindacato è stato più che sovente in passato la sponda per i governi nei numerosi processi di modifica del sistema pensionistico.

L’interpretazione più ovvia della scelta di Macron, che non era riuscito in un primo tentativo quattro anni fa, complice il Covid, è quella di spiegare la mossa con il calcolo di formare direttamente una maggioranza in parlamento assieme ai conservatori moderati e in particolare ai repubblicani provocando una sconfitta clamorosa delle opposizioni. Altre interpretazioni attirano inoltre l’attenzione sul fatto che questo è l’ultimo mandato per Macron come Presidente della Repubblica e che questo lo abbia potuto indurre a osare di più.

La pessima comunicazione e la mancanza di dialogo, caratteristiche della persona Macron, hanno tuttavia fatto passare in secondo piano ogni obiettivo merito delle misure proposte. Il risultato è stato il compattamento dell’opposizione e dei sindacati spostando l’accesa discussione sulla persona di Macron e sullo stesso sistema presidenziale francese dato che il provvedimento è stato fatto passare in modo provocatorio ponendo la fiducia secondo l’art. 49.3 della Costituzione e senza sottoporlo quindi al voto dei deputati. Si è trattato di una fuga in avanti viste le difficoltà di trovare il consenso sperato dei partiti conservatori per raggiungere una maggioranza alla Camera dei deputati.

Le critiche rivolte al piano di riforma di Macron dalla sinistra vertono principalmente sull’aumento degli squilibri già esistenti. Prendendo l’economista Piketty1 come portavoce autorevole di tali critiche e senza dimenticare che il motore principale della “piazza” appare rappresentato dal semplice rifiuto di un allungamento della vita lavorativa, queste si concentrano sull’aumento delle diseguaglianze causato dalla nuova legge a vantaggio di chi ha più ricchezza. I divari dei tassi di contribuzione aumentano conseguentemente all’incremento del periodo contributivo poiché ciò va maggiormente a carico di coloro che entrano più presto nel mercato del lavoro e quindi di chi ha meno. La maggiore età legale di pensionamento significa inoltre che il rischio di povertà aumenti per chi è esposto maggiormente all’eventualità di licenziamento in età matura ma ancora relativamente lontana dal pensionamento. A correzione del sistema attuale Piketty suggerisce l’introduzione di un sistema universale in sostituzione dei numerosi regimi attuali sulla base della concessione della pensione piena in dipendenza solamente del numero degli anni di versamento, di una maggiore progressività operando su una differenziazione del tasso di sostituzione e di una maggiore giustizia incrementando la progressività dei contributi.

Nel riportare sull’opposizione generalizzata alla riforma di Macron molti commentatori fanno riferimento al fronte comune mostrato in questo frangente dai sindacati francesi2. In realtà la loro posizione originaria non è la medesima sulle pensioni, anche se l’intersindacale (organo informale comune dei sindacati) ha recentemente serrato i ranghi in seguito ai crescenti contrasti con l’amministrazione. La CFDT ad esempio, il maggiore sindacato francese per numeri di iscritti, aveva fatto intendere più volte in passato di essere disponibile a discutere una soluzione pensionistica universale con un sistema a punti e un possibile aumento della vita lavorativa in considerazione dell’allungamento della speranza di vita (così il segretario, Laurent Berger, nel suo discorso all’apertura del congresso di metà dell’anno scorso – posizione poi corretta in fase di discussione). Su questo approccio Macron aveva segnalato interesse, così come era avvenuto quattro anni fa al primo tentativo di riforma del suo governo, e molti avevano atteso in questa tornata una sua intesa di massima con la CFDT – cosa che non si è poi realizzata.

È utile a questo punto confrontare le posizioni ufficiali dei due sindacati maggiori, CFDT e CGT in merito a una riforma del sistema pensionistico.

