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L’attacco allo stato sociale in Germania: il caso notevole del Bürgergeld

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Si stanno moltiplicando, nel contesto politico tedesco, attacchi contro l’intero sistema previdenziale perché troppo generoso. In tali attacchi politici conservatori giungono a proporre una generale riduzione della spesa sociale per permettere, in particolare, maggiori investimenti. Ciò è anche una logica conseguenza del loro rifiuto di considerare una sospensione o una revisione della legge di freno all’indebitamento pubblico (Schuldenbremse) che è tra le più rigide e restrittive in circolazione. In tal senso, ad esempio, si è apertamente espresso Mathias Middelberg, vicepresidente della frazione dell’Unione al Bundestag durante il dibattito parlamentare sulla legge di bilancio lo scorso 30 gennaio ponendo apertamente e senza mezzi termini un’infausta e improvvida alternativa tra investimenti e spesa sociale.

Come ha recentemente osservato su Die Zeit Marcel Fratzscher, presidente del DIW: “Ormai solo di rado lo stato sociale viene considerato come parte integrante di una democrazia e di un’economia di mercato funzionanti. Al contrario, costi e organizzazione dello stato sociale vengono presentati come uno dei grandi problemi economici e politici del nostro tempo… e si prospettano riduzioni pesanti delle prestazioni sociali come l’unica soluzione per permettere gli investimenti necessari per il futuro della nostra economia.” Non si può essere più d’accordo con queste parole alle quali l’autore aggiunge una constatazione importante: “Quasi tutti i fatti contraddicono tale narrativa.” Il che implica anche che l’opposizione dei conservatori non si cura della statistica e dei dati economici mostrando di avere assorbito la lezione trumpiana preferendo ai discorsi ragionati il gioco delle frasi ad effetto in un richiamo a istinti elementari degli elettori. In tale ottica il beneficiario della spesa sociale viene visto principalmente come un approfittatore che ruba risorse economiche alla società e costringe lo stato a imporre imposte esose – il mito discutibile della Germania dalle imposte e spesa sociale elevate nel confronto con altri paesi. Di ciò mi riprometto di parlare un’altra volta, sempre sulla base di fatti ed evidenze.

Per quanto riguarda il Bürgergeld è opportuno come prima cosa contestare la falsa affermazione secondo la quale chi lavora si trova economicamente svantaggiato rispetto a chi è senza occupazione e percepisce il sussidio. Ciò rappresenterebbe, secondo i sostenitori di tale tesi, un forte ostacolo all’integrazione del non occupato nel mondo del lavoro per la mancanza di un sufficiente stimolo economico nella ricerca di un’occupazione. Tra i vari esempi e in un coro a più voci, Casper Linnemann, segretario della CDU e responsabile di un recente programma del partito assai ritrito e presentato come grande novità, è giunto ad affermare circa un anno fa in televisione presso Maybrit Illner l’enormità secondo la quale chi prende il Bürgergeld arriva ad avere in tasca mensilmente fino a 800 euro netti più di chi è occupato a parità di situazione familiare. L’incauta iperbole di Linnemann si basava, per sua sfortuna, su calcoli errati di uno studio dell’IfW che dovette essere celermente ritirato dalla circolazione a pochi giorni dalla sua pubblicazione dopo che un’ondata di contestazioni aveva travolto gli autori.

Numeri corretti possono essere trovati sul sito del Portal Sozialpolitik, che è stato tra i principali affossatori dello studio dell’IfW, e qui sintetizzati in un confronto che copre in modo sufficientemente rappresentativo la complessa casistica assumendo una remunerazione della persona occupata a tempo pieno più bassa possibile sulla base del salario minimo (Mindestlohn).

Come si può facilmente constatare, anche nel caso in cui l’occupato sia remunerato ai minimi di mercato sulla base del MIndestlohn e una sola persona sia occupata nel caso di una coppia, il delta del reddito netto (detto “Lohnabstand”) è chiaramente a favore della persona occupata. È importante osservare qui che nei casi in cui il delta risulta negativo (nella tabella: coppia senza prole e genitore single con un figlio) interviene il meccanismo compensatore del sussidio integrativo (“Aufstockung”), pure parte del Bürgergeld e inopinatamente trascurato nello studio non più disponibile dell’IfW, che si aggiunge al reddito da lavoro in modo da ristabilire una differenza positiva rispetto al reddito netto del percettore del Bürgergeld. Tale misura compensatrice fu introdotta con l’Hartz IV nel 2005, quando ancora non esisteva il salario minimo, al fine di assicurare che, in linea di principio, la differenza di reddito non sia negativa a sfavore dell’occupato.

È bene osservare che in generale gli istituti economici non seguono il parere dei politici dell’Unione su questo punto – così ad esempio Andreas Pichl, direttore presso l’istituto Ifo: „Quanto dicono alcuni politici secondo cui chi vive esclusivamente di prestazioni sociali riceva netto più di chi lavora con un basso salario è semplicemente falso.”

Rimane naturalmente aperto il quesito soggettivo se la differenza positiva dei redditi disponibili a favore dell’occupato non sia troppo ridotta e demotivante poiché “lavorare non conviene”. Mi limito qui a osservare che il quesito è assai mal posto se la diagnosi è che beneficiario del Bürgergeld è trattato troppo generosamente. Chiederei quindi a coloro che sostengono tale posizione per quale ragione non siano invece i salari stessi a essere bassi e sovente così bassi da trovarsi sotto il “livello minimo di vita rispettoso dell’individuo” (“menschenwürdiges Existenzminimum” che discende dall’art. 1 Grundgesetz – sentenza 05.09.2009 del Primo Senato, Corte Costituzionale) obbligando alla concessione di un introito compensativo sotto forma di Bürgergeld.  

