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Stellantis, i posti di lavoro e l’illusione dell’italianità. Che fare?

Immagine. 1960, quando l’auto italiana era innovazione: trazione anteriore, motore boxer a cilindri contrapposti montato di sbalzo, freni a disco sulle quattro ruote a doppio circuito, servosterzo, iniezione diretta (modello successivo).

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Sull’importante e un tempo economicamente più importante fronte dell’automobile le notizie non sono buone in Italia. Ciò spinge molti suoi politici a intervenire con forza e a colorare non di rado la realtà – anche usando fraseologie prese da un passato che si sperava dimenticato. Questo approccio confonde le cose e impedisce una riflessione matura e oggettiva. Così Meloni, facendo la voce grossa come sua abitudine anche quando ha solo scartine in mano, pesca nel passato remoto ed esige un’italianità nella produzione di auto che non esiste più in un mondo in cui la globalizzazione significa di necessità una ripartizione delle funzioni produttive a scavalcare i confini nazionali: “Se si vuole vendere auto sul mercato internazionale pubblicizzandola come gioiello italiano allora quell’auto deve essere prodotta in Italia questa la questione che dobbiamo porre”, rivolgendosi a Stellantis il 24 gennaio. In realtà vetture con il marchio Fiat vengono prodotte in modo crescente fuori dal nostro paese così come si costruiscono in Italia auto di altri marchi del gruppo Stellantis cui Fiat appartiene. Non solo: così come i modelli concorrono fra di loro sul mercato così anche gli impianti di uno stesso gruppo, disseminati in vari paesi, rivaleggiano al suo interno per la produzione dei veicoli sulla base della rispettiva efficienza produttiva. Ragionamenti analoghi valgono presso i fornitori dell’indotto. A mescolare ancora di più le carte, i marchi stessi sono divenuti, col crescere dell’agglomerazione in grandi gruppi, moduli indipendenti tra i fattori che fanno un prodotto e diventano intercambiabili a seconda del mercato. La nuova Fiat 600 elettrica, ad esempio, utilizzerà una piattaforma Peugeot e verrà prodotta in Polonia.

Coerentemente con il desiderio di “italianità” – anche il nome di un ministero è stato modificato in questo senso – potremmo attenderci in un futuro prossimo che si richieda, analogamente a quanto avvenuto in America con il trattato USCMA (ex-NAFTA), l’introduzione di quote minime di contenuto nazionale per i veicoli malgrado la complessità della realizzazione e gestione di una misura in tal senso in un contesto europeo caratterizzato da un grande numero di paesi relativamente piccoli che hanno fra l’altro un potenziale ridotto di verticalizzazione produttiva.

Senza dimenticare che tali tentativi sarebbero in Europa assai problematici già solo in considerazione del principio di libera di circolazione di persone fisiche, merci, servizi e capitale che è sancito per legge comunitaria (art. 63, Trattato sul funzionamento UE), occorre considerare che condizionamenti nazionali, o meglio nazionalistici, andrebbero inevitabilmente a detrimento della logica industriale e quindi della redditività delle case automobilistiche europee complicando fortemente la loro situazione in un mercato mondiale dove la difficile conversione verso nuove tecnologie unitamente alla preannunciata entrata massiccia dei produttori cinesi metteranno in prospettiva a dura prova la loro resilienza. La globalizzazione nel mondo dell’automobile è destinata a restare e per ragioni di necessità economica non si farà senz’altro più debole.

Altrettanto difficile è il tema dell’assetto azionario del gruppo Stellantis, anch’esso preso di mira dai critici, ove non pochi si dicono pubblicamente favorevoli al perseguimento da parte dello stato italiano dell’obiettivo di esercitare un’influenza politica sulle sue decisioni strategico-operative. In tale ottica si prospetta con enfasi un’entrata dello stato italiano nell’azionariato di Stellantis a bilanciare quella dello stato francese detenuta attraverso Bpi – un investimento che, secondo alcune veloci stime, potrebbe costare al nostro erario più di sei miliardi di euro se le due partecipazioni statali dovessero essere paritarie. Per tale ipotesi si pronuncia un ampio coro di voci che va da rappresentanti di governo (Meloni: “Si prenda sul serio l’ipotesi di una partecipazione italiana a Stellantis che bilanci quella francese”; Urso: “Noi vogliamo difendere l’interesse nazionale, instaurare un rapporto equilibrato con Stellantis.”) e dell’opposizione (Schlein:  “Si studi concretamente la strada della partecipazione pubblica per incidere sulla strategia aziendale”) ad esponenti sindacali (Landini/CGIL: “Gli incentivi di per sé non risolvono e c’è bisogno di una logica di intervento più forte. In Francia è presente lo Stato. Torniamo a chiedere che anche lo Stato italiano entri. Lo chiediamo da tempo.” mentre altri sono invece restii come Bombardieri/UIL: “Come si fa a sostenere di vendere un pezzo di Poste e poi comprare un pezzo di Stellantis?”)

Apparentemente vi è difficoltà a riconoscere che Stellantis è una società quotata con un azionariato internazionale e che va attentamente vagliata la fattibilità dell’entrata nella proprietà di uno stato in una situazione non di crisi – come fu invece nel caso dello stato francese in PSA – e per di più con il fine scoperto di esercitare influenza a favore di soli “interessi nazionali”, per quanto con la motivazione che si spererebbe non di facciata a protezione dell’occupazione, con tutte le immaginabili complicazioni nei confronti di numerosi terzi, inclusi i governi di altri paesi europei che ospitano anch’essi unità operative del gruppo Stellantis e che potrebbero avere interessi antagonistici a quelli dello stato italiano. In tal senso una sua partecipazione nel capitale di Stellantis potrebbe avere ripercussioni negative per gli stessi intenti originari che derivano da un palese conflitto di interessi – già esistente con la partecipazione dello stato francese.

Ci si dovrebbe attendere invece che ci si occupi in cima a tutte le priorità del tema relativo all’attrattiva degli investimenti in Italia e, in questo caso particolare, nel settore dell’auto e si risponda al quesito chiave riguardo allo stato di salute di FCA e, in particolare, delle strutture produttive in Italia ex-Fiat al momento della fusione con PSA. Si comprenderebbe allora diversamente il senso delle parole della Presidente del Consiglio allorché denunciò il 24 gennaio “la pretesa fusione con il gruppo francese PSA che nascondeva in realtà l’acquisizione della parte francese del gruppo storico italiano.” – il che, fra l’altro, non sembra necessariamente vero sulla base dei rapporti di proprietà che vede la famiglia Agnelli attraverso la finanziaria Exor controllare come azionista di maggioranza relativa il 23,1% dei voti degli azionisti di Stellantis contro l’11,1% della famiglia Peugeot e il 9,6% dello stato francese. È inoltre problematico parlare di “gruppo italiano” a proposito di FCA allorché nel momento della fusione la componente operativa italiana non poteva essere detta preponderante nel gruppo.

Concentrando l’attenzione per amore della brevità sui siti produttivi italiani occorre innanzitutto riconoscere con atto di sincerità che la loro difficile situazione attuale non è che il risultato di un declino in atto da tempo. Questa vede oggi la componente “italiana” chiaramente in posizione fortemente più debole in termini di capacità operativa rispetto a quella “francese” che ha una chiara superiorità già solo nel campo della tecnologia e della capacità progettuale.

Quando Elkann si attivò per trovare un accordo con PSA dopo un primo tentativo fallito con Renault, il gruppo FCA con Fiat, penalizzato da tempo da un cash-flow troppo debole per permettere un flusso stabile e concorrenziale di nuovi prodotti, si trovava in piena ritirata che era cominciata in modo conclamato  con la decisione significativa alla fine degli anni novanta di concentrarsi sull’offerta di auto medio-piccole (2 piattaforme, quella A della Panda-Uno e quella B delle Stilo-Ritmo) riservando alla gamma media-superiore il compromesso di una piattaforma B allungata che significò il declino definitivo per marchi come Alfa e Lancia, costruttori acquistati a suo tempo da Fiat prevalentemente a protezione del proprio mercato domestico contro i concorrenti stranieri. I loro modelli furono costretti a condividere con effetto negativo non solo l’architettura ma anche l’impiego di componenti di qualità modesta con il resto della produzione del gruppo di gamma più bassa.

Mentre il mercato si muoveva in una logica di trading-up, come ad esempio i produttori tedeschi, il gruppo Fiat si ritrovò in un trading-down scegliendo per costrizioni economiche di ritirarsi sostanzialmente su un segmento del mercato caratterizzato da bassi margini di profitto e concorrenza crescente, in particolare da parte dei paesi asiatici che possono vantare velocità di progettazione e realizzazione di nuovi modelli superiori a quelle dei concorrenti europei. Il deperimento graduale del know-how, ove ancora negli anni ’90 vi erano validi capisaldi come il common-rail nel settore dei motori diesel, trovò infine l’epilogo in un matrimonio con PSA, che veniva da una rincorsa coronata da un discreto successo nei confronti dei concorrenti tedeschi e che otteneva nella fusione, come accennato sopra, la leadership in termini di strategia, obiettivi e tecnologia in virtù di un migliore posizionamento in termini di risorse e di prodotto. È importante tenere presente che, oltre a quote di mercato e la presenza negli Stati Uniti con Chrysler, tra gli asset della Fiat figuravano le unità produttive in Brasile, Polonia e Turchia – ma non quelle in Italia ove la ripresa produttiva dopo il 2015 fu dovuta principalmente all’introduzione di modelli Jeep e Chrysler, tra cui i SUV, che andarono a attivare, almeno parzialmente, la capacità produttiva non utilizzata. Per questo motivo l’intelligente mossa di Marchionne con il matrimonio con Chrysler del 2014 può essere vista essa stessa come un’altra manifestazione di debolezza avendo tra gli obiettivi l’innesto, senza il peso di costi di progettazione, di nuovi prodotti nel flusso anemico dei veicoli al di fuori della piccola e media cilindrata.