La proposta avanzata questo mese dalla CGT3 può essere riassunta semplicemente come una serie di misure mirate ad allargare la base di contribuzione, in gran parte “a spese del capitale”:

  1. Aumento generalizzato dei salari, tra cui incremento del salario minimo a € 2.000 (oggi: € 1.709,28)
  2. Assunzione di 200.000 nuovi dipendenti da parte dello stato, di cui la metà nella sanità
  3. Assunzione di 100.000 persone nell’economia privata conseguente alla riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore
  4. Abolizione delle esenzioni esistenti al pagamento di contributi sociali
  5. Assoggettamento dei redditi da capitale, in particolare dei dividendi4, al pagamento di contributi sociali
  6. Assoggettamento alla contribuzione, sia per i salariati che per gli imprenditori, dei redditi da lavoro attualmente esenti (in generale: tutte le forme di interessamento all’impresa dei dipendenti)
  7. Aumento delle quote contributive

Si tratta di un programma radicale pensato principalmente in chiave di antagonismo tra reddito da lavoro e reddito da capitale che si ripartiscono un valore aggiunto fondamentalmente dato e dove la quota destinata ai lavoratori può essere aumentata a spese dall’altra senza conseguenze apparenti per la produzione di ricchezza. Tale approccio che propone misure a forti dosi sembra fare a meno di considerazioni sugli effetti macroeconomici. Questi porterebbero senza dubbio, fra altre conseguenze relative al PIL, a minori investimenti, contrariamente a quanto sostenuto in un brevissimo passaggio del documento. Interventi perequativi del reddito sarebbero in realtà molto più indicati nel contesto dell’imposizione diretta poiché essi avverrebbero in un ambito più generale e organico.  

Di tutto altro tono è la proposta della CFDT4, concentrata su una profonda ristrutturazione del sistema che preveda l’introduzione di un conteggio a punti5 mantenendo peraltro i diritti acquisiti fino all’introduzione della riforma, un’opportuna calibrazione dei parametri a favore dei redditi più bassi e dei curricoli dominati da lavori pesanti (ovvero della cosiddetta “pénibilité”) così come la possibilità di un passaggio graduale alla pensione implicando anche, con una cessazione progressiva dell’attività, la possibilità di un cumulo di reddito da lavoro e pensione. Punti importanti sono inoltre l’universalità del sistema, implicando anche una soluzione all’annoso problema dei regimi speciali (ad esempio a favore dei ferrovieri), e la dinamizzazione del valore dei punti sull’andamento dei salari e non più dell’inflazione.

Malgrado i contrasti sanguigni nella popolazione e la complessità del tema alcuni punti possono essere avanzati senza particolare timore di ritrovarsi in errore:

  • La bassa età di pensionamento in Francia è l’espressione di una preferenza della popolazione, almeno al momento attuale. Un’età superiore di pensionamento non è tuttavia necessariamente associata a lesioni di diritti acquisiti, a meno di voler santificare la ormai lontana legge Auroux (1982, governo Mitterand) come molti fanno. In un paese socialmente avanzato come la Svezia, tra gli esempi dei paesi nordici, l’età media effettiva di pensionamento è di 66 anni circa – per non scomodare gli stakanovisti giapponesi che sono a 68 anni. È inoltre previsto in Svezia un adeguamento automatico dell’età pensionabile6 sulla base dell’andamento della speranza di vita, apparentemente un anatema per moltissimi francesi.
  • Le variabili di regolazione delle pensioni sono assai numerose e l’età di pensionamento è solo una di queste, anche se una delle più potenti. Rinunciando al suo utilizzo per riequilibrare il bilancio delle pensioni, come la Francia intende fare, significa sostituire il suo effetto con quello di altre meno efficaci – questo in una situazione ove uno dei problemi maggiori in prospettiva è quello del forte impoverimento dei pensionati relativamente al resto della popolazione sulla base delle disposizioni attuali. Questo tema è ben presente a sindacati quale la CFDT come mostrano le sue proposte.
  • Un ripensamento del sistema pensionistico francese al pari di altri paesi appare opportuno – in particolare nel caso si intenda eliminare alla radice il problema dell’età pensionabile flessibilizzando l’uscita dal mondo del lavoro e inserendo fasi intermedie tra lavoro a tempo pieno e pensione.
    La complessità e la forte incertezza delle proiezioni consigliano infine una profonda riforma in modo da rendere il sistema pensionistico più robusto contro andamenti negativi dell’economia, soprattutto se non previsti.
    L’introduzione inoltre di un sistema universale faciliterebbe grandemente una ricalibrazione più equa delle pensioni ove il sistema pensionistico deve essere visto in rapporto a tutte le altri leggi relative alla protezione sociale, in particolare con riferimento alla disoccupazione e al livello di reddito minimo.