La discussione si è fatta ancora più accesa successivamente al forte aumento per il 2024 del sostegno base del Bürgergeld, +12% rispetto all’anno precedente. Molti contestano tale aumento in considerazione del notevole rallentamento in corso dell’inflazione e a fronte dell’aumento molto più contenuto del salario minimo (+3,4%). Tale ragionamento non tiene però conto del fatto che i due meccanismi di determinazione sono profondamente diversi. Il secondo meccanismo segue nell’adeguamento del salario minimo le raccomandazioni di una commissione di esperti che agisce sulla base dell’evoluzione attesa dell’economia, ovvero di una previsione, mentre il primo contempla un adeguamento a posteriori sulla base per il 70% di un paniere di beni rappresentativo del livello di vita dei percettori di Bürgergeld (che viene rivisto ogni cinque anni, l’ultima volta nel 2021) e per il 30% dell’incremento dei salari. Il ritardo insito in questo meccanismo nel trasmettere le variazioni, positive o negative, dell’inflazione aveva causato nel 2022 una sensibile perdita di potere di acquisto per i percettori del Bürgergeld, come evidenziato nel grafico 2. Volendo quindi evitare il ripetersi di una situazione simile si è introdotto dal 2023 un secondo fattore nel calcolo dei sussidi al fine di accelerare la trasmissione della dinamica dei prezzi. Tale fattore aggiuntivo è basato sulla rilevazione dell’inflazione dell’ultimo trimestre disponibile nel momento della determinazione, ovvero nella seconda metà di ogni anno, del sussidio per l’anno a venire. Ciò ha tuttavia provocato per il 2024, in seguito a un’inversione del trend dell’inflazione nel corso del 2023, un eccesso nell’incremento dei sussidi, inversamente a quanto avvenuto, come detto sopra, nel 2022. È qui fondamentale ricordare che accelerazioni del sussidio oltre il livello calcolabile a posteriori sulla base di dati effettivi vengono compensate nel calcolo dell’anno successivo grazie a una neutralizzazione dell’eccesso dell’anno precedente. In tal senso le varie richieste di riduzione del sussidio avanzata dall’Unione (Merz era giunto a richiedere semplicemente un’assai problematica sospensione dell’aumento) trovano automaticamente risposta grazie al meccanismo di calcolo senza intervento esterno. Il caso opposto si verifica nel caso di un’accelerazione dell’inflazione.

Il seguente grafico mostra (fonte: H. Schäfer, C. Schröder, S. Seele: “Bürgergeld und Preisentwicklung”, iW) come la dinamica del Bürgergeld nel periodo 2020-2024 sia rimasta in modo continuativo inferiore a quella dei prezzi del paniere con la sola eccezione notevole dell’anno in corso che, come detto sopra, troverà correzione in futuro con la conseguenza che non si attendono al momento aumenti del Bürgergeld per l’anno prossimo. Non sembra pertanto realistico e consigliabile, come raccomanda anche l’iW, di procedere a interventi ad hoc sotto la pressione degli eventi. Consigliabile è invece procedere a una revisione del meccanismo di calcolo a ulteriore riduzione della sua inerzia tuttora eccesiva che può favorire (nel caso di riduzione dell’inflazione dopo l’aggiornamento dei sussidi, come nel caso attuale) o sfavorire (nel caso contrario di aumento dell’inflazione) i beneficiari a seconda della situazione.

GRAFICO 1 – Andamento cumulato degli aumenti del Mindestlohn e del Bürgergeld (caso della persona single), 2020-2024

Linea rossa: Bürgergeld, single; linea blu: Mindestlohn; linea continua: indice prezzi paniere Bürgergeld

Per procedere a una valutazione economica del Bürgergeld è però bene analizzare come i sussidi si siano sviluppati nel tempo a partire dell’introduzione di Hartz IV nel 2005, a cui si è sostituito il Bürgergeld dall’inizio del 2023, ricordando che il paniere di beni di consumo e di servizi del Bürgergeld è stato determinato tenendo come riferimento la situazione di rischio povertà fissato a due terzi del reddito disponibile mediano. L’andamento del sussidio base calcolato in termini reali utilizzando per semplicità l’indice dei prezzi al consumo (grafico 2) mostra che il suo percettore non abbia sostanzialmente partecipato all’aumento di benessere della popolazione tedesca. L’Indice raggiunge un valore di solo +4,3% in termini reali alla fine del 2023 rispetto all’inizio del periodo. Il 2024 mostrerà a dicembre un insolito balzo verso l’alto che verrà riassorbito successivamente, come spiegato sopra.

GRAFICO 2

Il seguente grafico evidenzia come la dinamica del Bürgergeld sia rimasta sostanzialmente al di sotto di quella ben superiore del prodotto lordo e del reddito disponibile, entrambi pro capite. La differenza tra l’indice del PIL pro capite e quello del sussidio base (linea gialla) raggiunse il valore massimo nel 2022 con un notevole +40% rispetto all’inizio del periodo.

GRAFICO 3

L’andamento del carico per l’erario dal momento dell’introduzione di Hartz IV a oggi evidenzia, grazie a una sostanziale riduzione degli aventi diritto fino al 2021 e alla crescita più veloce del PIL rispetto al Bürgergeld come detto sopra, una progressiva riduzione dell’impatto percentuale della spesa imputabile al SGB II (Codice di sicurezza sociale, libro II) sul bilancio statale. Tale spesa include, oltre al Bürgergeld in senso stretto (precedentemente: Hartz IV), i costi per le misure di politica attiva del lavoro associate e quelli della relativa amministrazione. È importante notare come i rapporti rispetto sia al PIL sia alla spesa pubblica totale mostrino un trend alla riduzione per tutto il periodo di riferimento malgrado gli aumenti in valore assoluto a partire dal 2012, da € 40,0 mrd a € 46,8 mrd con un incremento medio annuo dell’1,4% solamente. Si comprende facilmente come i politici dell’Unione amino fare riferimento nei loro discorsi ai valori assoluti della spesa tacendo sul quadro d’insieme che contraddice la loro argomentazione contro un costo ritenuto proibitivo del Bürgergeld.

