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Una boccata di ossigeno dalla vittoria di Lula

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

È difficile sopravvalutare il valore della vittoria di Lula nelle elezioni presidenziali di ieri in Brasile. In una situazione radicalmente mutata rispetto a solo pochi anni fa ogni aiuto a sostegno della democrazia è un contributo di grande valore. Le novità con le quali stiamo combattendo sono l’aperta sfida alle istituzioni democratiche portata avanti da un numero crescente di persone in ogni parte del globo, l’affermarsi di governi che ricorrono apertamente a metodi autoritari al fine di sopprimere la volontà popolare e la sfacciata minaccia di conflitto armato da parte di chi pensa che tale opzione possa portare vantaggio a chi la persegue.

Dobbiamo festeggiare la vittoria di Lula tenendo peraltro presente alcuni punti che sottolineano quanto labile essa possa rivelarsi nel prossimo futuro se non viene accompagnata da successi nell’azione di governo:

  1. La vittoria su Bolsonaro di poco inferiore al 2% è assai risicata e sensibilmente inferiore alle previsioni fatte sei mesi orsono quando il vantaggio di Lula arrivava nei polls fino al 20%. Non solo, ma al primo turno Lula aveva incassato il 48% dei suffragi. Ciò indica che è riuscito ad aggregare un più che modesto 3% incrementale dei voti al secondo turno. Occorre ricordare qui che l’evoluzione dell’economia ha aiutato fortemente Bolsonaro negli ultimi mesi grazie a un aumento del PIL che ha raggiunto il 2,5% nell’ultimo trimestre e un inzio di riduzione dell’inflazione sotto il 10%.
  2. Lula ha costruito la sua vittoria creando una coalizione ampia, un vero e proprio campo largo comprendente anche politici dichiaratamente conservatori come Fernando Cardoso, il predecessore di Lula alla presidenza, e Geraldo Alkmin, suo avversario in precedenti elezioni e che votò a favore della messa sotto accusa di Dilma Rousseff. Tale scelta è in contrasto, ad esempio, con la strategia di un Gustavo Petro, vincitore delle recenti elezioni in Colombia, che ha concluso alleanze nello spettro radicale della sinistra come ad esempio con l’ambientalista di colore Fráncia Marquez.
    Un giudizio non è facile da dare poiché i meccanismi elettorali sono differenti nei diversi paesi – Colombia ha fra l’altro un passato di guerriglia. È tuttavia un fatto che i polls segnarono un dimezzamento al 10% circa del vantaggio di Lula su Bolsonaro nel maggio scorso al tempo dell’accordo elettorale con Alkmin. È anche un fatto che Lula, a seguito dell’accordo, aveva moderato fortemente la retorica sull’aborto (un terzo dei brasiliani è di fede evangelica e la loro maggioranza segue le orme dei compagni di fede degli USA) e sul comportamento della polizia.
  3. Non possiamo ancora dire come Bolsonaro reagirà e se opterà per una strategia trumpiana non riconoscendo la vittoria dell’avversario e resistendo con tutti i mezzi. La Giustizia, e in particolare la Corte Suprema non gli è tuttavia favorevole, diversamente che negli Stati Uniti. Il giudice De Moraes è intervenuto ad esempio ieri perentoriamente intimando ai corpi della polizia di sospendere ogni azione di impedimento al voto (si parla di 560 casi registrati). Il Presidente USA sarebbe inoltre intervenuto pesantemente nei giorni scorsi su Bolsonaro.
  4. Lula non è appoggiato dalla maggioranza dei parlamentari, organo legislativo federale (mentre il governo risponde direttamente al Presidente come negli USA). Qui le battaglie saranno accese, anche perché è stato recentemente introdotto un divieto del cambio di casacca per i parlamentari, un metodo sporco ma largamente seguito nel passato per aggiustare le maggioranze.
  5. I problemi economici e ambientali brasiliani sono enormi. A parte i gravissimi problemi collegati allo sfrenato utilizzo delle risorse naturali (nel periodo di governo della sinistra tra il 2002 e il 2014, l’indice di distruzione delle Amazonas era sceso dell‘83%) un’estrema sperequazione del reddito colpisce i più deboli. Ben 100 milioni su 215 milioni di abitanti vivono sotto la soglia della povertà e circa 33 milioni sotto quello della fame. Il fatto che Bolsonaro possa reclamare per sé un andamento positivo dell’economia renderà ancora più difficile il compito di Lula che sarà alla ricerca di misure rapide a favore dei meno abbienti, scuola e salute. Lula aveva saputo sconfiggere i detrattori durante il suo primo mandato grazie alla capacità di produrre benessere economico senza scivolare in un eccessivo interventismo statale troppo spesso abusato nei paesi sudamericani. Dovrà ripetere a 77 anni la sua performance.