Un’ultima osservazione sia concessa, malgrado, come detto sopra, le decisioni siano da prendere democraticamente a buona maggioranza: alcuni – tra cui il sottoscritto – ritengono che l’esercizio di un’attività produttiva per la società cui si appartiene faccia parte del contratto sociale che la governa. A costoro sembra logico e naturale che ad un aumento della vitalità delle persone in corrispondenza dell’allungamento della vita attesa debba fare seguito anche uno spostamento in là nel tempo della fine dell’età lavorativa.

PAR 31.03.2023

1 https://www.lemonde.fr/blog/piketty/2023/02/14/sortir-de-la-crise-des-retraites/

2 È significativo ricordare che i sindacati francesi derivano la forza della loro posizione contrattuale più dalla applicazione molto elevata dei contratti collettivi (copertura: 98% dei salariati – banca dati ILO; Italia: 99,0%) piuttosto che dal tasso di sindacalizzazione che è particolarmente basso (9% – banca dati ILO; Italia: 32,5%). I sindacati nazionali sono otto in Francia.

3  https://www.cgt.fr/actualites/france/retraite/mobilisation/la-cgt-propose-une-autre-reforme-du-systeme-des-retraites

4 Il taglio dell’approccio della CGT su questo punto è reso in modo plastico dalla frase seguente: “In modo più generale noi auspichiamo l’azzeramento dei dividendi o che essi almeno vengano ridotti a qualcosa di trascurabile” (De manière plus générale, nous souhaitons que les dividendes disparaissent ou au moins soient réduits à peau de chagrin). 

4 https://www.cfdt.fr/upload/docs/application/pdf/2023-02/tract_retraites_revendications _et_obtentions_ de_la_cfdt_-_pdf_avec_traits_de_coupe.pdf

5 Da accumulare nel periodo contributivo e da convertire in un livello pensionistico al momento del pensionamento – Piketty è favorevole invece a una soluzione non troppo dissimile con l’utilizzo di conti nozionali. Uno dei vantaggi di tali sistemi è che essi possono fare a meno dell’età pensionabile grazie alla propria flessibilità Un sistema a punti è già applicato alle pensioni supplementari (AGIRC – ARRCO).

6 In Svezia esiste fondamentalmente una forchetta d’età per il pensionamento tra un minimo di 62 anni e un massimo di 68 anni. L’importo della pensione viene cumulato nel tempo fino a un massimo di 8,07 volte il reddito base, nel 2022 pari a SEK 71.000 (SEK 1 = 0,089 €). È interessante notare che coloro che hanno redditi annui superiori a SEK 672.600 non hanno diritto alla pensione statale.




Soluzione spagnola per i contratti di lavoro italiani? Così pensa Schlein

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Didascalia: Le parti sociali il giorno della firma dell’accordo sulla “reforma laboral” del 2021. In primo piano il presidente del governo, Pedro Sanchez, a destra la ministra del lavoro, Yolanda Díaz

Uno dei temi toccati sovente da Schlein durante la campagna elettorale è stato quello dell’introduzione anche in Italia di regole che riducano la possibilità dell’uso dei contratti a tempo determinato rendendo di default quelli a tempo indeterminato così come è avvenuto in Spagna con l’approvazione della “Reforma laboral” (l’ennesima: circa una trentina di provvedimenti legislativi si sono succeduti dalla fine degli anni settanta) a ridosso del Capodanno con il Real Decreto-ley 32/2021 del 28.12.2021. Ragione della fretta era quella di arrivare in tempo per assicurarsi l’utilizzo di 10 dei 140 mrd di euro del fondo NextGenerationEU destinati al paese iberico.