La situazione si è fatta rispetto ad allora ancora più problematica e foriera di nuovi rischi per tutti i produttori europei, inclusi quelli tedeschi – questo in particolare dal momento dell’avvento sul mercato dell’auto elettrica, incluso l’ibrido. Qui il gruppo Stellantis si trova in ritardo rispetto alla concorrenza mentre si teme un’invasione di prodotti cinesi a basso prezzo e prestazioni concorrenziali, soprattutto nell’elettrico. Le fabbriche italiane di Stellantis sono svantaggiate da bassa efficienza e fanno la figura dei vasi di coccio, in particolare Mirafiori, mostrando utilizzazioni della capacità produttiva al di sotto di altri siti di produzione del gruppo Stellantis. Non è un caso che nei programmi del gruppo per l’Italia concordati nel 2021 sia prevista la produzione di quattro modelli di gamma medio-superiore e di progettazione transalpina che grazie a un maggiore margine di contribuzione permettono di sostenere un’intensità di costi di produzione più elevata, almeno per un periodo transitorio.

Di fronte alla necessità di contribuire alla risoluzione di una situazione compromessa permettendo anche un mantenimento soddisfacente dell’occupazione lo stato italiano è chiamato a un impegno che favorisca, nell’ambito di una strategia di politica industriale oggi evanescente, il miglioramento delle condizioni di investimento e gestione imprenditoriale individuando insieme ai costruttori un ruolo delle loro attività nell’auto che permetta un futuro e non meri sussidi “a perdere” in aree in crisi. I campi di intervento possono spaziare dall’istruzione e dalla riqualifica professionale e ricollocamento a tutte le condizioni quadro come l’approvvigionamento di energia stabile e a prezzi concorrenziali, un’infrastruttura efficiente dei trasporti, adeguate norme ambientali e altri elementi portanti di un sistema produttivo senza dimenticare gli importanti aspetti relativi all’amministrazione, incluso un adeguato sistema fiscale e del diritto. L’intervento finanziario dovrebbe avere in tale prospettiva il fine principale di dare impulso e sostenere l’innovazione e l’investimento in campi tecnologicamente avanzati (come ad esempio nel settore delle batterie e dell’impiego dell’idrogeno) – non secondo modelli che ricordano la filosofia di almeno parte delle defunte partecipazioni statali italiane indirizzate al mantenimento di attività, come si diceva un tempo, “decotte” e caratterizzate dalla prospettiva di una probabile perdita sostanziale se non totale di valore. Tale è anche il senso delle raccomandazioni nei suoi libri della Mazzucato che alcuni interpretano invece come una dichiarazione a favore dell’intervento statale in veste di imprenditore che dovrebbe essere riservata a casi nell’ambito dei servizi pubblici o attività produttive di particolare criticità.

In tale ottica si inserisce la contrattazione, pure serrata, sul mantenimento di posti di lavoro, anche con un supporto da parte dello stato nelle situazioni in cui esso è essenziale e uno sviluppo economicamente positivo dell’intervento è da attendersi. Non consigliabili sono in tali contesti atteggiamenti apertamente antagonistici, come manifestato ripetutamente da alcuni nei giorni passati. Essi potrebbero compromettere l’attrazione del nostro paese come destinazione di investimenti rivelandosi controproducenti per l’occupazione che altrimenti si vuole giustamente preservare ed espandere.




Abolizione del Jobs Act? Che fare con l’art.18?

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Da molte parti si richiede l’abolizione del Jobs Act e il più delle volte senza altra specificazione dimenticando che esso è costituito da ben otto decreti emessi nel 2015 a copertura di una vastissima area del diritto del lavoro. Gli strali riguardano sovente anche il principio stesso della “flexicurity” vista in modo erroneo come espressione del pensiero neoliberale mentre essa è nata già alla fine degli anni ottanta nei paesi scandinavi, in particolare in Danimarca, e nei Paesi Bassi (invito a leggere il rapporto della insospettabile Friedrich Ebert Stiftung: “Flexicurity: Ein europäisches Konzept und seine nationale Umsetzung”, aprile 2008). La flexicurity sta in realtà per una politica alla ricerca di un equilibrio tra protezione del lavoratore e flessibilità operativa delle aziende e, in tale contesto, di una divisione equilibrata dei costi sociali dell’occupazione tra impresa e mano pubblica. Il pensiero corre quindi subito al tema del sostegno alla disoccupazione, in particolare riguardo al caso di licenziamenti per motivi economici che è il vero pallino della discordia legato all’accantonamento (non abbiamo qui giuridicamente un’abrogazione – vedi oltre) dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori: in primo luogo in termini preventivi impedendo il licenziamento facile da parte delle aziende – fra l’altro, mediante l’imposizione ad esse di un costo associato sufficientemente elevato – e, in secondo luogo, attraverso un adeguato intervento dello Stato oltre a quello imposto alle imprese.

Che nel nostro paese si sia cercata la via della dissuasione forte nei confronti dell’economia in fatto di licenziamenti è un dato che è stato ammesso in passato anche dal sindacato. Non solo nel 2003 la stessa CGIL fece una proposta che prevedeva in determinate condizioni l’indennizzo del lavoratore, ma i suoi stessi segretari generali ebbero a dire come l’autorevole Lucio Lama in una famosa intervista condotta da Eugenio Scalfari nel lontano 1978: “C’è un certo numero di aziende che ha un carico di dipendenti eccessivo… Noi siamo tuttavia convinti che imporre alle aziende quote di manodopera eccedenti sia una politica suicida. L’economia italiana sta piegandosi sulle ginocchia anche a causa di questa politica.” e, più oltre “È una svolta di fondo. Dal ’69 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza lavoro…”. Per onestà di cronaca e a testimonianza della coerenza dell’intervistato occorre aggiungere che Lama si riferiva nell’intervista in particolare alle imprese in “difficoltà economica” – il che tuttavia, a ben vedere, sottolinea ancora di più il forte carico economico sulle spalle del sistema produttivo. La cronaca ha mostrato nel passato un’applicazione molto restrittiva da parte tribunali dell’art. 3 della L. 604/1966, tuttora vigente, in cui la possibilità della rescissione del contratto di lavoro da parte dell’impresa per “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, ovvero nel caso del cosiddetto licenziamento per “giustificato motivo oggettivo”, era stata ammessa solo per le aziende in difficoltà economica sostenuta da adeguata prova ma non in genere per le altre, in particolare per quelle che perseguono razionalizzazioni organizzative e di produzione.

Oltre a un progressivo ammorbidimento della giurisprudenza negli ultimi tempi è intervenuto infine il Jobs Act nel 2015 con l’introduzione del “contratto di lavoro a tutele crescenti” lasciando l’applicazione dell’art. 18 della L. 300/1970 (Statuto dei lavoratori) ai soli rapporti di lavoro instaurati prima del 7 marzo 2015.  Il risultato è stato nella pratica l’abolizione in prospettiva della reintegrazione nel posto di lavoro a favore di un indennizzo crescente in ragione dell’anzianità aziendale.

Per rispondere a coloro che chiedono il ripristino della situazione precedente – o tout-court l’abolizione del Jobs Act – è bene preliminarmente dare un’occhiata alla situazione negli altri paesi europei. Premettendo che il meccanismo della buonuscita è di applicazione generale nei casi di licenziamento per motivi economici dell’impresa, questo è anche il caso notevole della Germania in cui per la fattispecie del licenziamento per motivi legati all’impresa (“betriebsbedingte Kündigung” – in cui ricadono, a parte i licenziamenti singoli per cancellazione della posizione, anche le razionalizzazioni operative delle imprese indipendentemente dalla loro situazione economica) non è prevista la reintegra ma un indennizzo economico in ragione principalmente dall’anzianità di servizio (“Abfindung”). In tale quadro il datore di lavoro è sottoposto peraltro ad alcuni obblighi notevoli tra cui la produzione di una decisione formale e motivata così come l’approntamento di un “piano sociale” (Sozialplan) nel caso di licenziamenti collettivi e il rispetto di determinati criteri sociali, in particolare nel caso di selezioni da operare tra i dipendenti, nonché, come in Italia, l’impossibilità dell’impiego in altre funzioni nell’impresa delle persone soggette al licenziamento.  

Per quanto riguarda invece un confronto dell’importo dell’indennizzo al lordo di imposte e contributi, quanto offerto in Italia è superiore ai livelli previsti dalle leggi dei principali paesi europei come mostra il seguente grafico (fonte: F. Teoldi, “L’indennità di licenziamento nei paesi europei maggiori” 2017, sito P. Ichino – i dati italiani sono da rettificare in aumento dopo le modifiche del Decreto Dignità del 2018 che hanno portato a 36 il massimo delle mensilità e a 6 il loro minimo). Tale confronto è ancora più favorevole se si tiene conto della ampia discrezionalità, fondamentalmente sconosciuta altrove, data in Italia al giudice nel fissare il numero delle mensilità a favore della persona licenziata.

Corrige! – dal 2018 in Italia: aumento del massimo e del minimo delle mensilità a 36 e 6 rispettivamente

La ragione per la quale si è optato nei vari paesi per la soluzione dell’indennizzo è facile da vedere: è fondamentale non impedire la trasformazione e razionalizzazione del sistema produttivo a difesa della sua concorrenzialità ed espansione nel tempo proteggendo nel contempo la situazione economica dei dipendenti in caso di ridondanze. Ciò vale in particolare nelle fasi economiche come l’attuale che richiede, nel volgere di un tempo particolarmente breve, una massiccia trasformazione verso un’economia sostenibile ecologicamente e più digitale. Tale processo sarà particolarmente arduo per i paesi come il nostro dove il livello degli investimenti è particolarmente basso così come il tasso di occupazione e dove l’attività economica è polverizzata in un numero molto alto di piccole imprese chiuse in una situazione di produttività modesta e incapaci troppo spesso di espandersi, anche per limitazioni alla qualità della stessa cultura imprenditoriale oltre a ostacoli endogeni di vario genere dell’economia la cui lista è lunga.