GRAFICO 4

Il grafico seguente mostra infine come il recente aumento degli aventi diritto al Bürgergeld, dopo un periodo di continua riduzione, sia relativamente modesto evidenziando alla fine dell’anno scorso un livello non superiore a quello prepandemico e quindi assolutamente non tale da giustificare gli allarmi lanciati da molte parti.

GRAFICO 5

La logica delle argomentazioni dell’Unione mostra ancora di più la corda se si considera che il recente incremento degli aventi diritto dal 2021 deriva fondamentalmente dall’afflusso di migranti dall’Ucraina (0,7 milioni di aventi diritto ucraini al Bürgergeld nell’ottobre 2023 su un totale di 5,5 milioni circa) – un afflusso che in realtà con l’aiuto della perfida Russia minaccia di apportare all’economia tedesca almeno parte di quei lavoratori di cui ha sempre più bisogno e la cui ritardata integrazione è in buona parte da ricondurre alla scelta del governo di dare priorità all’apprendimento della lingua rispetto all’avvio nel mondo del lavoro, differentemente da quanto deciso in altri paesi europei. Come sappiamo il governo tedesco ha recentemente corretto in modo opportuno la sua decisione.

Sulla base delle informazioni di cui sopra è difficile comprendere la richiesta portata avanti in particolare da Caspar Linnemann di abrogare (“abschaffen”) il sistema attuale del Bürgergeld – soprattutto se si considera che i rappresentanti stessi dell’Unione hanno elogiato apertamente in un passato non tanto remoto l’introduzione di Hartz IV, di cui il Bürgergeld rappresenta un’evoluzione. Il modo estremo con cui Linnemann e altri avanzano la loro richiesta sorprende ancora di più se si considera che l’Unione votò compatta con un solo voto contrario a favore della legge istitutrice del Bürgergeld il 25 novembre del 2022. Il fatto che l’Unione abbia appoggiato fra l’altro, durante il percorso della legge, il meccanismo di calcolo in seno alla Commissione di conciliazione parlamentare (Vermittlungsauschuss) è un ulteriore dettaglio significativo (vedi ad es. Tagesschau, 8 settembre 2023).

È interessante notare che in assenza di proposte concrete da parte dell’Unione riguardo all’introduzione di un nuovo sistema in luogo del Bürgergeld a parte puntate miranti a restringere flessibilità nel rifiuto di offerte di lavoro o a una riduzione degli aventi diritto, soprattutto con riguardo ad altre nazionalità, la linea di fuga dell’Unione contempla in vario modo una spinta diretta a un maggiore impiego dei senza lavoro e a modifiche dell’imposizione fiscale a favore dei già occupati con il fine di accrescere l’attrattività dell’occupazione – ciò ad esempio attraverso l’esenzione di determinate prestazioni come quelle in giorni festivi o gli straordinari. È un dato di fatto, fra l’altro, a spiegare le giravolte dell’Unione, che riduzioni sistematiche del Bürgergeld sono difficilmente immaginabili anche solo per il più che probabile conflitto con le disposizioni del Grundgesetz cui si accenna sopra.

Esemplare per l’indeterminatezza di molti degli interventi dei rappresentanti dell’Unione è quello di Mathias Middelberg, vicepresidente della frazione democristiana al Bundestag e particolarmente impegnato nelle questioni che riguardano la tematica delle finanze dello stato, durante un’intervista concessa lo sorso 18 gennaio a Cicero e di cui riprendo integralmente una risposta:

Domanda: Dove vedrebbe risparmi con il fine di alleggerire il carico sui cittadini tedeschi?
Risposta: Risparmi sul Bürgergeld e dal tema asilo. La spesa legata al Bürgergeld che è la posizione di bilancio che più velocemente cresce non viene quasi toccata attualmente. Nel frattempo 44 miliardi di euro vengono spesi ogni anno per il Bürgergeld, un euro su dieci nel bilancio pubblico. Qui si deve girare la barra in modo deciso. Non si tratta di togliere qualcosa alle persone più povere ma di portare più gente nel mondo del lavoro.
Quattro milioni di beneficiari del Bürgergeld sono abili al lavoro e potrebbero lavorare. Se riuscissimo ad avviare al lavoro anche soltanto un milione di queste persone che sono in linea di principio abili al lavoro riusciremmo a generare tra Bürgergeld risparmiato e maggiori introiti fiscali e previdenziali fino a trenta miliardi circa di euro per le casse dello Stato.”

Middelberg viene da molti ritenuto un ottimista in merito al potenziale di impiego degli aventi diritto al Bürgergeld. Non solo la Germania è riuscita a incrementare il tasso di occupazione dal 2010 dal 69,7% al 77,4% nel 2023 figurando oggi tra i primi della classe ma gli stessi numeri del Burgergeld non farebbero intravedere il potenziale che Middelberg scorge. Secondo calcoli del DIW solo 1,7 milioni di persone circa, un numero assai inferiore a quello immaginato dall’esponente della CDU, sono in linea di principio potenzialmente a disposizione per un’assunzione di qualche tipo, previa riqualifica o meno.

Da ultimo è importante rilevare quanto possano essere diverse le concezioni per una sicurezza sociale di base (“Grundsicherung”). Mentre l’introduzione del Bürgergeld ha avuto come fine principale quello di mettere in maggiore risalto rispetto ad Hartz IV la funzione di riqualifica e ricollocazione del non occupato (ad esempio attraverso l’abolizione del Vermittlungsvorrang che obbligava all’interruzione del processo di riqualifica in caso di un’opportunità di lavoro per quanto limitata nel tempo) l’Unione vede in esso, così come la Presidente del Consiglio italiana, uno strumento di aiuto per persone impedite nell’esercizio di un lavoro. Come Carsten Linnemann ha detto non molto tempo fa alla Süddeutsche: “Lo stato sociale deve essere presente per le persone che sono realmente bisognose, che non possono lavorare… In futuro ognuno che può lavorare e riceve sussidi dovrà accettare un’offerta di lavoro entro i sei mesi o lavorare in volontariato.” Inoltre: “Chi non vuole lavorare non lo deve fare – ma non può poi attendersi che la comunità assuma i suoi costi.” È significativo e sintomatico che i temi, fra i tanti trascurati, di una maggiore efficienza dei Job-Centers tedeschi e dei processi di riqualifica non vengano affrontati in molti dei discorsi che sentiamo.

