1

L’attacco allo stato sociale in Germania: il caso notevole del Bürgergeld

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Si stanno moltiplicando, nel contesto politico tedesco, attacchi contro l’intero sistema previdenziale perché troppo generoso. In tali attacchi politici conservatori giungono a proporre una generale riduzione della spesa sociale per permettere, in particolare, maggiori investimenti. Ciò è anche una logica conseguenza del loro rifiuto di considerare una sospensione o una revisione della legge di freno all’indebitamento pubblico (Schuldenbremse) che è tra le più rigide e restrittive in circolazione. In tal senso, ad esempio, si è apertamente espresso Mathias Middelberg, vicepresidente della frazione dell’Unione al Bundestag durante il dibattito parlamentare sulla legge di bilancio lo scorso 30 gennaio ponendo apertamente e senza mezzi termini un’infausta e improvvida alternativa tra investimenti e spesa sociale.

Come ha recentemente osservato su Die Zeit Marcel Fratzscher, presidente del DIW: “Ormai solo di rado lo stato sociale viene considerato come parte integrante di una democrazia e di un’economia di mercato funzionanti. Al contrario, costi e organizzazione dello stato sociale vengono presentati come uno dei grandi problemi economici e politici del nostro tempo… e si prospettano riduzioni pesanti delle prestazioni sociali come l’unica soluzione per permettere gli investimenti necessari per il futuro della nostra economia.” Non si può essere più d’accordo con queste parole alle quali l’autore aggiunge una constatazione importante: “Quasi tutti i fatti contraddicono tale narrativa.” Il che implica anche che l’opposizione dei conservatori non si cura della statistica e dei dati economici mostrando di avere assorbito la lezione trumpiana preferendo ai discorsi ragionati il gioco delle frasi ad effetto in un richiamo a istinti elementari degli elettori. In tale ottica il beneficiario della spesa sociale viene visto principalmente come un approfittatore che ruba risorse economiche alla società e costringe lo stato a imporre imposte esose – il mito discutibile della Germania dalle imposte e spesa sociale elevate nel confronto con altri paesi. Di ciò mi riprometto di parlare un’altra volta, sempre sulla base di fatti ed evidenze.

Per quanto riguarda il Bürgergeld è opportuno come prima cosa contestare la falsa affermazione secondo la quale chi lavora si trova economicamente svantaggiato rispetto a chi è senza occupazione e percepisce il sussidio. Ciò rappresenterebbe, secondo i sostenitori di tale tesi, un forte ostacolo all’integrazione del non occupato nel mondo del lavoro per la mancanza di un sufficiente stimolo economico nella ricerca di un’occupazione. Tra i vari esempi e in un coro a più voci, Casper Linnemann, segretario della CDU e responsabile di un recente programma del partito assai ritrito e presentato come grande novità, è giunto ad affermare circa un anno fa in televisione presso Maybrit Illner l’enormità secondo la quale chi prende il Bürgergeld arriva ad avere in tasca mensilmente fino a 800 euro netti più di chi è occupato a parità di situazione familiare. L’incauta iperbole di Linnemann si basava, per sua sfortuna, su calcoli errati di uno studio dell’IfW che dovette essere celermente ritirato dalla circolazione a pochi giorni dalla sua pubblicazione dopo che un’ondata di contestazioni aveva travolto gli autori.

Numeri corretti possono essere trovati sul sito del Portal Sozialpolitik, che è stato tra i principali affossatori dello studio dell’IfW, e qui sintetizzati in un confronto che copre in modo sufficientemente rappresentativo la complessa casistica assumendo una remunerazione della persona occupata a tempo pieno più bassa possibile sulla base del salario minimo (Mindestlohn).

Come si può facilmente constatare, anche nel caso in cui l’occupato sia remunerato ai minimi di mercato sulla base del MIndestlohn e una sola persona sia occupata nel caso di una coppia, il delta del reddito netto (detto “Lohnabstand”) è chiaramente a favore della persona occupata. È importante osservare qui che nei casi in cui il delta risulta negativo (nella tabella: coppia senza prole e genitore single con un figlio) interviene il meccanismo compensatore del sussidio integrativo (“Aufstockung”), pure parte del Bürgergeld e inopinatamente trascurato nello studio non più disponibile dell’IfW, che si aggiunge al reddito da lavoro in modo da ristabilire una differenza positiva rispetto al reddito netto del percettore del Bürgergeld. Tale misura compensatrice fu introdotta con l’Hartz IV nel 2005, quando ancora non esisteva il salario minimo, al fine di assicurare che, in linea di principio, la differenza di reddito non sia negativa a sfavore dell’occupato.