Ma ancora più difficile sarà, come rivelano in primo luogo gli USA, riuscire a dominare e ridurre la violenza irrazionale della discussione politica. Nell’Esplanada a Brasilia la folla gridava ieri „Lula tu devi finire in carcere“. L’intervento seguente di un intervistato in un giornale è rivelatore su come sia la situazione: „La popolazione deve scendere in strada e domandare l’intervento militare così che non ci sia un passaggio di potere ai comunisti“.

Fonte immagine: ApNews https://www.rainews.it/resizegd/768x-/dl/img/2022/10/31/1667181327504_Lula_post_vittoria.jpg




Stiamo sbagliando: si condannino azioni illegali ma non si demonizzino i russi

Di Federico Salvati, PD Berlino e Brandeburgo

Vorrei cominciare con un piccolo aneddoto personale. Di recente ho dovuto partecipare per lavoro ad una grande conferenza sugli studi dell’est Europa tenutasi a Berlino. Chiaramente, viste le circostanze, la questione Ucraina era al centro del dibattito. Durante una delle discussioni a margine, una delle relatrici (di origine ucraine) si è lanciata in un’appassionata arringa sulle colpe della Russia avanzando pesanti accuse nei confronti non solo del governo ma anche dell’identità nazionalista e imperialista del paese. A suo parere questa era considerabile come il substrato culturale che appoggiava e rendeva possibili le attuali politiche belliche. Il verdetto (a suo dire) era inevitabile: la Russia è responsabile delle sue azioni criminali e illegali non solo al livello politico ma anche a livello culturale e sociale in quanto dimostra inclinazioni imperialiste, aggressive e suprematiste.

L’intervento mi ha causato non poco imbarazzo dal momento che tra le persone del gruppo in cui stava avvenendo la discussione (ad insaputa della relatrice) c’erano anche alcuni miei colleghi di cattedra, tutti di origine russa e membri attivi della comunità russa qui a Berlino. Parlando in un secondo momento con loro la sensazione d’imbarazzo mi è stata confermata anche da questi, i quali mi hanno confessato che viste le loro origini, nonostante essi si dichiarino menti liberali critiche del regime putiniano, si sentono presi in questo momento un po’ tra l’incudine e il martello percependo ostilità da entrambi i lati del conflitto.

L’aneddoto credo sia illustrativo di quella che è la complicata situazione di quei cittadini in Russia che fino a ieri guardavano all’occidente come una possibilità di riforma e progresso in senso liberale e democratico della propria nazione ed oggi invece si ritrovano su un lato della barricata del conflitto che non hanno mai appoggiato, non vogliono appoggiare e per il quale non sono pronti a morire.

A tal riguardo mi sento in dovere di dire che in quanto europei stiamo commettendo un errore madornale.

Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad una serie di dichiarazioni da parte di paesi europei (e non) che hanno attaccato in maniera più o meno diretta la popolazione russa in quanto tale. Questo senza prendere in considerazione le reazioni draconiane all’inizio della guerra che sembravano quasi voler cancellare dalla vita pubblica del continente qualsiasi riferimento alla cultura russa (per esempio, il caso di Paolo Nori ha fatto il giro delle redazioni di tutto il mondo). A ciò si va a sommare il fatto che recentemente il regime agevolato per i visti russi è stato revocato dalle istituzioni dell’Unione, così come la maggior parte delle collaborazioni culturali scientifiche e accademiche. Alcuni paesi hanno addirittura negato l’accesso ai cittadini russi in toto, annullando anche visti già esistenti. In generale si sta assistendo ad un progressivo isolamento della popolazione russa dalla società europea e ad un crescere della distanza politica e culturale tra le due società.