Non vi è qui lo spazio per una indicazione precisa delle conseguenze per l’economia italiana della passata applicazione dell’art.18 e delle prospettive per una sua reintroduzione. Ma si può dire che essa ha sostanzialmente contribuito nel passato, al di là del fattore in sé positivo della protezione di posti di lavoro, alla riduzione della dinamica delle imprese e, con esse, dell’economia italiana.

La domanda chiave non è di natura giuridica nel senso dell’applicazione stretta di diritti considerati come acquisiti indipendentemente dalle conseguenze economiche che in ogni caso si ripercuotono sulla condizione economica del lavoratore stesso come l’Italia ha potuto constatare per esperienza diretta, ma di natura pragmatica, ovvero in che termini sia possibile l’evoluzione del sistema produttivo in presenza di un adeguata protezione del lavoratore dipendente.

La strada da seguire sulla base delle osservazioni fatte non può che essere quella del rafforzamento della protezione economica e sociale dei lavoratori nel quadro di una flexicurity estesa. Si tratta di adottare un approccio volto al futuro e alla creazione di nuovi sviluppi economici e non al passato nel mantenimento di posti di lavoro diseconomici che di per sé sono precari. Gli sforzi vanno indirizzati verso una ridefinizione del sistema della previdenza sociale in un quadro organico che implica anche una riforma del sistema pensionistico. 

È difficile qui sopravvalutare la necessità, in concomitanza con l’introduzione di un salario minimo, della realizzazione di un reddito di cittadinanza (non nel senso di una sua universalità) efficace e provvisto della seconda gamba di una politica attiva del lavoro degna del nome. È inoltre da realizzare un’istituzionalizzazione secondo la Costituzione degli organismi di rappresentanza dei lavoratori a migliore protezione dei loro interessi e una più efficace organizzazione dei loro rapporti con la proprietà. Altro discorso, per la stabilizzazione dei buoni posti di lavoro, è da dedicare alla più decisa difesa e promozione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato rendendoli economicamente più vantaggiosi per l’imprenditore rispetto ad altre strutture contrattuali.

Se quanto detto significa che la strada non dovrebbe passare attraverso una reintroduzione dell’art.18, rimane tuttavia sempre aperta ogni discussione sulla perfettibilità degli obblighi del datore di lavoro, ad esempio in senso tedesco.  




Comunicato di condanna nei confronti del Ministro Valditara per le dichiarazioni a proposito dell’attacco fascista a Firenze del 18 febbraio 2023

Il Circolo PD Berlino e Brandeburgo, essendo venuto a conoscenza della reazione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, in data 23 febbraio 2023 alla lettera della preside del liceo Da Vinci di Firenze Annalisa Savino sull’indifferenza come causa scatenante del fascismo in Italia, relativamente ad un’aggressione di matrice fascista avvenuta di fronte al liceo classico Michelangiolo di Firenze  in data 18 febbraio 2023, esprime la sua più sentita solidarietà alla dirigente scolastica e la più ferma condanna all’atteggiamento del ministro.

Sminuire la portata delle aggressioni fasciste in Italia spiana la strada alla legittimazione delle stesse. Minacciare ritorsioni per una pubblica presa di posizione antifascista della preside Annalisa Savino, peraltro in linea con l’orientamento repubblicano e antifascista della Repubblica Italiana, ci sconcerta. In modo particolare l’affermazione per cui potrebbero esserci provvedimenti disciplinari. Ribadendo che è tra i principali compiti della scuola e dei suoi singoli insegnanti istruire giovani italiane e italiani sul passato del nostro paese e in particolare sulle scelleratezze fasciste ricordiamo che il ministero ha pensato che sia opportuno tacere fino ad oggi sui fatti fiorentini.

Il governo dica se questa è la visione che ha di società, di scuola e di civile convivenza.

Nell’auspicio che l’attuale fase costituente del Partito Democratico riporti energie fresche per costituire un’opposizione valida e alternativa a questo governo, chiediamo al Ministero dell’Istruzione di ritirare le affermazioni fatte e rispettare l’articolo 33 della nostra costituzione che prevede la libertà d’insegnamento nonché di pronunciarsi finalmente senza ulteriore ritardo in merito all’assalto  di fronte al liceo Michelangiolo, ricordandosi fra l’altro che l’apologia del fascismo è reato nel nostro paese come in Germania.




PD: è l’ora di un programma, i manifesti sono una sua anticamera

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Immagine: Enrico de Nicola appone la firma alla nuova Costituzione italiana – 27.12.1947

“Dobbiamo avere la coscienza dell’unica forza di cui disponiamo: della nostra infrangibile unione. Con essa potremo superare le gigantesche difficoltà che s’ergono dinnanzi a noi; senza di essa precipiteremo nell’abisso per non risollevarci mai più.” Discorso di insediamento a Capo provvisorio dello Stato italiano – 15.07.1946

Una settimana fa circa il PD ha presentato il suo nuovo Manifesto dei valori. Molti si sono chiesti se questo sia quello di cui il partito ha principalmente bisogno in questo momento. La risposta è ni.

Se si considera che il precedente Manifesto dei valori era ancora quello del 2008 allorché si fondò il partito, appare logico procedere almeno a un inventario e a una riscrittura là dove essa viene imposta dai nuovi tempi dopo che molto è passato sotto i ponti. Se si tiene inoltre anche conto del fatto che la scrittura del precedente Manifesto era stata tenuta particolarmente alta delegando la specificazione di obiettivi concreti a “piattaforme politico-programmatiche che affinino il chi siamo come conseguenza del cosa vogliamo” e che tale intenzione è stata fondamentalmente disattesa in tutti questi anni non può essere errato procedere a una nuova stesura. Ciò non vuol dire tuttavia che non sarebbe stato preferibile invertire l’ordine delle azioni: prima l’urgente sostituzione della dirigenza dopo la sconfitta elettorale e poi la riformulazione di manifesti e programmi promossi da una nuova segreteria. Non appare logico assegnare la gestione di un tale esercizio a chi è in uscita quando dovrebbe rappresentare il marchio del nuovo sulla base di una discussione che coinvolga tutto il partito.

Per alcuni, tuttavia, l’esercizio indirizzato a una “rifondazione” deve apparentemente avere come fine, anche attraverso l’eterna ricerca di una cosiddetta identità che è sfuggente perché soggetta al lavorio del tempo, il ristabilimento di antichi valori che sembrano persi e che si attribuiscono soprattutto a una delle tre anime che dettero originariamente vita al PD. Ci si rifà allora, tra l’altro, all’art. 1 della Costituzione dimenticando, diversamente da altri, che la sua formulazione nel punto rilevante fu il risultato di un compromesso proposto da Amintore Fanfani, un democristiano. Basso e Amendola proponevano invece che la Repubblica fosse quella “democratica dei lavoratori”, i quali, dati i tempi di allora, non si intendevano fondamentalmente includere gli indipendenti, che ben rientrano nelle statistiche ILO comprendendo anche gli imprenditori quali occupati di sé stessi. Ruini, Presidente della Commissione dei 75, disse infatti nella sua Relazione finale che lavoro è il “lavoro di tutti, non solo manuale ma in ogni sua espressione umana”. Se la redazione del nuovo Manifesto avesse dovuto tradursi, come non mi sembra sia avvenuto, in una ricerca volta al passato, essa non sarebbe stata produttiva politicamente se non nel riaffermare principi. Non può quindi essere questo quello di cui il partito ha più bisogno, pena inoltre una sua ulteriore riduzione numerica, ma la ricerca di una migliore e chiara definizione della sua collocazione politica concreta guardando in avanti verso il futuro, ovvero un programma.

Non avendo lo spazio per un confronto dettagliato tra i due Manifesti e premettendo che non risulta facile ai non addetti spiegare il perché della mancata conferma della funzione del partito stabilita alla sua fondazione quale punto di incontro dei progressisti indipendentemente dalla loro origine ideologica, si possono richiamare brevemente i punti di novità lasciando da parte senza negarne l’importanza tutti gli altri temi che sono sostanzialmente riconfermati sotto altra formulazione rispetto al testo precedente.

A parte lo stile molto differente, occorre segnalare una minore distanza dalle tematiche concrete senza che si entri peraltro nei particolari di un futuro programma che rimane da affrontare. Siamo appunto ancora in un ambito ideale dei “valori” – che è poi più semplice di quello programmatico perché non obbliga a occuparsi dei contrasti potenziali fra i vari obiettivi che la realtà immancabilmente evidenzia costringendo non solo a priorizzazioni ma anche a loro revisioni. Per tale motivo Annunziata parlava in “Mezzora in più” del 22 gennaio, con una certa provocazione, di un documento non molto utile alle necessità immediate del PD perché insieme di affermazioni di principio.

Nuova, in particolare, è l’assegnazione nel campo dell’economia di un compito più attivo allo Stato, accompagnando il ruolo di regolatore (precedentemente: “Compito dello Stato non è interferire nelle attività economiche ma fissare le regole per il buon funzionamento del mercato, per mantenere la concorrenza anche con politiche di liberalizzazione e per creare condizioni di contesto e di convenienza utili a promuovere innovazione e qualità”) con un “ruolo strategico … che, nel rispetto delle dinamiche di autonomia, concorrenza e innovazione delle imprese nel mercato, può assumere le forme e gli strumenti di volta in volta più utili a garantire che l’economia e i processi di innovazione, anche sociale, siano indirizzati a un benessere condiviso.” Sulle possibili forme e strumenti dell’intervento di uno Stato ora anche “innovatore” si tace però – definizione questa che sarà da affrontare nell’ambito di un piano programmatico.