L’accordo tripartito tra le parti sociali, caso raro nel passato (l’ultima volta fu nel 2006 in un’occasione significativamente meno importante), fu siglato dopo lunghe ed estenuanti trattative e coronato dall’assenso finale delle varie organizzazioni sul filo di lana dopo l’astensione di una parte di quelle padronali mentre gli organi deliberanti delle parti sindacali principali (CCOO e UGT) si espressero all’unanimità. L’approvazione della legge a pochi giorni di distanza in Parlamento avvenne con lo scarto di un solo voto (175 contro 174) al termine di furiose contestazioni a causa di errori tecnici avvenuti in fase di votazione.

Data l’importanza della legge al fine di dare una struttura più stabile ai rapporti di lavoro riducendo il fenomeno del precariato è interessante esaminare gli aspetti salienti della riforma spagnola e i risultati acquisiti finora in modo da avere un’indicazione sull’opportunità di un’applicazione anche nel nostro paese. A questo proposito è bene ricordare che la Spagna si contraddistingue storicamente per un alto tasso di disoccupazione (attualmente a circa il 13%) e una bassa frequenza dei contratti a tempo indeterminato (vedi grafici), ancor più dell’Italia – ragione in più per prestare attenzione ai dettagli delle misure in materia di lavoro introdotte in tale paese.

A parte altri aspetti, anch’essi importanti, relativi fra l’altro a una revisione dei contratti formativi, alle frodi in materia di lavoro (tra cui: false dichiarazioni di lavoro autonomo), all’aumento del salario generale minimo al 60% di quello medio spagnolo (SMI – “salario minimo interprofesional” ora fissato per il 2023 a € 1.080/mese) nonché alla cancellazione di misure introdotte dal governo Rajoy nel 2012 quali la subordinazione dei contratti nazionali a quelli aziendali, la limitazione a un anno della loro efficacia temporale oltre la scadenza in mancanza di nuovo accordo (la cosiddetta “ultraactividad”, ora nuovamente illimitata) e l’assoggettamento dei subcontratti al contratto nazionale del subcontrattante, la parte centrale della legge delega è dedicata a un riordino della contrattualistica del lavoro.

Con la nuova legge è stato introdotto il principio secondo il quale il contratto di lavoro sia per definizione a tempo indeterminato a meno di situazioni definite che permettono l’utilizzo di accordi a termine ora ristretti a due soli tipi avendo abolito il contratto d’opera (“por obra y servicio”): a- per motivi di sostituzione di altri lavoratori su base temporanea e b- per motivi strutturali con due varianti, ovvero per temporaneo fabbisogno “prevedibile” di breve durata o “imprevedibile” per improvvise necessità dell’impresa come picchi della produzione. È qui da notare l’esplicita intenzione del legislatore di contenere la tipologia contrattuale.

La durata dei contratti a termine è stata significativamente ridotta così come il numero dei loro possibili rinnovi: il primo tipo di cui sopra a una durata complessiva di 90 giorni in un anno, anche non consecutivi, e il secondo a una durata massima di 90 giorni rinnovabile più volte fino al massimo totale di un anno. È interessante ricordare che il precedente contratto d’opera poteva essere rinnovato fino a una durata totale di ben tre anni, quattro in determinate circostanze.

Come chiave di volta di tutta l’architettura si considera dipendente fisso il lavoratore che negli ultimi 24 mesi è stato impiegato per almeno 18 mesi (precedentemente: 30 e 24 mesi rispettivamente).  

Per quanto riguarda la formazione si prevedono solo due tipi contrattuali. Il primo di carattere duale (“formativo en alternancia” di lavoro e istruzione) e di durata da tre mesi a due anni con limite di età per il percettore a 30 anni (precedentemente: 25) e il secondo “per l’ottenimento di pratica professionale” con una durata massima di un anno (precedentemente: 2).  