Chiudendoci ai contatti con la popolazione russa stiamo commettendo un errore strategico che pagheremo nei decenni a venire. Infatti, la maggior parte di tali misure (come la chiusura totale dei confini) di certo non va a colpire punti strategici del sistema statale russo e non provoca pressioni sul governo in carica.

Se si guarda alle statistiche sul reclutamento militare conseguente alla mobilitazione, si noterà che la maggior parte dei coscritti viene da regioni come la Buriazia e il Daghestan. Queste sono circoscrizioni povere fatte da individui che, certamente, per la maggior parte non viaggia all’estero (non viaggia molte volte neanche in Russia) e non ha contatti al di fuori del paese. Sono quelle popolazioni che in gergo scientifico vengono chiamate “hard to reach people” e rappresentano la parte più conservatrice e integralista del paese.  

Con la chiusura completa dei contatti, chi andiamo a colpire non è la forza bellica russa ma gli intellettuali e i giovani liberali che hanno scambi con l’estero e contatti con il mondo occidentale. In altre parole, proprio le persone che sarebbero più vicine e recettive ad un messaggio di democrazia e libertà.

Chiudendo completamente le nostre frontiere e tutti i nostri contatti con la popolazione russa stiamo implicitamente dicendo alla parte liberale di essa (con cui noi abbiamo la maggior parte dei contatti) che deve restare nel paese e che è costretta a fornire supporto ad un regime in cui non si riconosce e che non vuole sostenere.

La Russia sta diventando una nazione progressivamente sempre più autocratica e se si guardano le immagini delle frontiere terrestri ai confini con la Georgia, per esempio, si noterà che le persone si stanno accalcando per cercare di lasciare il paese. In molti, infatti, non vogliono vivere sotto l’inasprirsi delle condizioni sociali o semplicemente non vogliono morire per una guerra in cui non credono, e che non ritengono necessaria.

L’Europa, a differenza di quello che stiamo facendo adesso, dovrebbe accogliere chi vuole lasciare la Russia. Dovremmo aprire le porte a coloro che ritengono che le condizioni nel proprio paese siano diventate così insostenibili da preferire lasciare affetti e carriera a casa e trasferirsi all’estero in un paese straniero, giudicato più o meno ostile dal proprio regime politico.

Queste persone, le quali una grossolana retorica anti-russa pone nella stessa cesta con i putiniani, soffriranno grandemente per essere stati alienati dalle nostre istituzioni e si ricorderanno in futuro di chi li ha supportati e di chi invece li ha abbandonati.

Alcuni credono che facendo pressione anche sull’élite liberale si possa generare sufficiente pressione da far scaturire un cambio di governo. La prospettiva è illusoria, e non rispecchia la natura sociale del paese. Il regime putiniano è in piena repressione e le comunità liberali non sono abbastanza forti da generare nessun tipo di opposizione significativa nei confronti del governo. Non si faccia neanche l’errore di riporre troppe speranze in Alexei Navalny, perché il leader di opposizione sicuramente renderà la Russia meno corrotta ma non obbligatoriamente più liberale. La Russia è un sistema sociale che funziona secondo ben definite norme collettive che non sempre rispecchiano gli standard liberali. La debolezza delle élite liberali in Russia sta nel fatto che una parte consistente del malcontento verso il regime non deriva necessariamente da una critica sui principi dei fondamenti dello stato ma dalla delusione sull’inefficienza e il malfunzionamento dei sistemi istituzionali. Una Russia più funzionale non significa quindi per forza una Russia più liberale.

Se il cambiamento avverrà, conseguentemente, esso verrà dall’interno del regime, non dai liberali. Lo scenario più probabile (ci dovesse essere un cambio di regime) è che la protratta situazione del conflitto possa compromettere interessi corporativi di figure chiave del regime putiniano, senza le quali il presidente non può mantenere in maniera stabile il potere sulla nazione.

Si badi bene: questo non significa non riconoscere le responsabilità legali della Russia come ente giuridico in relazione ai propri atti contro l’Ucraina. Ne significa accettare in maniera acritica le richieste politiche di Mosca perché mosse da una visione politica chiaramente in contrasto con i fondamenti istituzionali europei ed occidentali. L’aggressione russa viola norme relative alla sicurezza internazionale, il diritto umanitario, diritto umani etc. La Russia, in quanto ente internazionale, è però qualcosa di diverso dalle persone e dai cittadini che vi risiedono. Parafrasando le parole di Draghi durante il suo discorso alle Nazioni Unite di quest’anno: le responsabilità del conflitto ci sono e sono su un solo lato: della Russia. Non esiste nessuna discussione su quest’argomento.