È bene osservare che in generale gli istituti economici non seguono il parere dei politici dell’Unione su questo punto – così ad esempio Andreas Pichl, direttore presso l’istituto Ifo: „Quanto dicono alcuni politici secondo cui chi vive esclusivamente di prestazioni sociali riceva netto più di chi lavora con un basso salario è semplicemente falso.”

Rimane naturalmente aperto il quesito soggettivo se la differenza positiva dei redditi disponibili a favore dell’occupato non sia troppo ridotta e demotivante poiché “lavorare non conviene”. Mi limito qui a osservare che il quesito è assai mal posto se la diagnosi è che beneficiario del Bürgergeld è trattato troppo generosamente. Chiederei quindi a coloro che sostengono tale posizione per quale ragione non siano invece i salari stessi a essere bassi e sovente così bassi da trovarsi sotto il “livello minimo di vita rispettoso dell’individuo” (“menschenwürdiges Existenzminimum” che discende dall’art. 1 Grundgesetz – sentenza 05.09.2009 del Primo Senato, Corte Costituzionale) obbligando alla concessione di un introito compensativo sotto forma di Bürgergeld.  

La discussione si è fatta ancora più accesa successivamente al forte aumento per il 2024 del sostegno base del Bürgergeld, +12% rispetto all’anno precedente. Molti contestano tale aumento in considerazione del notevole rallentamento in corso dell’inflazione e a fronte dell’aumento molto più contenuto del salario minimo (+3,4%). Tale ragionamento non tiene però conto del fatto che i due meccanismi di determinazione sono profondamente diversi. Il secondo meccanismo segue nell’adeguamento del salario minimo le raccomandazioni di una commissione di esperti che agisce sulla base dell’evoluzione attesa dell’economia, ovvero di una previsione, mentre il primo contempla un adeguamento a posteriori sulla base per il 70% di un paniere di beni rappresentativo del livello di vita dei percettori di Bürgergeld (che viene rivisto ogni cinque anni, l’ultima volta nel 2021) e per il 30% dell’incremento dei salari. Il ritardo insito in questo meccanismo nel trasmettere le variazioni, positive o negative, dell’inflazione aveva causato nel 2022 una sensibile perdita di potere di acquisto per i percettori del Bürgergeld, come evidenziato nel grafico 2. Volendo quindi evitare il ripetersi di una situazione simile si è introdotto dal 2023 un secondo fattore nel calcolo dei sussidi al fine di accelerare la trasmissione della dinamica dei prezzi. Tale fattore aggiuntivo è basato sulla rilevazione dell’inflazione dell’ultimo trimestre disponibile nel momento della determinazione, ovvero nella seconda metà di ogni anno, del sussidio per l’anno a venire. Ciò ha tuttavia provocato per il 2024, in seguito a un’inversione del trend dell’inflazione nel corso del 2023, un eccesso nell’incremento dei sussidi, inversamente a quanto avvenuto, come detto sopra, nel 2022. È qui fondamentale ricordare che accelerazioni del sussidio oltre il livello calcolabile a posteriori sulla base di dati effettivi vengono compensate nel calcolo dell’anno successivo grazie a una neutralizzazione dell’eccesso dell’anno precedente. In tal senso le varie richieste di riduzione del sussidio avanzata dall’Unione (Merz era giunto a richiedere semplicemente un’assai problematica sospensione dell’aumento) trovano automaticamente risposta grazie al meccanismo di calcolo senza intervento esterno. Il caso opposto si verifica nel caso di un’accelerazione dell’inflazione.

Il seguente grafico mostra (fonte: H. Schäfer, C. Schröder, S. Seele: “Bürgergeld und Preisentwicklung”, iW) come la dinamica del Bürgergeld nel periodo 2020-2024 sia rimasta in modo continuativo inferiore a quella dei prezzi del paniere con la sola eccezione notevole dell’anno in corso che, come detto sopra, troverà correzione in futuro con la conseguenza che non si attendono al momento aumenti del Bürgergeld per l’anno prossimo. Non sembra pertanto realistico e consigliabile, come raccomanda anche l’iW, di procedere a interventi ad hoc sotto la pressione degli eventi. Consigliabile è invece procedere a una revisione del meccanismo di calcolo a ulteriore riduzione della sua inerzia tuttora eccesiva che può favorire (nel caso di riduzione dell’inflazione dopo l’aggiornamento dei sussidi, come nel caso attuale) o sfavorire (nel caso contrario di aumento dell’inflazione) i beneficiari a seconda della situazione.