Non si può che ripetere la considerazione di Marcel Fratzscher: “Quasi tutti i fatti contraddicono tale narrativa” (dei partiti conservatori).

03.03.2024




Il dilemma della spesa pubblica

Di Pierantonio Rumignanani, PD Berlino e Brandeburgo

Ogni stato si trova oggi di fronte a impegni finanziari fortemente crescenti. Alla necessità di dare impulso a processi radicali di digitalizzazione e di conversione ecologica ed energetica, cui l’iniziativa privata non può fare fronte da sola mancandole sufficienti risorse e incentivi economici, si accompagna anche l’urgenza di provvedere al rinvigorimento dei negletti servizi pubblici, dalla sanità all’istruzione e alle infrastrutture ivi inclusa, in particolare nel nostro paese, la stessa macchina dello stato. Si aggiungono ora anche accresciuti impegni militari dopo anni di quiete resa possibile da quello che è stato definito il “dividendo della pace”. Si tratta di una tempesta perfetta e preannunciata da tempo ove quasi ogni misura da prendere si presenta con urgenza, in cima a tutte l’impendente disastro ecologico come ci viene ricordato del monito continuo  di vicende ambientali.

Ora si vendica il rifiuto di affrontare per tempo e in modo organico il sistema fiscale e di spesa dello stato avendo optato per un ben più modesto perseguimento di politiche finanziarie mirate principalmente al rispetto di vincoli finanziari a dispetto di bisogni crescenti. A complicare le cose e a restringere la flessibilità dell’azione di governo sono intervenute, in particolare a partire dalla crisi finanziaria del 2008, una riduzione della crescita economica e della dinamica della produttività. Per l’Italia le cose si sono fatte particolarmente complicate a causa di specifici fattori penalizzanti quali i livelli elevati dell’indebitamento pubblico e della tassazione nel confronto con altri paesi.

Davanti alla prospettiva per lo stato di dovere fare fronte a un eccezionale aumento della spesa operando contemporaneamente un sensibile mutamento della sua composizione i partiti – così anche in Italia – hanno reagito spaziando fondamentalmente da una negazione più o meno conclamata della realtà a una sua accettazione reticente e selettiva di fronte agli elettori per tacito timore di conseguenze negative nei sondaggi, come se le elezioni fossero domani, e concentrandosi sul soddisfacimento degli interessi di chi è considerato parte dei propri sostenitori naturali.

La considerazione centrale va allo stato di crisi della visione conservatrice dell’economia che ha dominato negli ultimi decenni secondo la quale le soluzioni, qualunque esse siano, devono continuare a venire da meccanismi definiti “liberi” del mercato anche quando questo si dimostra in forte difficoltà a fornire rimedi se non sostenuti da una forte azione pubblica imposta da situazioni di eccezione. Abbiamo quindi il caso dei cristiano-democratici tedeschi, ad esempio, che in nome di un’ortodossia fatta sovente di mere parole d’ordine, predicano la finanziabilità delle politiche ecologiche ed energetiche così come la neutralità del sostegno pubblico nei confronti delle varie tecnologie in competizione tra loro ritrovandosi in piena contraddizione con l’esigenza di un intervento pubblico necessariamente selettivo a favore delle soluzioni più promettenti in presenza di risorse e tempo limitati. L’ambiguo criterio della finanziabilità (ma quale politico dirà mai che si debba raccomandare una politica non finanziabile?) mostra il proprio colore nel momento in cui si ubbidisce contemporaneamente, per coazione a ripetere dettata da interessi che si intende favorire, al mantra di una riduzione del livello impositivo o, nel modo assoluto di chi difende il Piave, il rifiuto di ogni possibile aumento della tassazione, anche parziale. Il risultato di tale impostazione non può che essere la limitazione della spesa pubblica secondo criteri che vedono investimenti e spesa sociale perdenti rendendo strutturalmente insufficiente l’intervento dello stato – a detrimento del sistema intero e della stessa economia privata. Questa posizione parzialmente “negazionista” trova espressione in frasi improbabili che si possono leggere nel sito della CDU in merito alla politica ambientale come: “Siamo pur sempre sulla buona strada” o “Non è che il mondo scomparirà domani” – parole di Friedrich Merz, segretario del partito.

L’attuale insuccesso di conservatori tradizionali presso gli elettori in tutta Europa, che li spinge fino a mettersi al traino della destra radicale come in Italia, spiega perché la versione non edulcorata del negazionismo in materia ambientale e sociale possa avere il vento in poppa. Il suo successo attuale, frutto della sfiducia nei confronti dei partiti tradizionali soprattutto da parte di chi teme di perdere l’acquisito e che vede un nemico nell’immigrato e nello “scansafatiche” aiutato dallo stato, non può essere apportatrice di soluzioni poiché si basa sul misconoscimento e travisamento della realtà. Tali partiti non possono che promettere polarizzazione e conflitto sociale. 

Il terzo fronte, quello dei “progressisti”, dovrebbe trovarsi in una situazione favorevole perché più aperto al cambiamento e più cosciente dei problemi relativi all’ambiente e alla società. Ma non riesce nella realtà quotidiana a trarne vantaggio. Molteplici sono le ragioni, tra cui si trova anche quella che vede più difficile il raggiungimento di un consenso su un programma politico comune tra convinzioni politiche diverse rispetto alla tipica operazione di ripartizione di potere tipica della destra conservatrice a protezione di interessi determinati. Ma la forte concorrenzialità tradizionale tra i partiti della sinistra e la spinta sempre presente verso posizioni di coerenza che limita la capacità di compromesso non sono che parte della spiegazione.