Comportandoci, però, in maniera ostile verso la popolazione stiamo correndo a lungo termine verso la rovina. Forse potremo anche vincere l’odierno confronto con Mosca, ma di certo perderemo la Russia post-bellica, e perderemo quei pochi contatti con gli individui e le comunità che potrebbero cercare di portare all’interno del dibattito politico nazionale una voce affine ai valori occidentali ed europei.

Fonte foto: Yelena Afonina/TASS via ZUMA Press (https://abcnews.go.com/International/tens-thousands-russians-flee-putins-mobilization/story?id=90588897)




Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro dello sciovinismo

di Matteo Elis Landricina, PD Berlino e Brandeburgo

Si è fatto un gran parlare negli ultimi mesi dello stato di salute mentale, oltre che fisica, di Vladimir Putin. Esperti di varie discipline si sono lanciati in speculazioni secondo le quali dietro alla decisione del leader della Federazione Russa di scatenare l’aggressione attualmente in corso contro l’Ucraina potrebbe celarsi un qualche tipo infermità mentale. Confesso che anch’io, come molti altri, di fronte alle mostruosità scatenate dall’ordine di invasione dato da Putin ai suoi comandanti, mi sono più di una volta chiesto se il capo del Cremlino non sia da considerarsi pazzo, nel senso clinico del termine. Troppo inverosimile e folle  sembrava nell’immediato post-invasione – e lo sembra ancora oggi – l’idea di aggredire a freddo un paese vicino, senza neanche uno straccio di provocazione, causando migliaia di morti e feriti oltre che una crisi energetica ed economica mondiale, e rischiando una degenerazione nucleare del conflitto di proporzioni apocalittiche. In realtà, a mente fredda, adoperandosi nel non facile distacco emotivo, la decisione del presidente russo appare per ciò che è, ovvero il sintomo di una tendenza politica di tipo sciovinista in atto da anni in Europa e nel mondo. Vladimir Putin vuole rendere – con i suoi metodi brutali e con il suo cinismo – la Russia great again, grande di nuovo, e per fare ciò è disposto a provocare una crisi di proporzioni mondiali.

Il putinismo, l’ideologia neo-zarista di cui si nutre il regime russo, si può far rientrare a pieno titolo nella categoria delle filosofie politiche scioviniste contemporanee, anche se si distingue in questa ultima fase per la sua particolare brutalità e per il disprezzo per tutte le norme del diritto internazionale e umanitario. Donald Trump, Jair Bolsonaro, Xi Jinping, Narendra Modi, Recep Tayyip Erdoğan, Vladimir Putin: negli ultimi anni alcune delle maggiori potenze mondiali a livello politico, economico, militare sono state governate da personalità carismatiche, nazionaliste e reazionarie. Si tratta certamente di paesi molto diversi tra di loro – alcuni sono democrazie, altri dittature – ma i governi e i regimi di cui sopra hanno tutti un trait d’union, ovvero quella particolare prospettiva che possiamo chiamare “il mio paese innanzitutto”. L’Europa per la storia che ha avuto è da questo punto di vista probabilmente il continente più a rischio di derive nazionaliste e scioviniste. Spesso a noi europei piace pensare al nostro continente come al faro della democrazia e dei diritti umani – se non nel mondo, perlomeno per quanto riguarda la massa territoriale euro-asiatica – e in buona misura certamente lo è. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che l’Europa è anche un cimitero di imperi. Laddove vi sono oggi stati democratici, fino a qualche secolo o anche solo qualche decennio fa si ergevano grandi imperi continentali e “madrepatrie” di enormi imperi coloniali. Questo passato sarà sempre lì, un recondito “patrimonio” ideologico a disposizione di demagoghi pronti ad alimentare nostalgie reazionarie per i propri scopi di potere.