GRAFICO 1 – Andamento cumulato degli aumenti del Mindestlohn e del Bürgergeld (caso della persona single), 2020-2024

Linea rossa: Bürgergeld, single; linea blu: Mindestlohn; linea continua: indice prezzi paniere Bürgergeld

Per procedere a una valutazione economica del Bürgergeld è però bene analizzare come i sussidi si siano sviluppati nel tempo a partire dell’introduzione di Hartz IV nel 2005, a cui si è sostituito il Bürgergeld dall’inizio del 2023, ricordando che il paniere di beni di consumo e di servizi del Bürgergeld è stato determinato tenendo come riferimento la situazione di rischio povertà fissato a due terzi del reddito disponibile mediano. L’andamento del sussidio base calcolato in termini reali utilizzando per semplicità l’indice dei prezzi al consumo (grafico 2) mostra che il suo percettore non abbia sostanzialmente partecipato all’aumento di benessere della popolazione tedesca. L’Indice raggiunge un valore di solo +4,3% in termini reali alla fine del 2023 rispetto all’inizio del periodo. Il 2024 mostrerà a dicembre un insolito balzo verso l’alto che verrà riassorbito successivamente, come spiegato sopra.

GRAFICO 2

Il seguente grafico evidenzia come la dinamica del Bürgergeld sia rimasta sostanzialmente al di sotto di quella ben superiore del prodotto lordo e del reddito disponibile, entrambi pro capite. La differenza tra l’indice del PIL pro capite e quello del sussidio base (linea gialla) raggiunse il valore massimo nel 2022 con un notevole +40% rispetto all’inizio del periodo.

GRAFICO 3

L’andamento del carico per l’erario dal momento dell’introduzione di Hartz IV a oggi evidenzia, grazie a una sostanziale riduzione degli aventi diritto fino al 2021 e alla crescita più veloce del PIL rispetto al Bürgergeld come detto sopra, una progressiva riduzione dell’impatto percentuale della spesa imputabile al SGB II (Codice di sicurezza sociale, libro II) sul bilancio statale. Tale spesa include, oltre al Bürgergeld in senso stretto (precedentemente: Hartz IV), i costi per le misure di politica attiva del lavoro associate e quelli della relativa amministrazione. È importante notare come i rapporti rispetto sia al PIL sia alla spesa pubblica totale mostrino un trend alla riduzione per tutto il periodo di riferimento malgrado gli aumenti in valore assoluto a partire dal 2012, da € 40,0 mrd a € 46,8 mrd con un incremento medio annuo dell’1,4% solamente. Si comprende facilmente come i politici dell’Unione amino fare riferimento nei loro discorsi ai valori assoluti della spesa tacendo sul quadro d’insieme che contraddice la loro argomentazione contro un costo ritenuto proibitivo del Bürgergeld.

GRAFICO 4

Il grafico seguente mostra infine come il recente aumento degli aventi diritto al Bürgergeld, dopo un periodo di continua riduzione, sia relativamente modesto evidenziando alla fine dell’anno scorso un livello non superiore a quello prepandemico e quindi assolutamente non tale da giustificare gli allarmi lanciati da molte parti.

GRAFICO 5

La logica delle argomentazioni dell’Unione mostra ancora di più la corda se si considera che il recente incremento degli aventi diritto dal 2021 deriva fondamentalmente dall’afflusso di migranti dall’Ucraina (0,7 milioni di aventi diritto ucraini al Bürgergeld nell’ottobre 2023 su un totale di 5,5 milioni circa) – un afflusso che in realtà con l’aiuto della perfida Russia minaccia di apportare all’economia tedesca almeno parte di quei lavoratori di cui ha sempre più bisogno e la cui ritardata integrazione è in buona parte da ricondurre alla scelta del governo di dare priorità all’apprendimento della lingua rispetto all’avvio nel mondo del lavoro, differentemente da quanto deciso in altri paesi europei. Come sappiamo il governo tedesco ha recentemente corretto in modo opportuno la sua decisione.