Evitando di entrare nei dettagli delle vicende storiche della sinistra nei vari paesi europei e trascurando l’aspetto importante della discriminante tra riformatori e radicali salta all’occhio la difficoltà della sinistra attuale ad affrontare la situazione di crisi incipiente della società occidentale con una risposta coerente che copra l’obiettiva complessità dei problemi dalle questioni sociali a quelle dell’ambiente e dell’economia collegandole in modo organico – in contrasto con l’ambizione che fu propria fra gli altri persino di un partico come il PCI. A fronte dell’accentuato scetticismo dell’elettore che in assenza di una visione globale si rivela restío a dare fiducia, in questo influenzato anche dall’onda della disinformazione e, presso molti, dalla tentazione di trovare soluzioni semplici e muscolari, la reazione di riflesso è spesso quella del rifugio in schemi rintracciabili nel passato per quanto, come in Italia, in una versione moderna di matrice “liberal” anglosassone. Questo è il quadro in cui si muove infatti l’attuale gestione del PD ove è palese il tentativo della riduzione delle tematiche a punti nodali (diritti, lavoro, ambiente) nell’attesa di trovare maggioranze, anche di coalizione di cui si aspira la leadership, in un modo puntuale su temi specifici. Se questo approccio sarà capace di ristabilire la maggiore fiducia da parte degli elettori di cui ha goduto il partito in anni ormai passati è un quesito che non trova ancora risposta. Considerevole è però qui il rischio di esaurirsi in un gioco di rivendicazioni per quanto singolarmente giustificate. La stessa scelta della segmentazione selettiva degli interventi può anche ingenerare l’impressione presso gli elettori di una “vendita ottimistica” e quindi poco credibile del tema ambientale come se esso potesse essere visto prevalentemente come occasione e non come un problema spinoso le cui soluzioni si pongono non di rado in contrasto con esigenze e aspirazioni sociali.

Che l’alternativa possa difficilmente essere rappresentata nel campo progressivo da riedizioni del blairismo all’interno della sinistra, inclusa quella italiana, sta il fatto che esso ha sostanzialmente rappresentato un adeguamento alla vittoria del neoliberismo di stampo thatcheriano e reaganiano degli anni ottanta con l’inserimento di paletti nel campo del sociale. Per le ragioni esposte sopra anche una riedizione del blairismo soffrirebbe forzatamente delle stesse criticità del neoliberismo. Dovesse il leader laburista Keith Starmer, vincere come si prevede al momento le prossime elezioni nel Regno Unito, si troverà di fronte a questa complicazione.

È opinione dello scrivente che i democratici americani mostrino in linea di principio quale sia la direzione da seguire sebbene abbiano finora solo potuto attaccare, per motivi di aritmetica parlamentare, il tema delle uscite dello stato e non quello delle entrate. Il tema fiscale è un capitolo al momento incompiuto – ma rimane passaggio obbligato così come lo è per tutti i paesi avanzati dell’occidente rivedendo le politiche di alleggerimento delle imposte perseguite nel passato a particolare vantaggio dei ceti ricchi.  

PAR – 23.07.2023




Soluzione spagnola per i contratti di lavoro italiani? Così pensa Schlein

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Didascalia: Le parti sociali il giorno della firma dell’accordo sulla “reforma laboral” del 2021. In primo piano il presidente del governo, Pedro Sanchez, a destra la ministra del lavoro, Yolanda Díaz

Uno dei temi toccati sovente da Schlein durante la campagna elettorale è stato quello dell’introduzione anche in Italia di regole che riducano la possibilità dell’uso dei contratti a tempo determinato rendendo di default quelli a tempo indeterminato così come è avvenuto in Spagna con l’approvazione della “Reforma laboral” (l’ennesima: circa una trentina di provvedimenti legislativi si sono succeduti dalla fine degli anni settanta) a ridosso del Capodanno con il Real Decreto-ley 32/2021 del 28.12.2021. Ragione della fretta era quella di arrivare in tempo per assicurarsi l’utilizzo di 10 dei 140 mrd di euro del fondo NextGenerationEU destinati al paese iberico.

L’accordo tripartito tra le parti sociali, caso raro nel passato (l’ultima volta fu nel 2006 in un’occasione significativamente meno importante), fu siglato dopo lunghe ed estenuanti trattative e coronato dall’assenso finale delle varie organizzazioni sul filo di lana dopo l’astensione di una parte di quelle padronali mentre gli organi deliberanti delle parti sindacali principali (CCOO e UGT) si espressero all’unanimità. L’approvazione della legge a pochi giorni di distanza in Parlamento avvenne con lo scarto di un solo voto (175 contro 174) al termine di furiose contestazioni a causa di errori tecnici avvenuti in fase di votazione.

Data l’importanza della legge al fine di dare una struttura più stabile ai rapporti di lavoro riducendo il fenomeno del precariato è interessante esaminare gli aspetti salienti della riforma spagnola e i risultati acquisiti finora in modo da avere un’indicazione sull’opportunità di un’applicazione anche nel nostro paese. A questo proposito è bene ricordare che la Spagna si contraddistingue storicamente per un alto tasso di disoccupazione (attualmente a circa il 13%) e una bassa frequenza dei contratti a tempo indeterminato (vedi grafici), ancor più dell’Italia – ragione in più per prestare attenzione ai dettagli delle misure in materia di lavoro introdotte in tale paese.

A parte altri aspetti, anch’essi importanti, relativi fra l’altro a una revisione dei contratti formativi, alle frodi in materia di lavoro (tra cui: false dichiarazioni di lavoro autonomo), all’aumento del salario generale minimo al 60% di quello medio spagnolo (SMI – “salario minimo interprofesional” ora fissato per il 2023 a € 1.080/mese) nonché alla cancellazione di misure introdotte dal governo Rajoy nel 2012 quali la subordinazione dei contratti nazionali a quelli aziendali, la limitazione a un anno della loro efficacia temporale oltre la scadenza in mancanza di nuovo accordo (la cosiddetta “ultraactividad”, ora nuovamente illimitata) e l’assoggettamento dei subcontratti al contratto nazionale del subcontrattante, la parte centrale della legge delega è dedicata a un riordino della contrattualistica del lavoro.