Alcuni stati europei già titolari di vastissimi possedimenti territoriali, come Portogallo, Olanda, Belgio, Austria, sembrano essersi lasciati per sempre alle spalle velleità imperiali, viste anche le proprie dimensioni geografiche ormai ridotte, ma non sono per questo necessariamente immuni al populismo reazionario. Altri invece, come la Gran Bretagna e, in misura minore, la Francia, faticano invece a staccarsi dai loro “sogni di gloria”. Così come le grandi potenze Stati Uniti, Russia e Cina sono tutte più o meno animate da spiriti eccezionalistici e anche missionaristici, anche in Europa sono ancora molti coloro che considerano il proprio paese “diverso da tutti” e portatore di una “missione storica”. Se il caso della Russia di Putin è estremo nella sua radicalità, il germe del nazionalismo e dello sciovinismo è più o meno presente in praticamente tutti i maggiori popoli europei.

L’Italia, patria fondatrice del fascismo, ha storicamente fatto tra i primi paesi europei l’esperienza dell’ubriacatura nazionalista e delle sue nefaste conseguenze. Nonostante ciò, come un alcolista incorreggibile, anche l’Italia in momenti di crisi è sempre tentata di fuggire dai problemi della realtà affidandosi all’ebbrezza del populismo e del nazionalismo, come ci hanno mostrato per ultime le recenti elezioni politiche. Gli esempi degli ultimi anni a livello mondiale ci mostrano chiaramente che il populismo neo-sciovinista arreca più o meno danni alle comunità politiche nazionali ed internazionali a seconda di quanto il sistema politico in cui si sviluppano li lascia fare. Se c’è una risposta popolare forte di opposizione, se i sistemi istituzionali, culturali e sociali di checks and balances funzionano, il nazionalismo arretra, come nel caso degli Stati Uniti e, speriamo, anche del Brasile. Se invece vengono lasciati agire, se non incontrano abbastanza resistenza, i nazionalismi dilagano e possono provocare danni gravissimi.

Personalmente mi auguro che il Partito Democratico, al di là della doverosa riflessione nei prossimi mesi – anche autocritica – su se stesso, sul proprio profilo e sulle proprie prospettive, si renda conto della responsabilità che ha in quanto principale partito di opposizione a questa destra, che andrà giudicata nei fatti ma che già si prevede potenzialmente rovinosa per il paese. L’opposizione non dev’essere in questo senso solamente l’occasione per leccarsi le ferite e riorganizzarsi in vista delle prossime elezioni, ma il momento di dimostrare all’Italia e all’Europa la propria utilità in quanto partito democratico di massa radicato sul territorio per riuscire ad arginare la marea di populismo sciovinista che si preannuncia. Questo il mio auspicio e la mia speranza in tempi purtroppo sempre più preoccupanti.

Fonte immagine: Asatur Yesayants/Shutterstock




Riflessioni di Federico Quadrelli sulle elezioni

Le elezioni politiche sono ormai alle nostre spalle. Questa volta mi trovo a scrivere una riflessione post voto nei panni non solo di un militante e dirigente locale del PD, ma da candidato alla Camera dei Deputati per l’Estero che, nonostante un ottimo risultato in termini di preferenze personali, non è stato eletto.

Una prima considerazione è personale: nonostante la mancata elezione non posso che essere molto soddisfatto e felice di avere superato le 13 mila preferenze, con le poche risorse economiche ed il poco tempo a disposizione, con un collocamento in lista non particolarmente favorevole, né aiuti di altro genere dalle strutture di partito. Un esito inaspettato per me, ma anche per molti altri, compresi coloro che forse avevano immaginato un risultato negativo e che invece non c’è stato: anzi! Questo ci dice che sì, le persone fanno la differenza e si può essere competitivi e ripartire, con ancora maggiore forza e determinazione di prima per cambiare le cose. Non mancherò di provarci, questa è una promessa. Lo devo a tutte quelle persone, tante, che mi hanno aiutato e sostenuto, a quelle persone con cui mi sono confrontato e che hanno vinto lo scetticismo inziale e hanno deciso di darmi fiducia. Lo avevo detto, e lo farò, eletto o meno, non verrò meno a nessuno dei miei propositi. Credo che anche così si possa ricostruire un legame di fiducia con l’elettorato. Senza nascondersi e senza retoriche.