I dati relativi alla disoccupazione, in leggera riduzione dal 13,3% nel dicembre 2021, all’epoca dell’approvazione della legge, al 13% lo scorso gennaio, e quindi senza i pesanti aumenti paventati dall’opposizione sembrano dare ragione al governo spagnolo dopo che il rapporto tra nuovi contratti a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato ha subito una radicale riduzione dal 90% circa al 50 – 60% in seguito all’introduzione della nuova legge di riforma. La percentuale dei contratti a tempo indeterminato in essere sul totale dei contratti ha raggiunto ultimamente quasi l’80% con un aumento di circa quattro punti percentuali in un solo anno.

È da segnalare che la spinta del mercato del lavoro verso la conclusione di contratti a tempo indeterminato è facilitato dalla legittimità in Spagna del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (“despido objetivo”) dovuto a cause “economiche, tecniche, organizzative o della produzione” (art. 52, Estatuto de los Trabajadores) ove esse, tranne la prima, non sono collegate di necessità a una situazione di crisi del datore di lavoro e sono sufficienti a giustificare il licenziamento che quindi non risulta “abusivo” se determinate forme e condizioni sono rispettate. In tale caso il licenziamento è legittimo (“procedente”) e il lavoratore ha diritto a un risarcimento che dipende dalla sua anzianità di impiego secondo uno schema a tutele crescenti. Ma anche quando le condizioni non sono rispettate e il licenziamento è pertanto giudicato illegittimo (“improcedente”), il datore di lavoro ha la scelta tra la reintegra e il pagamento di un indennizzo salariale ulteriore da corrispondere al lavoratore per il periodo della sua disoccupazione fino alla sentenza del tribunale o, se precedente, a una nuova occupazione (cosiddetto “salario de tramitación”).

Non vi sono attualmente discussioni in Spagna su un ampliamento dell’applicazione della reintegra che è obbligatoria solo nel caso di dichiarazione di nullità del licenziamento per atto discriminatorio o attentato contro diritti e libertà fondamentali della persona. Le richieste sindacali (un ricorso del sindacato UGT è al momento pendente presso il Comitato europeo dei diritti sociali riguardo al licenziamento improcedente) riguardano in prevalenza l’ottenimento di più alti indennizzi per il lavoratore, che il governo Rajoy portò nel 2012 a 20 giorni di salario (33 nel caso improcedente) per ogni anno di anzianità con un massimo di 12 anni. Si tratta effettivamente di valori decisamente inferiori a quelli applicati in genere in Italia (un salario mensile per anno di anzianità aziendale con un massimo di 36 anni e un minimo di 6).

Pur essendo ancora presto per un giudizio compiuto sui benefici dall’introduzione in Spagna dell’obbligatorietà del contratto a tempo indeterminato, salve situazioni ben definite e relativamente ristrette, si può concludere sulla base dei dati finora disponibili (per quanto in mancanza di informazioni sull’andamento dei litigi) che un miglioramento apprezzabile della protezione del lavoratore dipendente possa essere atteso e che sia più che opportuna una riflessione in merito anche nel nostro paese. Da considerare pure è la semplificazione della tipologia dei contratti come perseguito in Spagna con beneficio anche per le funzioni di controllo del mercato.




Abolizione del Jobs Act? Che fare con l’art.18?

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Da molte parti si richiede l’abolizione del Jobs Act e il più delle volte senza altra specificazione dimenticando che esso è costituito da ben otto decreti emessi nel 2015 a copertura di una vastissima area del diritto del lavoro. Gli strali riguardano sovente anche il principio stesso della “flexicurity” vista in modo erroneo come espressione del pensiero neoliberale mentre essa è nata già alla fine degli anni ottanta nei paesi scandinavi, in particolare in Danimarca, e nei Paesi Bassi (invito a leggere il rapporto della insospettabile Friedrich Ebert Stiftung: “Flexicurity: Ein europäisches Konzept und seine nationale Umsetzung”, aprile 2008). La flexicurity sta in realtà per una politica alla ricerca di un equilibrio tra protezione del lavoratore e flessibilità operativa delle aziende e, in tale contesto, di una divisione equilibrata dei costi sociali dell’occupazione tra impresa e mano pubblica. Il pensiero corre quindi subito al tema del sostegno alla disoccupazione, in particolare riguardo al caso di licenziamenti per motivi economici che è il vero pallino della discordia legato all’accantonamento (non abbiamo qui giuridicamente un’abrogazione – vedi oltre) dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori: in primo luogo in termini preventivi impedendo il licenziamento facile da parte delle aziende – fra l’altro, mediante l’imposizione ad esse di un costo associato sufficientemente elevato – e, in secondo luogo, attraverso un adeguato intervento dello Stato oltre a quello imposto alle imprese.