Si chiama inoltre alla conclusione di un “patto sociale” ponendo inoltre su un piano comune, data la crescente urgenza dei problemi ambientali, “giustizia climatica e giustizia sociale da realizzare simultaneamente” in ciò vedendo forse in modo involontariamante restrittivo la crescita di economia e imprese nella sola ottica di una funzione ecologica e sociale.

Altro tema affrontato in modo, se non nuovo, più esplicito è quello dell’evoluzione dell’UE verso una struttura ora definita dichiaratamente federale attraverso l’accelerazione del suo processo integrativo, senza peraltro accennare al come, propugnando inoltre un piano di difesa militare comune, anch’esso punto di novità rispetto al testo precedente.

Riconoscendo un maggiore realismo e attualità del nuovo Manifesto rispetto al precedente (detto al negativo: minore astrattezza) ma rammentando anche che le passate sconfitte del PD sono state fondamentalmente dovute a una mancanza di chiarezza sui programmi e non sui valori dichiarati è giunta l’ora di un maggiore impegno nel senso anglosassone di uno stretto “commitment” passando a una definizione di punti concreti per futuri programmi di governo.

In attesa della pubblicazione dei programmi dei quattro candidati alla Segreteria nazionale che spero riducano ulteriormente la distanza dalla necessaria concretezza, che gli elettori da tempo si attendono, possono essere avanzate alcune considerazioni.

Premesso che compito centrale di una società sia quello di garantire un’esistenza degna ai propri membri, il primo passo di ogni programma di governo deve essere dedicato alla definizione dell’intervento equilibratore dello stato a favore di chi si ritrova in una situazione svantaggiata. Nelle circostanze attuali si tratta in primo luogo di pronunciarsi per un reddito di cittadinanza ricalibrato nelle sue componenti di sussidio e in cui trovi attuazione una soddisfacente politica attiva del lavoro (con la definizione di obiettivi concreti in termini di riqualificazione e reintegro nel mondo del lavoro) coniugata con l’introduzione di un salario minimo che permetta, fra l’altro, la riduzione della manipolazione delle retribuzioni al fine dell’acquisizione del RdC. Parallelamente, con l’obiettivo di favorire una contrattazione tra datori e dipendenti più efficace ed equa, è necessario prevedere la realizzazione del dettato costituzionale all’art. 39 in materia di sindacati dando loro personalità giuridica e provvedendo a una loro registrazione.

Massima attenzione è da dedicare infine a un’opportuna flessibilizzazione del sistema pensionistico ai fini della sua preservazione attraverso un riequilibrio finanziario e facilitando a chi può e desidera una continuazione in età avanzata della propria attività professionale – questo anche al doppio fine del contemporaneo mantenimento del know-how critico del personale occupato e dell’aumento della popolazione attiva cui si accenna anche oltre.

Sulla base di tali risultanze la politica economica e finanziaria è da definire in modo da conseguire in un determinato arco temporale determinati obiettivi in campo sociale. In tale ambito un ribilanciamento della fiscalità e della contribuzione sociale è da perseguirsi in senso perequativo riguardo alle distribuzioni di reddito e ricchezza che sono attualmente tra le più diseguali in Europa.

Condizione fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi, a parte una ristrutturazione e un rafforzamento dell’amministrazione pubblica, inclusa la giustizia, oggi palesemente inadeguata rispetto alle necessità, è la realizzazione delle condizioni per una maggiore crescita dell’economia e nel contempo di un forte incremento della produttività, requisito per un miglioramento così necessario dei livelli salariali nonché della concorrenzialità dell’economia rompendo un’evoluzione negativa degli ultimi tre decenni. Varie leve dovranno essere usate che portino a una maggiore popolazione attiva, oggi tra le più basse in Europa in particolare tra le donne, e a maggiori investimenti – inclusi quelli dello Stato, anch’essi tra i più bassi in Europa. Ruolo principale dello Stato sarà qui quello di aiutare un’opportuna canalizzazione dei capitali italiani ed esteri, anche attraverso facilitazioni finanziarie, verso i settori più produttivi di ricchezza nel rispetto di criteri ambientali piuttosto che attraverso l’intervento diretto attraverso lo strumento delle partecipazioni pubbliche se non in campi particolari dove criticità consigliano un suo impegno in prima persona. Essendo il nostro paese prevalentemente un compratore e non creatore di proprietà intellettuale occorrerà, con l’assistenza di Stato e privati, dare maggiore impulso alla ricerca avvalendosi anche del supporto da parte delle università da cui sarà da attendere, grazie a un maggiore sostegno finanziario e a un ammodernamento delle loro strutture, una generazione più intensa di laureati, oggi ai minimi europei, e di iniziative imprenditoriali innovative.

Di fronte alla complessità e alla scala degli interventi necessari dopo anni di deriva della società italiana e della sua economia risulta evidente come uno sforzo comune si imponga. Non si tratta solo di dare seguito alle richieste di equità da parte soprattutto della popolazione più svantaggiata economicamente ma anche di creare le condizioni affinché esse siano soddisfatte. Il ruolo di un PD rinnovato dovrebbe essere quello di guidare l’evoluzione senza restringere il proprio impegno a un’attività di appoggio a giuste rivendicazioni ma proponendo soluzioni che riguardino la società italiana nella sua interezza. La ragione che portò alla sua creazione quale incontro dei progressisti di diverso colore rimane quindi più valida che mai e condizione per un suo successo è la definizione di un programma con un chiaro e concreto profilo non dettato dalle considerazioni tattiche del momento.

PAR 26.01.2023




Il piano inclinato del semi-presidenzialismo alla Meloni

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Sotto varie spoglie e manifestazioni aleggia sempre qui e là.

Dopo essere finita con il suo governo nella palude della legge di bilancio, come i più si attendevano, e avere distribuito alle varie clientele della maggioranza quel poco che c’è, dimostrando una volta di più l’assenza di visioni coerenti nel governo se non quella di protezione di interessi particolari, Meloni indirizza ora i suoi sforzi alle riforme a costo zero – per forza di cose, ma anche perseguendo una strada che possa bullonare una maggioranza di destra per i tempi venturi. Così si ritira fuori dal cassetto la “Proposta di legge costituzionale” del “lontano” giugno 2018 che vede una ridefinizione del ruolo del Presidente della Repubblica: via dalla figura di garanzia e verso una funzione di parte perché appunto votato direttamente da una maggioranza dei cittadini contro una minoranza. In questo lo si dota di nuovi attributi che permettono una sua primazia sul Presidente del Consiglio, ribattezzato Primo ministro e sminuito nel suo ruolo. I paladini di FdI mostrano tutta la corda del loro ragionamento accusando Mattarella di non essere imparziale per poi concepire un’architettura delle istituzioni dove il Presidente della Repubblica non lo è per definizione. Ovvero: se si riceve l’investitura dal popolo l’imparzialità di una carica a garanzia della democrazia diventa un accessorio di cui si può fare a meno.

Il nuovo art. 95 designa il Presidente alla “direzione della politica generale del Governo” sostituendosi in questa responsabilità al Primo ministro che ora, in posizione di subordine, “concorre” solamente nella promozione e coordinamento dell’attività dei ministri. Nel suo nuovo ruolo il Presidente continua ad avere la facoltà di sciogliere le Camere (con l’eccezione dei primi 12 mesi dalle elezioni politiche – nuovo art. 88). Ciò potrebbe in particolare occorrere qualora esse ardissero di mettergli davanti un Primo ministro sgradito. Da notare anche, per comprende la portata delle modifiche in programma, che il Presidente può (nuovo art. 89) promulgare così come rinviare leggi senza la controfirma del Primo ministro ora invece necessaria per ogni atto legislativo. Avremmo quindi in un prossimo futuro, se la riforma caldeggiata da FdI dovesse passare, non una sola istituzione in un panino, quella del Parlamento come sostiene Zagrebelsky (La Repubblica, 6 agosto 2022), ma due perché possiamo vedere nel ruolo del salame anche un Primo ministro condizionato da tutte le parti – pure da un Parlamento in cui il Presidente potrebbe cercare di formare una maggioranza alternativa. Chiave di volta del tutto è infine l’impossibilità per chiunque di sfiduciare il Presidente durante tutto il suo mandato non essendo previsto neanche lo strumento della messa in stato d’accusa (impeachment).

Gratta gratta, tutto può andare a finire nella creazione di un nuovo uomo del destino, magari con l’aiuto dall’introduzione di una nuova legge elettorale favorita da un assetto istituzionale più compiacente rispetto a quello attuale e fatta su misura senza il bisogno di precedenti marce sulla capitale e di aiuti da parte di regnanti. Sarebbe un’altra versione di una democrazia che uccide sé stessa.

Come facilmente si può vedere la Proposta di FdI è configurabile come un primo tassello verso un governo autoritario ove i FdI si immaginano fantasiosamente, come detto nell’introduzione alle modifiche di legge, di “regalare (sic!) a una nazione che ha bisogno di stabilità, ma anche di passare da una « democrazia interloquente » a una « democrazia decidente ».“ Non è una necessità che finisca così, ma si deve dire che ci sono gli elementi dato che anche non ci troviamo davanti a una riformulazione organica di tutta la seconda parte della Costituzione, come richiama Cassese, che è necessaria per la creazione dei pesi e contrappesi propri del presidenzialismo a protezione del sistema democratico.