Sulla base delle informazioni di cui sopra è difficile comprendere la richiesta portata avanti in particolare da Caspar Linnemann di abrogare (“abschaffen”) il sistema attuale del Bürgergeld – soprattutto se si considera che i rappresentanti stessi dell’Unione hanno elogiato apertamente in un passato non tanto remoto l’introduzione di Hartz IV, di cui il Bürgergeld rappresenta un’evoluzione. Il modo estremo con cui Linnemann e altri avanzano la loro richiesta sorprende ancora di più se si considera che l’Unione votò compatta con un solo voto contrario a favore della legge istitutrice del Bürgergeld il 25 novembre del 2022. Il fatto che l’Unione abbia appoggiato fra l’altro, durante il percorso della legge, il meccanismo di calcolo in seno alla Commissione di conciliazione parlamentare (Vermittlungsauschuss) è un ulteriore dettaglio significativo (vedi ad es. Tagesschau, 8 settembre 2023).

È interessante notare che in assenza di proposte concrete da parte dell’Unione riguardo all’introduzione di un nuovo sistema in luogo del Bürgergeld a parte puntate miranti a restringere flessibilità nel rifiuto di offerte di lavoro o a una riduzione degli aventi diritto, soprattutto con riguardo ad altre nazionalità, la linea di fuga dell’Unione contempla in vario modo una spinta diretta a un maggiore impiego dei senza lavoro e a modifiche dell’imposizione fiscale a favore dei già occupati con il fine di accrescere l’attrattività dell’occupazione – ciò ad esempio attraverso l’esenzione di determinate prestazioni come quelle in giorni festivi o gli straordinari. È un dato di fatto, fra l’altro, a spiegare le giravolte dell’Unione, che riduzioni sistematiche del Bürgergeld sono difficilmente immaginabili anche solo per il più che probabile conflitto con le disposizioni del Grundgesetz cui si accenna sopra.

Esemplare per l’indeterminatezza di molti degli interventi dei rappresentanti dell’Unione è quello di Mathias Middelberg, vicepresidente della frazione democristiana al Bundestag e particolarmente impegnato nelle questioni che riguardano la tematica delle finanze dello stato, durante un’intervista concessa lo sorso 18 gennaio a Cicero e di cui riprendo integralmente una risposta:

Domanda: Dove vedrebbe risparmi con il fine di alleggerire il carico sui cittadini tedeschi?
Risposta: Risparmi sul Bürgergeld e dal tema asilo. La spesa legata al Bürgergeld che è la posizione di bilancio che più velocemente cresce non viene quasi toccata attualmente. Nel frattempo 44 miliardi di euro vengono spesi ogni anno per il Bürgergeld, un euro su dieci nel bilancio pubblico. Qui si deve girare la barra in modo deciso. Non si tratta di togliere qualcosa alle persone più povere ma di portare più gente nel mondo del lavoro.
Quattro milioni di beneficiari del Bürgergeld sono abili al lavoro e potrebbero lavorare. Se riuscissimo ad avviare al lavoro anche soltanto un milione di queste persone che sono in linea di principio abili al lavoro riusciremmo a generare tra Bürgergeld risparmiato e maggiori introiti fiscali e previdenziali fino a trenta miliardi circa di euro per le casse dello Stato.”

Middelberg viene da molti ritenuto un ottimista in merito al potenziale di impiego degli aventi diritto al Bürgergeld. Non solo la Germania è riuscita a incrementare il tasso di occupazione dal 2010 dal 69,7% al 77,4% nel 2023 figurando oggi tra i primi della classe ma gli stessi numeri del Burgergeld non farebbero intravedere il potenziale che Middelberg scorge. Secondo calcoli del DIW solo 1,7 milioni di persone circa, un numero assai inferiore a quello immaginato dall’esponente della CDU, sono in linea di principio potenzialmente a disposizione per un’assunzione di qualche tipo, previa riqualifica o meno.