Con la nuova legge è stato introdotto il principio secondo il quale il contratto di lavoro sia per definizione a tempo indeterminato a meno di situazioni definite che permettono l’utilizzo di accordi a termine ora ristretti a due soli tipi avendo abolito il contratto d’opera (“por obra y servicio”): a- per motivi di sostituzione di altri lavoratori su base temporanea e b- per motivi strutturali con due varianti, ovvero per temporaneo fabbisogno “prevedibile” di breve durata o “imprevedibile” per improvvise necessità dell’impresa come picchi della produzione. È qui da notare l’esplicita intenzione del legislatore di contenere la tipologia contrattuale.

La durata dei contratti a termine è stata significativamente ridotta così come il numero dei loro possibili rinnovi: il primo tipo di cui sopra a una durata complessiva di 90 giorni in un anno, anche non consecutivi, e il secondo a una durata massima di 90 giorni rinnovabile più volte fino al massimo totale di un anno. È interessante ricordare che il precedente contratto d’opera poteva essere rinnovato fino a una durata totale di ben tre anni, quattro in determinate circostanze.

Come chiave di volta di tutta l’architettura si considera dipendente fisso il lavoratore che negli ultimi 24 mesi è stato impiegato per almeno 18 mesi (precedentemente: 30 e 24 mesi rispettivamente).  

Per quanto riguarda la formazione si prevedono solo due tipi contrattuali. Il primo di carattere duale (“formativo en alternancia” di lavoro e istruzione) e di durata da tre mesi a due anni con limite di età per il percettore a 30 anni (precedentemente: 25) e il secondo “per l’ottenimento di pratica professionale” con una durata massima di un anno (precedentemente: 2).  

I dati relativi alla disoccupazione, in leggera riduzione dal 13,3% nel dicembre 2021, all’epoca dell’approvazione della legge, al 13% lo scorso gennaio, e quindi senza i pesanti aumenti paventati dall’opposizione sembrano dare ragione al governo spagnolo dopo che il rapporto tra nuovi contratti a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato ha subito una radicale riduzione dal 90% circa al 50 – 60% in seguito all’introduzione della nuova legge di riforma. La percentuale dei contratti a tempo indeterminato in essere sul totale dei contratti ha raggiunto ultimamente quasi l’80% con un aumento di circa quattro punti percentuali in un solo anno.

È da segnalare che la spinta del mercato del lavoro verso la conclusione di contratti a tempo indeterminato è facilitato dalla legittimità in Spagna del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (“despido objetivo”) dovuto a cause “economiche, tecniche, organizzative o della produzione” (art. 52, Estatuto de los Trabajadores) ove esse, tranne la prima, non sono collegate di necessità a una situazione di crisi del datore di lavoro e sono sufficienti a giustificare il licenziamento che quindi non risulta “abusivo” se determinate forme e condizioni sono rispettate. In tale caso il licenziamento è legittimo (“procedente”) e il lavoratore ha diritto a un risarcimento che dipende dalla sua anzianità di impiego secondo uno schema a tutele crescenti. Ma anche quando le condizioni non sono rispettate e il licenziamento è pertanto giudicato illegittimo (“improcedente”), il datore di lavoro ha la scelta tra la reintegra e il pagamento di un indennizzo salariale ulteriore da corrispondere al lavoratore per il periodo della sua disoccupazione fino alla sentenza del tribunale o, se precedente, a una nuova occupazione (cosiddetto “salario de tramitación”).

Non vi sono attualmente discussioni in Spagna su un ampliamento dell’applicazione della reintegra che è obbligatoria solo nel caso di dichiarazione di nullità del licenziamento per atto discriminatorio o attentato contro diritti e libertà fondamentali della persona. Le richieste sindacali (un ricorso del sindacato UGT è al momento pendente presso il Comitato europeo dei diritti sociali riguardo al licenziamento improcedente) riguardano in prevalenza l’ottenimento di più alti indennizzi per il lavoratore, che il governo Rajoy portò nel 2012 a 20 giorni di salario (33 nel caso improcedente) per ogni anno di anzianità con un massimo di 12 anni. Si tratta effettivamente di valori decisamente inferiori a quelli applicati in genere in Italia (un salario mensile per anno di anzianità aziendale con un massimo di 36 anni e un minimo di 6).

Pur essendo ancora presto per un giudizio compiuto sui benefici dall’introduzione in Spagna dell’obbligatorietà del contratto a tempo indeterminato, salve situazioni ben definite e relativamente ristrette, si può concludere sulla base dei dati finora disponibili (per quanto in mancanza di informazioni sull’andamento dei litigi) che un miglioramento apprezzabile della protezione del lavoratore dipendente possa essere atteso e che sia più che opportuna una riflessione in merito anche nel nostro paese. Da considerare pure è la semplificazione della tipologia dei contratti come perseguito in Spagna con beneficio anche per le funzioni di controllo del mercato.