Che nel nostro paese si sia cercata la via della dissuasione forte nei confronti dell’economia in fatto di licenziamenti è un dato che è stato ammesso in passato anche dal sindacato. Non solo nel 2003 la stessa CGIL fece una proposta che prevedeva in determinate condizioni l’indennizzo del lavoratore, ma i suoi stessi segretari generali ebbero a dire come l’autorevole Lucio Lama in una famosa intervista condotta da Eugenio Scalfari nel lontano 1978: “C’è un certo numero di aziende che ha un carico di dipendenti eccessivo… Noi siamo tuttavia convinti che imporre alle aziende quote di manodopera eccedenti sia una politica suicida. L’economia italiana sta piegandosi sulle ginocchia anche a causa di questa politica.” e, più oltre “È una svolta di fondo. Dal ’69 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza lavoro…”. Per onestà di cronaca e a testimonianza della coerenza dell’intervistato occorre aggiungere che Lama si riferiva nell’intervista in particolare alle imprese in “difficoltà economica” – il che tuttavia, a ben vedere, sottolinea ancora di più il forte carico economico sulle spalle del sistema produttivo. La cronaca ha mostrato nel passato un’applicazione molto restrittiva da parte tribunali dell’art. 3 della L. 604/1966, tuttora vigente, in cui la possibilità della rescissione del contratto di lavoro da parte dell’impresa per “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, ovvero nel caso del cosiddetto licenziamento per “giustificato motivo oggettivo”, era stata ammessa solo per le aziende in difficoltà economica sostenuta da adeguata prova ma non in genere per le altre, in particolare per quelle che perseguono razionalizzazioni organizzative e di produzione.

Oltre a un progressivo ammorbidimento della giurisprudenza negli ultimi tempi è intervenuto infine il Jobs Act nel 2015 con l’introduzione del “contratto di lavoro a tutele crescenti” lasciando l’applicazione dell’art. 18 della L. 300/1970 (Statuto dei lavoratori) ai soli rapporti di lavoro instaurati prima del 7 marzo 2015.  Il risultato è stato nella pratica l’abolizione in prospettiva della reintegrazione nel posto di lavoro a favore di un indennizzo crescente in ragione dell’anzianità aziendale.

Per rispondere a coloro che chiedono il ripristino della situazione precedente – o tout-court l’abolizione del Jobs Act – è bene preliminarmente dare un’occhiata alla situazione negli altri paesi europei. Premettendo che il meccanismo della buonuscita è di applicazione generale nei casi di licenziamento per motivi economici dell’impresa, questo è anche il caso notevole della Germania in cui per la fattispecie del licenziamento per motivi legati all’impresa (“betriebsbedingte Kündigung” – in cui ricadono, a parte i licenziamenti singoli per cancellazione della posizione, anche le razionalizzazioni operative delle imprese indipendentemente dalla loro situazione economica) non è prevista la reintegra ma un indennizzo economico in ragione principalmente dall’anzianità di servizio (“Abfindung”). In tale quadro il datore di lavoro è sottoposto peraltro ad alcuni obblighi notevoli tra cui la produzione di una decisione formale e motivata così come l’approntamento di un “piano sociale” (Sozialplan) nel caso di licenziamenti collettivi e il rispetto di determinati criteri sociali, in particolare nel caso di selezioni da operare tra i dipendenti, nonché, come in Italia, l’impossibilità dell’impiego in altre funzioni nell’impresa delle persone soggette al licenziamento.  