Da ultimo è importante rilevare quanto possano essere diverse le concezioni per una sicurezza sociale di base (“Grundsicherung”). Mentre l’introduzione del Bürgergeld ha avuto come fine principale quello di mettere in maggiore risalto rispetto ad Hartz IV la funzione di riqualifica e ricollocazione del non occupato (ad esempio attraverso l’abolizione del Vermittlungsvorrang che obbligava all’interruzione del processo di riqualifica in caso di un’opportunità di lavoro per quanto limitata nel tempo) l’Unione vede in esso, così come la Presidente del Consiglio italiana, uno strumento di aiuto per persone impedite nell’esercizio di un lavoro. Come Carsten Linnemann ha detto non molto tempo fa alla Süddeutsche: “Lo stato sociale deve essere presente per le persone che sono realmente bisognose, che non possono lavorare… In futuro ognuno che può lavorare e riceve sussidi dovrà accettare un’offerta di lavoro entro i sei mesi o lavorare in volontariato.” Inoltre: “Chi non vuole lavorare non lo deve fare – ma non può poi attendersi che la comunità assuma i suoi costi.” È significativo e sintomatico che i temi, fra i tanti trascurati, di una maggiore efficienza dei Job-Centers tedeschi e dei processi di riqualifica non vengano affrontati in molti dei discorsi che sentiamo.

Non si può che ripetere la considerazione di Marcel Fratzscher: “Quasi tutti i fatti contraddicono tale narrativa” (dei partiti conservatori).

03.03.2024




Stellantis, i posti di lavoro e l’illusione dell’italianità. Che fare?

Immagine. 1960, quando l’auto italiana era innovazione: trazione anteriore, motore boxer a cilindri contrapposti montato di sbalzo, freni a disco sulle quattro ruote a doppio circuito, servosterzo, iniezione diretta (modello successivo).

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Sull’importante e un tempo economicamente più importante fronte dell’automobile le notizie non sono buone in Italia. Ciò spinge molti suoi politici a intervenire con forza e a colorare non di rado la realtà – anche usando fraseologie prese da un passato che si sperava dimenticato. Questo approccio confonde le cose e impedisce una riflessione matura e oggettiva. Così Meloni, facendo la voce grossa come sua abitudine anche quando ha solo scartine in mano, pesca nel passato remoto ed esige un’italianità nella produzione di auto che non esiste più in un mondo in cui la globalizzazione significa di necessità una ripartizione delle funzioni produttive a scavalcare i confini nazionali: “Se si vuole vendere auto sul mercato internazionale pubblicizzandola come gioiello italiano allora quell’auto deve essere prodotta in Italia questa la questione che dobbiamo porre”, rivolgendosi a Stellantis il 24 gennaio. In realtà vetture con il marchio Fiat vengono prodotte in modo crescente fuori dal nostro paese così come si costruiscono in Italia auto di altri marchi del gruppo Stellantis cui Fiat appartiene. Non solo: così come i modelli concorrono fra di loro sul mercato così anche gli impianti di uno stesso gruppo, disseminati in vari paesi, rivaleggiano al suo interno per la produzione dei veicoli sulla base della rispettiva efficienza produttiva. Ragionamenti analoghi valgono presso i fornitori dell’indotto. A mescolare ancora di più le carte, i marchi stessi sono divenuti, col crescere dell’agglomerazione in grandi gruppi, moduli indipendenti tra i fattori che fanno un prodotto e diventano intercambiabili a seconda del mercato. La nuova Fiat 600 elettrica, ad esempio, utilizzerà una piattaforma Peugeot e verrà prodotta in Polonia.

Coerentemente con il desiderio di “italianità” – anche il nome di un ministero è stato modificato in questo senso – potremmo attenderci in un futuro prossimo che si richieda, analogamente a quanto avvenuto in America con il trattato USCMA (ex-NAFTA), l’introduzione di quote minime di contenuto nazionale per i veicoli malgrado la complessità della realizzazione e gestione di una misura in tal senso in un contesto europeo caratterizzato da un grande numero di paesi relativamente piccoli che hanno fra l’altro un potenziale ridotto di verticalizzazione produttiva.

Senza dimenticare che tali tentativi sarebbero in Europa assai problematici già solo in considerazione del principio di libera di circolazione di persone fisiche, merci, servizi e capitale che è sancito per legge comunitaria (art. 63, Trattato sul funzionamento UE), occorre considerare che condizionamenti nazionali, o meglio nazionalistici, andrebbero inevitabilmente a detrimento della logica industriale e quindi della redditività delle case automobilistiche europee complicando fortemente la loro situazione in un mercato mondiale dove la difficile conversione verso nuove tecnologie unitamente alla preannunciata entrata massiccia dei produttori cinesi metteranno in prospettiva a dura prova la loro resilienza. La globalizzazione nel mondo dell’automobile è destinata a restare e per ragioni di necessità economica non si farà senz’altro più debole.