„It’s the economy, stupid“, negli USA come da noi

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Tutto sembra indicare che i democratici USA riusciranno alla fine a salvare di giustezza la loro pelle dall’assalto del GOP nelle attuali elezioni di medio termine – diciamo meglio: per questa volta, poiché un reazionario insidioso al pari di Desantis già scalpita dietro le quinte. Molti commentatori hanno lodato, dopo un incerto altalenarsi di opinioni, la scelta del partito blu di puntare principalmente sui temi dei diritti e della minaccia impedente sulla democrazia USA evitando per quanto possibile uno scomodo confronto sul tema dell’economia. Io dubito fortemente di questa interpretazione. Non perché non sia convinto del fatto che i temi di cui sopra siano stati, nella somma dei fattori, determinanti ma perché, malgrado l’eccezionalità dei tempi, avremmo dovuto aspettarci un fallimento elettorale senza appello dei repubblicani solo per il fatto di cavalcare tesi palesemente menzognere a sostegno di qualcuno che ha tentato un vero e proprio colpo di stato, un precedente inaudito per la democrazia americana. Ciò mostra in realtà, a parte evidenti problemi connessi alla diffusione e accettazione di fake news e di teorie cospirative, quanto peso abbiano i temi economici presso gli elettori nelle considerazioni di voto. I repubblicani li hanno usati come argomento principale, accanto a quello della criminalità, nella loro campagna contro i democratici – questo in una situazione in cui il partito al governo ha mostrato evidenti difficoltà a trasmettere quanto di positivo sia stato fatto dall’amministrazione in carica nei suoi due anni di governo a dispetto di due crisi di vaste proporzioni e gravi conseguenze innestate dalla pandemia del Covid e dall’invasione russa dell’Ucraina1.

Un’altra dimostrazione lampante di quanta importanza abbiano i temi economici in una contesa elettorale ci è stata fornita recentemente dalle elezioni presidenziali brasiliane ove un’inattesa svolta congiunturale positiva, sostenuta dall’accelerazione di un depredamento dissennato delle risorse naturali, ha mancato per poco di premiare un personaggio altamente tossico come Bolsonaro contro Lula da Silva, un avversario dato per favorito e dalle comprovate qualità democratiche malgrado la penalizzazione derivante da passate vicende di corruzione – vedi in particolare lo scandalo del lava jeto.

Che l’elettore usi sovente linguaggi diversi quando parla e quando vota è cosa conosciuta, mostrandosi particolarmente sensibile alle ragioni del portafoglio nella seconda situazione. Il fatto che valga il detto „It’s the economy, stupid“ come ripetevano gli strateghi della campagna elettorale di Clinton nel 1992, consci dell’importanza di presentarsi competenti in materia di economia, non dovrebbe però scandalizzare chi premia gli aspetti etici rispetto ai temi di bassa pianura dato che dalla capacità di un paese di creare reddito e progresso economico dipende anche il soddisfacimento di una domanda sociale in costante aumento a fronte di cambiamenti radicali delle strutture produttive dell’economia e della necessità, drammatica ed esistenziale per l’umanità intera, di salvare l’habitat in cui viviamo.

Questa semplice ma fondamentale constatazione vale naturalmente anche nel nostro paese e dovrebbe guidare quanti chiedono, con molte ragioni, una ridefinizione della politica e del posizionamento del Partito democratico. Come potrebbero infatti condurre a durature vittorie elettorali programmi in cui si privilegiano l’affermazione di legittimi diritti e una migliore redistribuzione di un reddito che rimane tuttavia condannato a stagnare e a rimanere modesto – questo in una situazione ove non solo la spesa sociale ma tutto il grande resto, dall’ambiente e l’energia fino all’insegnamento e le infrastrutture inclusa la sanità, reclama interventi forti? Tra i numerosi esempi: come procedere senza adeguate risorse al tanto necessario dispiegamento di un reddito di cittadinanza nella riqualifica e ricollocazione dei senza lavoro? Il solo confronto tra la spesa annua in tale campo in Germania (SGB II) e in Italia (Rdc) – rispettivamente nel 2020 e 2021: € 44 mrd. e € 9 mrd. – offre un’indicazione plastica della dimensione del problema e del compito di fronte al quale si trova il nostro paese.

Non può essere ripetuta abbastanza l’osservazione secondo la quale buona parte delle difficoltà nell’ultimo ventennio dei governi italiani e con essi del PD, per quanto ne facesse effettivamente parte, sono dipese dalla mancanza di risorse dovuta principalmente alla crescita carente dell’economia che ha invariabilmente limitato gli interventi. La dimostrazione al contrario può essere cercata nel periodo del centro-sinistra degli anni ’80, per lungo periodo a direzione socialista con Bettino  Craxi, allorché si scelse, in presenza di tassi di interesse ben più alti di oggi e di un forte rallentamento della crescita economica, la strada della spesa generando un’impennata dell’indebitamento pubblico rispetto al PIL da poco oltre il 60% all’inizio del decennio a ben oltre il 90%, raggiungendo poi il 120% con il primo governo Berlusconi nel 1995 (vedi grafico). Ciò costrinse, anche in vista della creazione dell’euro al tempo dell’Ecu, a una robusta frenata, compito non invidiabile che toccò principalmente, dopo la breve parentesi „tecnica“ di Dini con l’appoggio esterno del PDS, ai governi di sinistra, a cominciare dal Prodi I mentre i governi Berlusconi si comportarono sostanzialmente da comparse in contraddizione con i loro stessi proclami. Si tratta di un filo rosso che ha accompagnato la politica italiana fino ad oggi legando la sinistra, non solo moderata, al ruolo dell’attore prudente nella spesa pubblica danneggiandone l’immagine presso il proprio elettorato.

Detto in maniera metaforica: la crescita dell’economia deve essere vista come la benzina che permette al motore della società di muoversi verso una ripartizione più equa del reddito attraverso una politica sociale avanzata. In una situazione, come in Italia, di bassa crescita, alto indebitamento dello stato – ora tanto più pesante a causa di tassi di interesse in salita – e alta imposizione fiscale la libertà di movimento è particolarmente limitata per un governo in termini economici e proibitiva in termini politici. A meno di una riduzione della spesa pubblica – preferito campo di gioco dei conservatori che chiudono volentieri il rubinetto di quella sociale – ogni impegno finanziario aggiuntivo dello stato non può che essere sostenuto da nuove imposte ove il nostro paese ha già raggiunto livelli molto elevati. Questi ne fanno un percorso periglioso dove è, e sarà difficile, trovare maggioranze in futuro.