La seconda considerazione è politica e riguarda il partito e più in generale il destino della sinistra nel nostro paese. Nonostante il recupero timido di appena un punto percentuale rispetto al 2018, il PD resta secondo partito mentre Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni vince. C’è di più: vince una coalizione, che nonostante le divergenze, come sempre, riesce a stare insieme nei momenti cruciali della vita politica, ossia quelli del voto. A sinistra, invece, continua lo spacchettamento all’infinito in tanti orticelli delle vanità, concetto che ho usato per la prima volta qualche anno fa e che trovo sempre molto pertinente ed utile. Sì, non ci sono motivazioni ideologiche tali da tenerci separati sempre, a sinistra, ma ogni leader di turno vuole avere il suo brandello di spazio di visibilità. E quindi eccoci smarriti nella giunga dei partitini personali dell’1 o 2% se va bene. Alla base di tutto c’è un’orribile legge elettorale, quella ideata da Rosato e che porta il suo nome, che produce effetti assurdi. Una legge che, dopo lo sciagurato e sbagliato taglio del numero dei parlamentari doveva essere cambiata in senso proporzionale, e che invece è rimasta lì.

A tal proposito resto convinto che l’opzione migliore sia una legge sul modello tedesco con lo sbarramento al 5%, dove le coalizione si fanno ex-post e non ex-ante. Perché l’idea maggioritaria spinge a coalizioni spurie, prive di condivisione di ideali, litigiose e instabili che solitamente il giorno dopo le elezioni finiscono, o, se si è fortunati, dopo qualche mese dall’inizio di un tentativo di governo. Un problema serio, che andrebbe affrontato con una riforma dei regolamenti parlamentari e con l’introduzione di una legge sui partiti. Di questo ne ho scritto nel 2020 con la prof.ssa Anna Mastromarino su Immagina, purtroppo il dibattito si arenò lì, con l’ennesima crisi di governo.

Al netto di questo aspetto oggettivo e tecnico, comunque, c’è una questione di fondo che riguarda la natura stessa del Partito Democratico da un lato e della sinistra in Italia dall’altro. Mi verrebbe da dire che in realtà la Sinistra in Italia è morta o è moribonda da un po’. Ma in realtà non è così: la sinistra è viva nel Paese, con i suoi ideali e con le sue aspirazioni, ma non trova una vera rappresentanza partitica. Ci sono troppi distinguo: centinaia di sfumature di sinistra, per ogni gusto e stagione negli orticelli delle vanità. Tuttavia, il PD, con tutti i problemi che ha, le scissioni subite e le incoerenze ed ambiguità interne – che ci sono, e non vanno confuse con la giustissima questione della pluralità di idee e opionioni –, è lì con il suo zoccolo duro di votanti, ed è sempre il secondo partito del paese ed il primo per l’opposizione, oggi. C’è un patrimonio elettorale che non può semplicemente essere preso e gettato alle ortiche nella convinzione (ma veramente?) che una volta cancellato tutto, si possa ripartire felici e contenti e con praterie infinite, con mezzo balletto.

Per questo credo che sia un errore parlare di scioglimento del Partito Democratico, così come credo sia abbastanza banale l’idea che cambiare il nome possa aiutare minimamente a rendere il progetto più credibile e forte, altro sarebbe se invece si facesse da parte gran parte del gruppo dirigente che è stato co-autore di questi fallimenti. Questo sarebbe certamente d’aiuto, ma comunque, questo, come le altre cose non risolverebbero il problema di fondo: quello ideologico-programmatico.

Nel 2018 sono interventuo all’incontro degli under 35 del PD a Roma, all’assemblea dei CentoFiori, dove affermavo che “non possiamo riconquistare fiducia se non siamo credibili, e se non siamo credibili è perché non siamo coerenti, o per lo meno non lo siamo stati” e continuavo suggerendo che si poteva tornare ad essere credibili “rispettando i nostri valori ed orizzonti”, iniziando col rispondere a tre interrogativi: (1) chi siamo? Ossia il problema della nostra identità, siamo un partito socialdemocratico – come io auspicherei –, o siamo altro? (2) che cosa vogliamo fare? Ossia il problema del contenuto, o meglio, la basa ideologico-programmatica, e (3) ultimo interrogativo quello sul metodo, ossia come lo vogliamo fare e – aggiungo – con chi?