Se la storia mostra il presidenzialismo non conduce di per sé all’autoritarismo si può però dire che esso si è prestato nel passato a tali evoluzioni, come ad esempio hanno dimostrato le vicende del Sud America. Occorre anche aggiungere che alla base dei piani di FdI c’è l’intenzione manifesta di rompere, coerentemente con la loro ideologia, con la democrazia parlamentare e rappresentativa misconoscendo a questa le qualità che l’hanno contraddistinta nella storia rispetto a tutte le altre forme di governo e pronunciandosi a favore di ipotesi decisamente decisioniste nello spirito. E come la dittatura aspira al riconoscimento della sua legittimità costruendola con il richiamo a una finta volontà popolare truccata in tutti i modi, dall’antichità fino ai regimi fascisti e comunisti recenti, così anche, nel suo piccolo, FdI racconta la frottola del “Presidente votato dagli italiani, legittimato dagli italiani e che risponde del proprio operato solo di fronte ai suoi elettori” quando questi si pronuncerebbero solo una volta ogni cinque anni e non si sa sotto quali circostanze a tendere. Quale possa essere il loro modello di ispirazione salta fuori se si legge fra le righe, in un modo critico, quello che scrivono quando si richiamano a “una riforma che affonda certamente le proprie radici nella storia della nostra nazione”. Ma in quale parte della storia? La matrice culturale tradisce la vera natura delle persone, malgrado quello che esse professano ufficialmente, per convinzione o comodità e alibi. Lo spirito degli “antenati (vedi sopra foto) continua ad aleggiare qui e là.

È vero che vari costituzionalisti, che FdI cita numerosi nella sua Proposta appropriandosene subdolamente e falsamente inserendo anche un dubbio Pacciardi (coinvolto nell’affare del golpe bianco), abbiano avuto simpatie per il presidenzialismo (come Calamandrei per quello degli Stati Uniti). Ma le statistiche della storia non sono favorevoli al presidenzialismo. A dimostrazione riporto qui di seguito una tabella che per quanto degli anni novanta è tuttora valida e in cui si mostra come il presidenzialismo sia animale raro e limitato a pochi paesi. Nel caso di quelli occidentali questi hanno per lo più fatto la loro scelta presidenzialista o precedentemente allo sviluppo del parlamentarismo di democrazia rappresentativa come gli USA o in situazioni molto particolari come la Francia (in questo caso un semipresidenzialismo con la famosa “coabitazione” tra Presidente e Primo ministro) al tempo drammatico per il paese della “sal guerre” d’Algeria e di un uomo particolare come De Gaulle, politico attratto dal cesarismo.

Juan Linz, studioso riconosciuto dell’autoritarismo e professore emerito al termine della sua carriera alla Yale University, diceva (“The perils of Presidentialism”, The Journal of Democracy, 1990): „La prestazione storica superiore delle democrazie parlamentari non è casuale”.

 Fonte: S. Mainwairing, M. Shugart “Juan Linz, presidentialism and democracy: a critical appraisal”, 1993




Corruzione, Europa e la sinistra Italiana

Di Federico Salvati, PD Berlino e Brandeburgo

Un commento sugli sviluppi del Qatargate resta veramente difficile da declinare.

Ammetto che, essendo la maggior parte dei personaggi coinvolti esponenti della sinistra italiana, la questione mi rammarica due volte: prima come italiano e poi come uomo di sinistra.

Tutto ciò alla luce delle ulteriori vicende che negli ultimi mesi (per non dire anni) hanno offuscato l’immagine del polo progressista in Italia (dal caso Soumahoro a D’Alema che fa il commerciante di armi fino alla famosa “scalata bancaria” di Fassino, i casi non ci mancano). Nel sistema politico le forze democratiche, liberali e progressiste dovrebbero essere motivate dai principi dell’uguaglianza, inclusività e altruismo. L’immagine che si dipinge a Bruxelles è invece quella di esponenti motivati dall’opportunismo e dall’individualismo: principi che a mio parere non dovrebbero appartenere al PD e in generale a tutte le forze che vogliano schierarsi a sinistra.

Più volte si è citata nella cornice del Qatargate la “questione morale” come fattore irrisolto della politica italiana. Io però non credo che la sinistra italiana abbia un problema di “questione morale” in se ma di “questione ideologica”.

Mi spiego. Negli ultimi anni è chiaramente emerso che né destra né sinistra possano vantare un marcato primato per quanto riguarda onestà e corruzione (con dovute misure e distinzioni chiaramente. La vicinanza di elementi, anche altolocati, di Forza Italia ad ambienti e personaggi di stampo mafioso è un fatto difficile da eguagliare, per esempio). Questo è segno che l’ambiente politico in Italia (nel suo complesso) è vulnerabile ad opportunisti e affaristi, i quali sfruttano i partiti più come trampolino di lancio per i propri interessi, piuttosto che come piattaforma di partecipazione. Uno dei fattori che ha agevolato e normalizzato questa tendenza è la profonda deideologizzazione dell’attività pubblica. La mancanza di un posizionamento politico forte fa mancare alle istituzioni di partito una morale interna chiara che può essere utilizzata per giudicare e regolare i comportamenti dei propri esponenti. Una posizione politica chiara significa infatti anche una morale deontologica ben definita.

Certamente questo non è in se una garanzia perfetta di onestà e legalità. Dopotutto i partiti della prima Repubblica avevano un forte carattere ideologico ma risultarono coinvolti ad ogni modo in forti scandali di corruzione. Un profilo politico chiaro, però, crea un sistema di giudizio e introduce un codice di etica, al di fuori del quale non si può legittimante agire nei confronti della “cosa pubblica”. Questo però alla politica italiana oggi manca dal momento che orami si è “ammalata di pragmatismo”.

Un posizionamento disambiguo inoltre aiuta anche a livello elettorale, come ci ha dimostrato la Meloni. In un’era di ambiguità ed eccessivo realismo, prendere posizioni chiare su determinati temi può essere un fattore di successo.

Alle soglie della ricostituzione del Partito Democratico io invito a riflettere sul nostro futuro. Credere nella democrazia e nel progressismo vuol dire credere in dei principi e dei valori che cozzano con l’eccessivo pragmatismo. Al contrario, ritenere che non ci sia differenza sostanziale tra le fazioni politiche e che il dibattito democratico sia semplicemente “il gioco delle parti” ci lascia in una posizione pericolosamente nichilista in cui il vantaggio personale diviene l’unico obiettivo razionale da perseguire.

Credere in qualcosa significa prendere posizione e per le personalità corsare senza bandiera come quelle coinvolte nelle vicende di Bruxelles non ci deve essere posto nella sinistra italiana.

Fonte immagine: [EPA-EFE/JULIEN WARNAND] https://www.euractiv.com/section/justice-home-affairs/news/qatargate-scandal-casts-light-on-untouchable-eu-lawmakers/




Si è aggiunto nella corsa anche Cuperlo. Che significa?

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Pochi giorni fa Gianni Cuperlo ha lanciato, tra la sorpresa di molti, la sua candidatura alla Segreteria nazionale del PD aggiungendola alle tre già esistenti. Come ci si poteva attendere, non vi è giornalista che non gli abbia chiesto la ragione. Cerco di ordinare brevemente alcuni pensieri sul significato della sua decisione.

Innanzitutto occorre risolvere l’apparente contraddizione tra il giudizio negativo sul processo congressuale in corso (“Avrei voluto un congresso che non partisse dai nomi.” Repubblica del 23 dicembre) e il fatto che alla fine vi partecipi. Ricordando che non siamo macchine e che tutti i mortali possono cadere in contraddizione, mi si presenta una sola risposta logica: Cuperlo intende influire sull’andamento della contesa cercando di portarla sul piano dei contenuti e dell’impegno nella formulazione di proposte politiche nette e riconoscibili per il proprio elettore sebbene sappia di non avere molte probabilità di venire eletto – “con umiltà, nella chiarezza delle idee, fuori dai trasformismi” come lui stesso dice. Visto che il processo è in corso e difficilmente modificabile non possiamo che attendere i programmi dei candidati, tema che a mio avviso si presenta la sola vera carta disponibile attualmente al fine di dare nuovo impulso al partito. 

Sappiamo che Cuperlo non è il solo a pensare che le scelte fatte non siano le migliori. Ma quali potevano essere le alternative per il partito tenendo anche in considerazione che lui stesso non ritiene la rivisitazione del Manifesto dei valori un atto utile (“I valori non si riscrivono ogni dieci anni e sono gli stessi di quando il Pd è nato”)? Se intende dire che la mancanza principale è stata quella di non riuscire a tradurre valori già riconosciuti – definiti come i principi che devono guidare le scelte politiche, inclusa la loro priorizzazione – in programmi di cose concrete da fare e atti politici è difficile non essere d’accordo. Il problema del partito, a mio avviso, si riassume in due punti:

  • Non avere osato formulare misure concrete ritenendo evidentemente che un impegno in tal senso avrebbe potuto ridurre il proprio consenso mentre si cercava per sé il ruolo del sensale in una coalizione più ampia possibile. In questo modo, ad esempio, ci si è fatti scippare da terzi il tema del Reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia invece dei cugini tedeschi della SPD.
  • Avere mancato nel trasporto e comunicazione del proprio messaggio. Esempio: Letta si è mantenuto “alto” nell’argomentazione durante il duello elettorale televisivo con Meloni mentre gli spettatori probabilmente attendevano da lui messaggi specifici sulle misure da prendere in una situazione difficile per il paese.

Controprova: attese e giudizi sulle prospettive del partito erano ben diversi e positivi prima dello scoppio del secondo stadio della crisi avviato dalla invasione dell’Ucraina mostrando i sondaggi un testa a testa con FdI. La dirigenza pensò erroneamente che il cambiamento della situazione non comportasse una modifica del proprio messaggio politico continuando a limitarlo a un appoggio qualificato al governo Draghi finendo per essere identificati con chi non ha altre idee e ambizioni.

Sotto lo choc della sconfitta elettorale non si è visto poi che le esigenze erano in realtà due con distinti orizzonti temporali scegliendo invece di abbinare le due cose mantenendo il segretario in carica ma solo per un breve periodo, al fine di attuare un processo ambiziosamente definito di “rifondazione” mentre il nuovo capo viene scelto.

L’invito che possiamo rivolgere a noi stessi è ora a mio avviso quello di fare di vizio virtù e di concentrarci sulle cose concrete che sono i programmi dei candidati e sulla scelta di chi dovrà gestire il cambiamento interno. Questo, fra l’altro, non potrà non riguardare una profonda modifica dei processi decisionali, inclusi quelli relativi a tutte le nomine dei candidati, ribaltando l’attuale piramide in cui la base ha ben poca voce in capitolo senza per questo compromettere la capacità decisionale al vertice.