Poiché sono di „tutti“, questi problemi influiranno pesantemente anche sulle azioni del presente governo di destra che si troverà a dovere rispettare promesse fatte in campagna elettorale senza avere lo spazio finanziario di manovra necessario. Lo vediamo già in questi giorni nell’estenuante ricerca di una quadra con i pochi fondi disponibili che finisce in un esercizio di elargizione di sostegni in piccole dosi, non di rado destinati a gruppi ristretti di beneficiari come l’aumento dei „fringe benefits“ a € 3mila per un solo anno cui possono attingere secondo alcuni calcoli solo 2,5 milioni di cittadini, o destinati a un successo assai scarso come quota 41 con il vero e mezzo taciuto intento di rinviare di un anno l‘urgente riforma del sistema pensionistico – una manovra che sembra ironicamente fatta apposta per limitare la spesa dato che il cosiddetto tiraggio – ad esempio secondo le previsioni della Cgil – dovrebbe essere basso a causa dell’entità della rinuncia di reddito per chi esercita l’opzione così come è già stato per quota 102. Per il resto siamo nell’attesa di misure spicciole e dedicate prevalentemente alla clientela di destra, in particolare a elementi della piccola borghesia e bottegai, tra cui una flat tax in un’edizione bislacca „FdI“ e condoni fiscali contrabbandati come elementi di una „pace sociale“ in una situazione in cui l’evasione ricomincia a salire in alcuni settori (dettaglio significativo in questo contesto: il „tax gap“, ovvero il rapporto tra le imposte percepite e quelle potenziali, riguardo all’Irpef ha raggiunto nel 2021 presso i lavoratori autonomi e le imprese ben il 68,3% – !!; fonte: „Relazione sull’evasione fiscale“ presentata lo scorso 5 novembre)

Per il resto non si possono cogliere presso la coalizione di governo, neanche nelle riflessioni alla base delle misure da programmare, espressioni autentiche di linee guida per un miglioramento della dinamica economica e della produttività nonché formulazioni, aliene alla coalizione di destra, di un nuovo indirizzo della fiscalità e della contribuzione sociale meno sperequante con il fine principale di garantire in prospettiva a ogni residente in Italia (e non solo a chi ha la cittadinanza!) un’esistenza dignitosa e vivibile.

Se da questo lato non si può essere ottimisti, quanto detto dovrebbe però anche significare un’occasione imperdibile per la sinistra di contrastare l’azione del governo attraverso un messaggio puntuale e organico mobilitando le proprie risorse e gli esperti dei vari settori ad essa vicini, ad esempio già in vista del congresso del PD in fase di organizzazione. Non solo: ma si potrebbe immaginare di dare forma a un „governo ombra“ sul modello britannico con il compito di perseguire un contraddittorio serrato e continuo trasportando il proprio messaggio mediante l’utilizzo dei moderni mezzi di comunicazione. Le conferenze programmatiche annuali potrebbero fornire l’occasione puntuale in questo contesto per un confronto delle posizioni al fine di una loro conferma o modifica, anche profonda.

I temi da affrontare in campo economico, senza trascurare quelli di valenza più spiccatamente sociale che qui non menziono, sono assai vasti e vanno da una ridefinizione del ruolo dello stato nell’economia (nel senso di stimolo anche finanziario delle attività economiche ma sostanzialmente fuori dalle logiche di intervento gestionale diretto se non in particolari situazioni di interesse pubblico) con un rafforzamento e ammodernamento delle sue strutture (tra l’altro soggette da anni a un blocco indiscriminato delle assunzioni con conseguenze altamente negative nel tempo), un aumento della popolazione attiva (in Italia la seconda più bassa in Europa), una ripresa degli investimenti, privati e pubblici, incluso un maggiore impulso alla creazione di nuove attività imprenditoriali, fino a misure più indirette e a lungo termine come l’ammodernamento e il rafforzamento dell’istruzione (in particolare, ma non solo, di quella terziaria ove il ritardo dell’Italia è statisticamente più sensibile) e al completamento della riforma dell’ordinamento e sistema giudiziario.

Qualcuno si potrà mostrare contrariato di fronte a una tale lista, soprattutto se vede l’aspetto redistributivo tra le classi in cima alle priorità secondo il principio per il quale a maggiori salari corrispondono minori guadagni per il capitale senza altra considerazione particolare in merito al livello del reddito nazionale. Riconoscendo la validità del concetto di interessi tra loro contrastanti tra lavoro e capitale, soprattutto a livello microeconomico, preferisco lasciare qui da parte altre considerazioni – in particolare sull’importanza centrale della funzione nell’economia della domanda effettiva di derivazione keynesiana – per evitare di cominciare discussioni teoriche. Richiamo però l’attenzione ancora una volta (sperando nella comprensione di chi legge e ringraziando) sul profondo significato, per un partito che aspira a una leadership di governo, della svolta di Bad Godesberg della socialdemocrazia tedesca allorché sostenne la trasformazione del partito di classe („Klassenpartei“) in un partito del popolo („Partei des Volkes“)².  Chi governa ha il compito di pensare alla totalità del paese verso il quale esercita la propria responsabilità senza peraltro rinnegare né le proprie origini storiche né i suoi obblighi verso le classi da cui proviene la propria base elettorale e che verrebbero in realtà danneggiate da una visione esclusivamente particolaristica della politica.

1  Il governo USA ha varato in questi ultimi due anni misure importanti e ingenti nell’ambito di una agenda globale „ Build Back Better“ che comportano una spesa totale nei prossimi dieci anni pari a US$ 3,8 bilioni e che comprendono cinque misure chiave:

  1. American Rescue Plan per contrastare la pandemia
  2. Infrastructure Investment and Jobs Act a sostegno della base economica del paese
  3. Inflation Reduction Act a sostegno della spesa sociale e a protezione dell’ambiente
  4. Chips and Science Act per il miglioramento della competitività dell’economia
  5. Buy American Regulations a protezione dell’industria statunitense

„Die Sozialdemokratische Partei ist aus einer Partei der Arbeiterklasse zu einer Partei des Volkes geworden“ (SPD, Godesberger Programm – 1959)

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Autore: Alessandro Arena 

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