Per quanto riguarda invece un confronto dell’importo dell’indennizzo al lordo di imposte e contributi, quanto offerto in Italia è superiore ai livelli previsti dalle leggi dei principali paesi europei come mostra il seguente grafico (fonte: F. Teoldi, “L’indennità di licenziamento nei paesi europei maggiori” 2017, sito P. Ichino – i dati italiani sono da rettificare in aumento dopo le modifiche del Decreto Dignità del 2018 che hanno portato a 36 il massimo delle mensilità e a 6 il loro minimo). Tale confronto è ancora più favorevole se si tiene conto della ampia discrezionalità, fondamentalmente sconosciuta altrove, data in Italia al giudice nel fissare il numero delle mensilità a favore della persona licenziata.

Corrige! – dal 2018 in Italia: aumento del massimo e del minimo delle mensilità a 36 e 6 rispettivamente

La ragione per la quale si è optato nei vari paesi per la soluzione dell’indennizzo è facile da vedere: è fondamentale non impedire la trasformazione e razionalizzazione del sistema produttivo a difesa della sua concorrenzialità ed espansione nel tempo proteggendo nel contempo la situazione economica dei dipendenti in caso di ridondanze. Ciò vale in particolare nelle fasi economiche come l’attuale che richiede, nel volgere di un tempo particolarmente breve, una massiccia trasformazione verso un’economia sostenibile ecologicamente e più digitale. Tale processo sarà particolarmente arduo per i paesi come il nostro dove il livello degli investimenti è particolarmente basso così come il tasso di occupazione e dove l’attività economica è polverizzata in un numero molto alto di piccole imprese chiuse in una situazione di produttività modesta e incapaci troppo spesso di espandersi, anche per limitazioni alla qualità della stessa cultura imprenditoriale oltre a ostacoli endogeni di vario genere dell’economia la cui lista è lunga.

Non vi è qui lo spazio per una indicazione precisa delle conseguenze per l’economia italiana della passata applicazione dell’art.18 e delle prospettive per una sua reintroduzione. Ma si può dire che essa ha sostanzialmente contribuito nel passato, al di là del fattore in sé positivo della protezione di posti di lavoro, alla riduzione della dinamica delle imprese e, con esse, dell’economia italiana.

La domanda chiave non è di natura giuridica nel senso dell’applicazione stretta di diritti considerati come acquisiti indipendentemente dalle conseguenze economiche che in ogni caso si ripercuotono sulla condizione economica del lavoratore stesso come l’Italia ha potuto constatare per esperienza diretta, ma di natura pragmatica, ovvero in che termini sia possibile l’evoluzione del sistema produttivo in presenza di un adeguata protezione del lavoratore dipendente.

La strada da seguire sulla base delle osservazioni fatte non può che essere quella del rafforzamento della protezione economica e sociale dei lavoratori nel quadro di una flexicurity estesa. Si tratta di adottare un approccio volto al futuro e alla creazione di nuovi sviluppi economici e non al passato nel mantenimento di posti di lavoro diseconomici che di per sé sono precari. Gli sforzi vanno indirizzati verso una ridefinizione del sistema della previdenza sociale in un quadro organico che implica anche una riforma del sistema pensionistico. 

È difficile qui sopravvalutare la necessità, in concomitanza con l’introduzione di un salario minimo, della realizzazione di un reddito di cittadinanza (non nel senso di una sua universalità) efficace e provvisto della seconda gamba di una politica attiva del lavoro degna del nome. È inoltre da realizzare un’istituzionalizzazione secondo la Costituzione degli organismi di rappresentanza dei lavoratori a migliore protezione dei loro interessi e una più efficace organizzazione dei loro rapporti con la proprietà. Altro discorso, per la stabilizzazione dei buoni posti di lavoro, è da dedicare alla più decisa difesa e promozione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato rendendoli economicamente più vantaggiosi per l’imprenditore rispetto ad altre strutture contrattuali.

Se quanto detto significa che la strada non dovrebbe passare attraverso una reintroduzione dell’art.18, rimane tuttavia sempre aperta ogni discussione sulla perfettibilità degli obblighi del datore di lavoro, ad esempio in senso tedesco.