Occorre infine riflettere con realismo sulla lamentela di Cuperlo, cui si accenna sopra, che si sia erroneamente “partiti dai nomi”. Qui mi permetto di dissentire sul piano pratico a meno che non ci si voglia riferire a un processo elettivo senza impegno sui contenuti. È compito del partito intero che ciò non avvenga.

Personalmente non credo molto nei consessi, men che meno se di grandi dimensioni, in cui per incantamento e dal basso profondo di una comunità di anime affini sorga, come risultato di un magico processo dialettico, un programma politico in sé compiuto e coerente. Io sono convinto invece che la discussione in tali consessi non possa che avvenire tra tesi ben delineate ed esposte da “nomi” per una loro discussione che altrimenti non potrebbe essere in alcun modo ordinata. Questo è appunto compito dei candidati nel frangente attuale quando urge l’elezione di un nuovo segretario e con esso di una linea politica che non soffra delle carenze passate.

Ciò porta a un’ultima osservazione. È proprio quando i candidati si limitano all’esposizione di principi e intenzioni, anche con il fine di massimizzare il gradimento grazie a una minimizzazione dell’esposizione, che la discussione viene mortificata e il confronto diviene personale e quindi anche più acceso. In tale situazione assumono importanza e risalto le manovre dei gruppi sostenitori, con grave danno per il partito. I candidati hanno tuttavia ancora il tempo, per quanto scarso, per smentire che questa sia effettivamente la prospettiva del partito, a parte i normali conflitti in una competizione di questo genere.

D’altra parte non ritengo che quello che dicono i diversi candidati come riportato dalla stampa presenti contrasti così ampi e insanabili da permettere solo falsi compromessi in una situazione ove è un rischio reale il lungo governo di una destra socialmente retrograda e clientelare. In tale senso ha significato più che mai la cooperazione in un partito a gestione democratica (più di quella attuale) cui partecipano tutte le forze che si dicono progressiste – il che è stata la ragione della nascita del PD.




„It’s the economy, stupid“, negli USA come da noi

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Tutto sembra indicare che i democratici USA riusciranno alla fine a salvare di giustezza la loro pelle dall’assalto del GOP nelle attuali elezioni di medio termine – diciamo meglio: per questa volta, poiché un reazionario insidioso al pari di Desantis già scalpita dietro le quinte. Molti commentatori hanno lodato, dopo un incerto altalenarsi di opinioni, la scelta del partito blu di puntare principalmente sui temi dei diritti e della minaccia impedente sulla democrazia USA evitando per quanto possibile uno scomodo confronto sul tema dell’economia. Io dubito fortemente di questa interpretazione. Non perché non sia convinto del fatto che i temi di cui sopra siano stati, nella somma dei fattori, determinanti ma perché, malgrado l’eccezionalità dei tempi, avremmo dovuto aspettarci un fallimento elettorale senza appello dei repubblicani solo per il fatto di cavalcare tesi palesemente menzognere a sostegno di qualcuno che ha tentato un vero e proprio colpo di stato, un precedente inaudito per la democrazia americana. Ciò mostra in realtà, a parte evidenti problemi connessi alla diffusione e accettazione di fake news e di teorie cospirative, quanto peso abbiano i temi economici presso gli elettori nelle considerazioni di voto. I repubblicani li hanno usati come argomento principale, accanto a quello della criminalità, nella loro campagna contro i democratici – questo in una situazione in cui il partito al governo ha mostrato evidenti difficoltà a trasmettere quanto di positivo sia stato fatto dall’amministrazione in carica nei suoi due anni di governo a dispetto di due crisi di vaste proporzioni e gravi conseguenze innestate dalla pandemia del Covid e dall’invasione russa dell’Ucraina1.

Un’altra dimostrazione lampante di quanta importanza abbiano i temi economici in una contesa elettorale ci è stata fornita recentemente dalle elezioni presidenziali brasiliane ove un’inattesa svolta congiunturale positiva, sostenuta dall’accelerazione di un depredamento dissennato delle risorse naturali, ha mancato per poco di premiare un personaggio altamente tossico come Bolsonaro contro Lula da Silva, un avversario dato per favorito e dalle comprovate qualità democratiche malgrado la penalizzazione derivante da passate vicende di corruzione – vedi in particolare lo scandalo del lava jeto.

Che l’elettore usi sovente linguaggi diversi quando parla e quando vota è cosa conosciuta, mostrandosi particolarmente sensibile alle ragioni del portafoglio nella seconda situazione. Il fatto che valga il detto „It’s the economy, stupid“ come ripetevano gli strateghi della campagna elettorale di Clinton nel 1992, consci dell’importanza di presentarsi competenti in materia di economia, non dovrebbe però scandalizzare chi premia gli aspetti etici rispetto ai temi di bassa pianura dato che dalla capacità di un paese di creare reddito e progresso economico dipende anche il soddisfacimento di una domanda sociale in costante aumento a fronte di cambiamenti radicali delle strutture produttive dell’economia e della necessità, drammatica ed esistenziale per l’umanità intera, di salvare l’habitat in cui viviamo.

Questa semplice ma fondamentale constatazione vale naturalmente anche nel nostro paese e dovrebbe guidare quanti chiedono, con molte ragioni, una ridefinizione della politica e del posizionamento del Partito democratico. Come potrebbero infatti condurre a durature vittorie elettorali programmi in cui si privilegiano l’affermazione di legittimi diritti e una migliore redistribuzione di un reddito che rimane tuttavia condannato a stagnare e a rimanere modesto – questo in una situazione ove non solo la spesa sociale ma tutto il grande resto, dall’ambiente e l’energia fino all’insegnamento e le infrastrutture inclusa la sanità, reclama interventi forti? Tra i numerosi esempi: come procedere senza adeguate risorse al tanto necessario dispiegamento di un reddito di cittadinanza nella riqualifica e ricollocazione dei senza lavoro? Il solo confronto tra la spesa annua in tale campo in Germania (SGB II) e in Italia (Rdc) – rispettivamente nel 2020 e 2021: € 44 mrd. e € 9 mrd. – offre un’indicazione plastica della dimensione del problema e del compito di fronte al quale si trova il nostro paese.

Non può essere ripetuta abbastanza l’osservazione secondo la quale buona parte delle difficoltà nell’ultimo ventennio dei governi italiani e con essi del PD, per quanto ne facesse effettivamente parte, sono dipese dalla mancanza di risorse dovuta principalmente alla crescita carente dell’economia che ha invariabilmente limitato gli interventi. La dimostrazione al contrario può essere cercata nel periodo del centro-sinistra degli anni ’80, per lungo periodo a direzione socialista con Bettino  Craxi, allorché si scelse, in presenza di tassi di interesse ben più alti di oggi e di un forte rallentamento della crescita economica, la strada della spesa generando un’impennata dell’indebitamento pubblico rispetto al PIL da poco oltre il 60% all’inizio del decennio a ben oltre il 90%, raggiungendo poi il 120% con il primo governo Berlusconi nel 1995 (vedi grafico). Ciò costrinse, anche in vista della creazione dell’euro al tempo dell’Ecu, a una robusta frenata, compito non invidiabile che toccò principalmente, dopo la breve parentesi „tecnica“ di Dini con l’appoggio esterno del PDS, ai governi di sinistra, a cominciare dal Prodi I mentre i governi Berlusconi si comportarono sostanzialmente da comparse in contraddizione con i loro stessi proclami. Si tratta di un filo rosso che ha accompagnato la politica italiana fino ad oggi legando la sinistra, non solo moderata, al ruolo dell’attore prudente nella spesa pubblica danneggiandone l’immagine presso il proprio elettorato.

Detto in maniera metaforica: la crescita dell’economia deve essere vista come la benzina che permette al motore della società di muoversi verso una ripartizione più equa del reddito attraverso una politica sociale avanzata. In una situazione, come in Italia, di bassa crescita, alto indebitamento dello stato – ora tanto più pesante a causa di tassi di interesse in salita – e alta imposizione fiscale la libertà di movimento è particolarmente limitata per un governo in termini economici e proibitiva in termini politici. A meno di una riduzione della spesa pubblica – preferito campo di gioco dei conservatori che chiudono volentieri il rubinetto di quella sociale – ogni impegno finanziario aggiuntivo dello stato non può che essere sostenuto da nuove imposte ove il nostro paese ha già raggiunto livelli molto elevati. Questi ne fanno un percorso periglioso dove è, e sarà difficile, trovare maggioranze in futuro.

Poiché sono di „tutti“, questi problemi influiranno pesantemente anche sulle azioni del presente governo di destra che si troverà a dovere rispettare promesse fatte in campagna elettorale senza avere lo spazio finanziario di manovra necessario. Lo vediamo già in questi giorni nell’estenuante ricerca di una quadra con i pochi fondi disponibili che finisce in un esercizio di elargizione di sostegni in piccole dosi, non di rado destinati a gruppi ristretti di beneficiari come l’aumento dei „fringe benefits“ a € 3mila per un solo anno cui possono attingere secondo alcuni calcoli solo 2,5 milioni di cittadini, o destinati a un successo assai scarso come quota 41 con il vero e mezzo taciuto intento di rinviare di un anno l‘urgente riforma del sistema pensionistico – una manovra che sembra ironicamente fatta apposta per limitare la spesa dato che il cosiddetto tiraggio – ad esempio secondo le previsioni della Cgil – dovrebbe essere basso a causa dell’entità della rinuncia di reddito per chi esercita l’opzione così come è già stato per quota 102. Per il resto siamo nell’attesa di misure spicciole e dedicate prevalentemente alla clientela di destra, in particolare a elementi della piccola borghesia e bottegai, tra cui una flat tax in un’edizione bislacca „FdI“ e condoni fiscali contrabbandati come elementi di una „pace sociale“ in una situazione in cui l’evasione ricomincia a salire in alcuni settori (dettaglio significativo in questo contesto: il „tax gap“, ovvero il rapporto tra le imposte percepite e quelle potenziali, riguardo all’Irpef ha raggiunto nel 2021 presso i lavoratori autonomi e le imprese ben il 68,3% – !!; fonte: „Relazione sull’evasione fiscale“ presentata lo scorso 5 novembre)

Per il resto non si possono cogliere presso la coalizione di governo, neanche nelle riflessioni alla base delle misure da programmare, espressioni autentiche di linee guida per un miglioramento della dinamica economica e della produttività nonché formulazioni, aliene alla coalizione di destra, di un nuovo indirizzo della fiscalità e della contribuzione sociale meno sperequante con il fine principale di garantire in prospettiva a ogni residente in Italia (e non solo a chi ha la cittadinanza!) un’esistenza dignitosa e vivibile.