Questo mio intervento, che trovo ancora molto attuale, era inserito in una riflessione sulla riforma del Partito e del suo statuto, cosa che sarebbe poi accaduta. Per altro, per il PD Estero, sono stato proprio io a coordinare i lavori di quella Commissione. Tuttavia, il cambiamento radicale che era necessario non c’è stato veramente. Oggi, dopo la terza sconfitta consecutiva finalmente il Segretario Enrico Letta ha aperto una fase rifondativa del partito, annunciando il congresso che dovrà però essere fatto con un percorso nuovo, anche se lo trovo molto complesso e macchinoso. E quindi, non so se sarà efficace, ma è bene che si inizi a parlarne e lo si faccia nella consapevolezza che o cambiamo veramente, o al prossimo giro non esistiamo più.

Prima di tutto credo che sia necessario aprire il dibattito per la rifondazione del partito alla partecipazione attiva di iscritte ed iscritti, dei circoli e delle federazioni, dell’Assemblea Nazionale e delle sue/dei suoi delegati, ma anche ai sindacati, alle associazioni ambientaliste, quelle per i diritti delle donne, delle persone lgbtqi, dei movimenti per il riconoscimento dei diritti di cittadinanza, le reti di italiane ed italiani all’estero. Chiedere il contributo di idee ai mondi che più di tutti in questi anni hanno sofferto la precarietà ed i suoi effetti e subito i danni delle crescenti disuguaglianze economiche e sociali, penso ai giovani, al mondo della ricerca e della scuola, della sanità pubblica, delle nuove professioni, per citarne alcuni ma la lista può continuare. Insomma, una mobilitazione ampia, nazionale e transnazionale perché il potenziale del PD è enorme, solo che il PD stesso non lo sa o fino ad oggi non ha voluto vederlo.

Poi, visto che credo che non si debba archiviare questa esperienza e buttare via il partito e tutto ciò che (ancora) rappresenta, servirà intervenire a fondo nel funzionamento del partito stesso: possiamo anche cambiare il nome, aggiungere non so, un elemento qualificante come il riferimento alla socialdemocrazia (immagino ci saranno divergenze…), ma non basta se poi le regole e le strutture son le stesse. Quindi, credo che serva (1) una struttura capace di raccogliere le istanze dal basso verso l’alto, per alimentare costantemente la costruzione della base programmatica del partito, che valorizzi la dimensione territoriale, che è indispensabile, altrimenti senza radicamento non si vincono le battaglie politiche, e prenda atto delle profonde trasformazioni sociali e tecnologiche che nel post pandemia abbiamo vissuto, ossia la possibilità di fare politica anche “online”, ampliando le relazioni nel tempo e nello spazio grazie a questi nuovi strumenti di comunicazione e (2) un set di regole chiare e trasparenti sulle modalità con cui si forma e seleziona la classe dirigente ad ogni livello e come si costruiscono quindi anche le candidature, tema serio che impatta notevolmente sulla qualità della politica che il partito poi realizza quando è in Parlamento e che può incidere negativamente sul rapporto di rappresentanza (chi rappresentiamo e come?). Infine (3) dobbiamo fare uno sforzo tale, dal punto di vista ideologico, programmatico ed organizzativo, che avvicini quelle realtà ancora esterne, che sono scettiche se non addirittura ostili per via della poca trasparenza dei nostri processi interni, per la mancata inclusione delle varie istanze che rappresentanto e per le troppe eclatanti incoerenze delle classi dirigenti degli ultimi dieci anni, ma che potrebbero essere parte coerente, e lo ripeto “coerente” dal punto di vista ideale, di un progetto che per me deve avere pochi ma saldi valori: il principio di solidarietà, l’aspirazione alla realizzazione di una società tollerante ed inclusiva, la realizzazione della giustizia sociale e dunque il perseguimento di un’equità di fatto, dal punto di vista economico e sociale (chi ha di più contribuisce di più) e naturalmente anche ambientale. Questo ci permetterà di identificare senza ambiguità gli interlocutori con cui è realmente possibile fare un ragionamento rifondativo e costituente allo stesso tempo, uniti nelle reciproche diversità, diversità che però non ci sono sui principi di base e rispetto agli obiettivi che si vogliono raggiungere e rispetto all’orizzonte a cui vogliamo guardare: la costruzione di una società più equa, solidale e giusta.

Federico Quadrelli