Se da questo lato non si può essere ottimisti, quanto detto dovrebbe però anche significare un’occasione imperdibile per la sinistra di contrastare l’azione del governo attraverso un messaggio puntuale e organico mobilitando le proprie risorse e gli esperti dei vari settori ad essa vicini, ad esempio già in vista del congresso del PD in fase di organizzazione. Non solo: ma si potrebbe immaginare di dare forma a un „governo ombra“ sul modello britannico con il compito di perseguire un contraddittorio serrato e continuo trasportando il proprio messaggio mediante l’utilizzo dei moderni mezzi di comunicazione. Le conferenze programmatiche annuali potrebbero fornire l’occasione puntuale in questo contesto per un confronto delle posizioni al fine di una loro conferma o modifica, anche profonda.

I temi da affrontare in campo economico, senza trascurare quelli di valenza più spiccatamente sociale che qui non menziono, sono assai vasti e vanno da una ridefinizione del ruolo dello stato nell’economia (nel senso di stimolo anche finanziario delle attività economiche ma sostanzialmente fuori dalle logiche di intervento gestionale diretto se non in particolari situazioni di interesse pubblico) con un rafforzamento e ammodernamento delle sue strutture (tra l’altro soggette da anni a un blocco indiscriminato delle assunzioni con conseguenze altamente negative nel tempo), un aumento della popolazione attiva (in Italia la seconda più bassa in Europa), una ripresa degli investimenti, privati e pubblici, incluso un maggiore impulso alla creazione di nuove attività imprenditoriali, fino a misure più indirette e a lungo termine come l’ammodernamento e il rafforzamento dell’istruzione (in particolare, ma non solo, di quella terziaria ove il ritardo dell’Italia è statisticamente più sensibile) e al completamento della riforma dell’ordinamento e sistema giudiziario.

Qualcuno si potrà mostrare contrariato di fronte a una tale lista, soprattutto se vede l’aspetto redistributivo tra le classi in cima alle priorità secondo il principio per il quale a maggiori salari corrispondono minori guadagni per il capitale senza altra considerazione particolare in merito al livello del reddito nazionale. Riconoscendo la validità del concetto di interessi tra loro contrastanti tra lavoro e capitale, soprattutto a livello microeconomico, preferisco lasciare qui da parte altre considerazioni – in particolare sull’importanza centrale della funzione nell’economia della domanda effettiva di derivazione keynesiana – per evitare di cominciare discussioni teoriche. Richiamo però l’attenzione ancora una volta (sperando nella comprensione di chi legge e ringraziando) sul profondo significato, per un partito che aspira a una leadership di governo, della svolta di Bad Godesberg della socialdemocrazia tedesca allorché sostenne la trasformazione del partito di classe („Klassenpartei“) in un partito del popolo („Partei des Volkes“)².  Chi governa ha il compito di pensare alla totalità del paese verso il quale esercita la propria responsabilità senza peraltro rinnegare né le proprie origini storiche né i suoi obblighi verso le classi da cui proviene la propria base elettorale e che verrebbero in realtà danneggiate da una visione esclusivamente particolaristica della politica.

1  Il governo USA ha varato in questi ultimi due anni misure importanti e ingenti nell’ambito di una agenda globale „ Build Back Better“ che comportano una spesa totale nei prossimi dieci anni pari a US$ 3,8 bilioni e che comprendono cinque misure chiave:

  1. American Rescue Plan per contrastare la pandemia
  2. Infrastructure Investment and Jobs Act a sostegno della base economica del paese
  3. Inflation Reduction Act a sostegno della spesa sociale e a protezione dell’ambiente
  4. Chips and Science Act per il miglioramento della competitività dell’economia
  5. Buy American Regulations a protezione dell’industria statunitense

„Die Sozialdemokratische Partei ist aus einer Partei der Arbeiterklasse zu einer Partei des Volkes geworden“ (SPD, Godesberger Programm – 1959)

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Autore: Alessandro Arena 

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Su quel femminismo che fatica e arranca (soprattutto in Italia)

Dopo l’elezione di Giorgia Meloni è chiaro che c’è bisogno di parlare di femminismo. Il dibattito è complesso e delicato ma a mio parere fondamentale.

Di Federico Salvati, PD Berlino e Brandeburgo

Come sostiene Linda Martín Alcoff, il concetto di femminismo ha molteplici sfaccettature e la parola in sé, come tanti “–ismi”, descrive più un dibattito tematico che un approccio unitario e coerente alla realtà sociale.

La maggior parte delle persone però non seguono assiduamente i dibattiti accademici e non credo di mancare di troppo il bersaglio se dico che il femminismo è comunemente inteso come una dottrina che predica la redenzione e l’equalizzazione del genere femminile contro la discriminazione sistematica e strutturale di genere nella società.

Al tempo stesso non credo di affermare nulla di estremamente controverso se dico che il femminismo è storicamente (e nell’immaginario di tutti) classificato come una dottrina che guarda a sinistra. Il ruolo della donna inteso come “angelo del focolare” invece è normalmente appannaggio della destra tradizionalista.

Date queste premesse, è normale che l’elezione della Meloni (leader del partito più reazionario che sieda in Parlamento) stoni un pochino con questa narrativa e la questione ha chiaramente creato confusione.

Quale che sia la nostra affiliazione politica bisogna, comunque, riconoscere che si tratta di un risvolto per lo meno bizzarro. Le stranezze però portano con sé sempre un’opportunità di riflessione e in quest’occasione possiamo riflettere sul ruolo del femminismo come dottrina di redenzione sociale e sugli accadimenti politici nella società occidentale. Attenzione, con ciò non intendo discreditare né il femminismo in sé, né l’uguaglianza di genere. Al contrario, vorrei che tutti noi come attivisti e difensori della giustizia sociale ci sforzassimo di capire come fare in modo che in futuro il nostro operato sia migliore e più efficace.

Detto questo, passiamo alle note dolenti. L’elezione della Meloni, da buon uomo democratico e progressista quale sono, per me rappresenta l’ultima di una lunga serie di delusioni in questo campo. Lungi dall’essere un’eccezione, mi sembra che sia ora di riconoscere una spiacevole tendenza che gli uomini e le donne di sinistra non vogliono o non possono vedere.

Ad essere più precisi, l’ascesa della Meloni rappresenta, a mio parere, più un accadimento in linea con i trend politici europei piuttosto che un’eccezione alla regola.

Quest’articolo era originariamente pensato come una lettera aperta a una figlia che (ancora) non ho. In quella occasione avevo immaginato di chiederle di guardare, in quanto donna, ai modelli femminili di successo che hanno cambiato la nostra società in Europa, cosicché anche lei possa avere speranza e sentirsi autorizzata a perseguire i propri sogni di realizzazione individuale nel campo politico-sociale.

A tal riguardo però, presentando modelli femminili di successo nella società occidentale negli ultimi cinquant’anni ci si deve sforzare di più a trovare grandi leader femminili sia di sinistra che di destra.

Senza ombra di dubbio, le figure femminili più importanti che hanno segnato la storia recente sono state Angela Merkel e Margaret Thatcher. Due giganti della storia, da cui personalmente mi sento lontano politicamentema che senza ombra di dubbio hanno influenzato grandemente lo sviluppo della società moderna. Anche se non di sinistra, la Thatcher e la Merkel sono state delle leader che in maniera indipendente hanno perseguito quello che ritenevano più giusto e vantaggioso per le proprie comunità politiche e non mi sento di dire che fossero “vittime” del patriarcato.

Ugualmente oggi, pensando alle istituzioni europee, mi viene in mente che a capo delle due più importanti cariche politiche dell’Unione ci sono proprio due donne: la Von Der Leyen e la Lagarde. Due donne di certo lontane dai valori di sinistra. Sicuramente democratiche, ma di inspirazione conservatrice e neoliberale.

Mi preoccupa ulteriormente pensare che sia in Germania che in Francia i partiti di estrema destra hanno una situazione simile a quella italiana (nel senso di avere una leader donna alla loro guida).

La cosa non è migliore se guardo agli USA. Condoleeza Rice è stata la prima donna di colore a ricoprire la carica di segretario di stato sotto l’amministrazione Bush (e non è certo stata una figura di secondo piano).

La Clinton, credo sia abbastanza chiaro a chi segue i dibattiti politici americani, era di sinistra solo nominalmente e se dovessi parlare a mia figlia non le chiederei di guardare a loro come modelli ispiratrici di femminilità. Prima di lei ci fu sicuramente Madeleine Albright, che in verità si è apertamente schierata nel campo femminista in politica estera ma al tempo stesso era convinta proponente dell’eccezionalismo e dell’interventismo americano. Rimane da considerarsi come una figura controversa.

A onor del vero, di leader femministe ce ne sono. Ogni bravo italiano che si dice di sinistra conoscerà, almeno per sentito dire, i nomi di Lina Merlin, Tina Anselmi e Nilde Iotti. Così come al giorno d’oggi i giovani liberali conosceranno i nomi di Alexandria Ocasio-Cortez e Elizabeth Warren. Donne che sì, hanno dato grandi contributi allo sviluppo politico e sociale, ma che non sono mai riuscite a scalare i ranghi dei rispettivi partiti e non sono mai (o non ancora) riuscite a diventare delle cosiddette “front runners” come invece capitò alla Merkel e alla Thatcher e come oggi è capitato alla Meloni.

Inoltre, sfido chiunque a domandare a bruciapelo a qualcuno tra i 18 e 40 anni di riassumere in breve il contributo politico di Nilde Iotti o quello della Merkel. Scommetto una birra che la percentuale di risposte esaustive in merito sarà di gran lunga spostato sulla Merkel.

A guardare il panorama della leadership femminile, ho come la sensazione che questo benedetto glass ceiling sia più presente proprio negli schieramenti di sinistra in cui la scarsezza di leader prominenti nelle ultime decadi è a mio parere leggermente imbarazzante.

Sicuramente a destra le donne in questione saranno conservatrici, anche reazionarie, ma mi sembra paradossale che bisogni disciplinarle dicendole che sono state (o sono) donne “nella maniera sbagliata” proprio in nome del femminismo.

Credo invece che sia giunto il momento di una riflessione profonda sul ruolo del femminismo nella sinistra e nella società in generale. Forse proprio come dice la Alcoff, dobbiamo smettere di parlare di femminismo e dovremmo cominciare a parlare di “femminismi”. Siamo in un momento storico in cui il solo fatto di invocare diritti e puntare a un problema non significa più essere progressisti e di sinistra in maniera automatica. Forse è arrivato il momento di accettare che c’è anche un femminismo di destra che immagina donne in posizioni di potere e responsabilità (anche ai massimi vertici) ma con normative sociali differenti, con meccanismi politici che non sono o non possono essere assimilati alla cultura politica di sinistra.

Mi rendo conto che forse quello che sto dicendo derivi solo da un pessimismo circostanziale all’indomani della nomina di un governo d’eredità fascista capitanato dalla prima Presidente del Consiglio donna del mio paese. Mi rendo conto anche che a questo punto, dopo aver messo tutte le carte in tavola dovrei dare delle risposte per chiarificare la situazione. In realtà però la ragione di questo mio intervento è proprio questa: fatico io stesso a darmi risposte ad un dato che sembra fattuale. Forse la questione potrebbe derivare da un turn-over troppo lungo della leadership politica dei partiti moderati di sinistra (è il caso del PD in Italia, della SPD in Germania e anche dei socialisti francesi). Questo incoraggerebbe vecchi leader maschili a rimanere al timone dei quadri di partito troppo a lungo, non lasciando spazio alle nuove generazioni femminili più moderne e progressiste. Forse potrebbe anche essere il fatto che quando vengono coinvolte le donne, politicamente vengano indirizzate in maniera paternalistica verso posizioni che più rispecchiano l’immaginario patriarcale e che di solito sono meno rilevanti politicamente (scuola, sanità, pari opportunità etc. invece di interni, finanze, esteri etc.). Forse il sistema patriarcale è ancora più vivo e arzillo di quanto crediamo. In realtà non mi sento di dare soluzioni precise perché in tutta franchezza io stesso non ne possiedo nessuna.

Al contrario, il punto di questo intervento è proprio di stimolare riflessione e dibattito e sarei anche contento di essere smentito in caso qualcuno abbia una prospettiva più rosea e convincente sull’argomento.

Alla fine della giornata, comunque, mi rimane solo tanta amarezza perché, sperando un giorno di tenere tra la braccia mia figlia, come futuro aspirante padre, vorrei tanto dirle “guarda, un giorno anche tu potrai aspirare a diventare LA SIGNORA Presidente del Consiglio” ma a questo punto non so se alla mia ipotetica figlia convenga tesserarsi presso un partito di sinistra…

Fonte immagine: https://www.ilmessaggero.it/politica/giorgia_meloni_libro_io_sono_giorgia_mamma_politica_ultime_notizie_news-5948022.html




Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro dello sciovinismo

di Matteo Elis Landricina, PD Berlino e Brandeburgo

Si è fatto un gran parlare negli ultimi mesi dello stato di salute mentale, oltre che fisica, di Vladimir Putin. Esperti di varie discipline si sono lanciati in speculazioni secondo le quali dietro alla decisione del leader della Federazione Russa di scatenare l’aggressione attualmente in corso contro l’Ucraina potrebbe celarsi un qualche tipo infermità mentale. Confesso che anch’io, come molti altri, di fronte alle mostruosità scatenate dall’ordine di invasione dato da Putin ai suoi comandanti, mi sono più di una volta chiesto se il capo del Cremlino non sia da considerarsi pazzo, nel senso clinico del termine. Troppo inverosimile e folle  sembrava nell’immediato post-invasione – e lo sembra ancora oggi – l’idea di aggredire a freddo un paese vicino, senza neanche uno straccio di provocazione, causando migliaia di morti e feriti oltre che una crisi energetica ed economica mondiale, e rischiando una degenerazione nucleare del conflitto di proporzioni apocalittiche. In realtà, a mente fredda, adoperandosi nel non facile distacco emotivo, la decisione del presidente russo appare per ciò che è, ovvero il sintomo di una tendenza politica di tipo sciovinista in atto da anni in Europa e nel mondo. Vladimir Putin vuole rendere – con i suoi metodi brutali e con il suo cinismo – la Russia great again, grande di nuovo, e per fare ciò è disposto a provocare una crisi di proporzioni mondiali.

Il putinismo, l’ideologia neo-zarista di cui si nutre il regime russo, si può far rientrare a pieno titolo nella categoria delle filosofie politiche scioviniste contemporanee, anche se si distingue in questa ultima fase per la sua particolare brutalità e per il disprezzo per tutte le norme del diritto internazionale e umanitario. Donald Trump, Jair Bolsonaro, Xi Jinping, Narendra Modi, Recep Tayyip Erdoğan, Vladimir Putin: negli ultimi anni alcune delle maggiori potenze mondiali a livello politico, economico, militare sono state governate da personalità carismatiche, nazionaliste e reazionarie. Si tratta certamente di paesi molto diversi tra di loro – alcuni sono democrazie, altri dittature – ma i governi e i regimi di cui sopra hanno tutti un trait d’union, ovvero quella particolare prospettiva che possiamo chiamare “il mio paese innanzitutto”. L’Europa per la storia che ha avuto è da questo punto di vista probabilmente il continente più a rischio di derive nazionaliste e scioviniste. Spesso a noi europei piace pensare al nostro continente come al faro della democrazia e dei diritti umani – se non nel mondo, perlomeno per quanto riguarda la massa territoriale euro-asiatica – e in buona misura certamente lo è. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che l’Europa è anche un cimitero di imperi. Laddove vi sono oggi stati democratici, fino a qualche secolo o anche solo qualche decennio fa si ergevano grandi imperi continentali e “madrepatrie” di enormi imperi coloniali. Questo passato sarà sempre lì, un recondito “patrimonio” ideologico a disposizione di demagoghi pronti ad alimentare nostalgie reazionarie per i propri scopi di potere.

Alcuni stati europei già titolari di vastissimi possedimenti territoriali, come Portogallo, Olanda, Belgio, Austria, sembrano essersi lasciati per sempre alle spalle velleità imperiali, viste anche le proprie dimensioni geografiche ormai ridotte, ma non sono per questo necessariamente immuni al populismo reazionario. Altri invece, come la Gran Bretagna e, in misura minore, la Francia, faticano invece a staccarsi dai loro “sogni di gloria”. Così come le grandi potenze Stati Uniti, Russia e Cina sono tutte più o meno animate da spiriti eccezionalistici e anche missionaristici, anche in Europa sono ancora molti coloro che considerano il proprio paese “diverso da tutti” e portatore di una “missione storica”. Se il caso della Russia di Putin è estremo nella sua radicalità, il germe del nazionalismo e dello sciovinismo è più o meno presente in praticamente tutti i maggiori popoli europei.

L’Italia, patria fondatrice del fascismo, ha storicamente fatto tra i primi paesi europei l’esperienza dell’ubriacatura nazionalista e delle sue nefaste conseguenze. Nonostante ciò, come un alcolista incorreggibile, anche l’Italia in momenti di crisi è sempre tentata di fuggire dai problemi della realtà affidandosi all’ebbrezza del populismo e del nazionalismo, come ci hanno mostrato per ultime le recenti elezioni politiche. Gli esempi degli ultimi anni a livello mondiale ci mostrano chiaramente che il populismo neo-sciovinista arreca più o meno danni alle comunità politiche nazionali ed internazionali a seconda di quanto il sistema politico in cui si sviluppano li lascia fare. Se c’è una risposta popolare forte di opposizione, se i sistemi istituzionali, culturali e sociali di checks and balances funzionano, il nazionalismo arretra, come nel caso degli Stati Uniti e, speriamo, anche del Brasile. Se invece vengono lasciati agire, se non incontrano abbastanza resistenza, i nazionalismi dilagano e possono provocare danni gravissimi.

Personalmente mi auguro che il Partito Democratico, al di là della doverosa riflessione nei prossimi mesi – anche autocritica – su se stesso, sul proprio profilo e sulle proprie prospettive, si renda conto della responsabilità che ha in quanto principale partito di opposizione a questa destra, che andrà giudicata nei fatti ma che già si prevede potenzialmente rovinosa per il paese. L’opposizione non dev’essere in questo senso solamente l’occasione per leccarsi le ferite e riorganizzarsi in vista delle prossime elezioni, ma il momento di dimostrare all’Italia e all’Europa la propria utilità in quanto partito democratico di massa radicato sul territorio per riuscire ad arginare la marea di populismo sciovinista che si preannuncia. Questo il mio auspicio e la mia speranza in tempi purtroppo sempre più preoccupanti.

Fonte immagine: Asatur Yesayants/Shutterstock