Altrettanto difficile è il tema dell’assetto azionario del gruppo Stellantis, anch’esso preso di mira dai critici, ove non pochi si dicono pubblicamente favorevoli al perseguimento da parte dello stato italiano dell’obiettivo di esercitare un’influenza politica sulle sue decisioni strategico-operative. In tale ottica si prospetta con enfasi un’entrata dello stato italiano nell’azionariato di Stellantis a bilanciare quella dello stato francese detenuta attraverso Bpi – un investimento che, secondo alcune veloci stime, potrebbe costare al nostro erario più di sei miliardi di euro se le due partecipazioni statali dovessero essere paritarie. Per tale ipotesi si pronuncia un ampio coro di voci che va da rappresentanti di governo (Meloni: “Si prenda sul serio l’ipotesi di una partecipazione italiana a Stellantis che bilanci quella francese”; Urso: “Noi vogliamo difendere l’interesse nazionale, instaurare un rapporto equilibrato con Stellantis.”) e dell’opposizione (Schlein:  “Si studi concretamente la strada della partecipazione pubblica per incidere sulla strategia aziendale”) ad esponenti sindacali (Landini/CGIL: “Gli incentivi di per sé non risolvono e c’è bisogno di una logica di intervento più forte. In Francia è presente lo Stato. Torniamo a chiedere che anche lo Stato italiano entri. Lo chiediamo da tempo.” mentre altri sono invece restii come Bombardieri/UIL: “Come si fa a sostenere di vendere un pezzo di Poste e poi comprare un pezzo di Stellantis?”)

Apparentemente vi è difficoltà a riconoscere che Stellantis è una società quotata con un azionariato internazionale e che va attentamente vagliata la fattibilità dell’entrata nella proprietà di uno stato in una situazione non di crisi – come fu invece nel caso dello stato francese in PSA – e per di più con il fine scoperto di esercitare influenza a favore di soli “interessi nazionali”, per quanto con la motivazione che si spererebbe non di facciata a protezione dell’occupazione, con tutte le immaginabili complicazioni nei confronti di numerosi terzi, inclusi i governi di altri paesi europei che ospitano anch’essi unità operative del gruppo Stellantis e che potrebbero avere interessi antagonistici a quelli dello stato italiano. In tal senso una sua partecipazione nel capitale di Stellantis potrebbe avere ripercussioni negative per gli stessi intenti originari che derivano da un palese conflitto di interessi – già esistente con la partecipazione dello stato francese.

Ci si dovrebbe attendere invece che ci si occupi in cima a tutte le priorità del tema relativo all’attrattiva degli investimenti in Italia e, in questo caso particolare, nel settore dell’auto e si risponda al quesito chiave riguardo allo stato di salute di FCA e, in particolare, delle strutture produttive in Italia ex-Fiat al momento della fusione con PSA. Si comprenderebbe allora diversamente il senso delle parole della Presidente del Consiglio allorché denunciò il 24 gennaio “la pretesa fusione con il gruppo francese PSA che nascondeva in realtà l’acquisizione della parte francese del gruppo storico italiano.” – il che, fra l’altro, non sembra necessariamente vero sulla base dei rapporti di proprietà che vede la famiglia Agnelli attraverso la finanziaria Exor controllare come azionista di maggioranza relativa il 23,1% dei voti degli azionisti di Stellantis contro l’11,1% della famiglia Peugeot e il 9,6% dello stato francese. È inoltre problematico parlare di “gruppo italiano” a proposito di FCA allorché nel momento della fusione la componente operativa italiana non poteva essere detta preponderante nel gruppo.

Concentrando l’attenzione per amore della brevità sui siti produttivi italiani occorre innanzitutto riconoscere con atto di sincerità che la loro difficile situazione attuale non è che il risultato di un declino in atto da tempo. Questa vede oggi la componente “italiana” chiaramente in posizione fortemente più debole in termini di capacità operativa rispetto a quella “francese” che ha una chiara superiorità già solo nel campo della tecnologia e della capacità progettuale.

Quando Elkann si attivò per trovare un accordo con PSA dopo un primo tentativo fallito con Renault, il gruppo FCA con Fiat, penalizzato da tempo da un cash-flow troppo debole per permettere un flusso stabile e concorrenziale di nuovi prodotti, si trovava in piena ritirata che era cominciata in modo conclamato  con la decisione significativa alla fine degli anni novanta di concentrarsi sull’offerta di auto medio-piccole (2 piattaforme, quella A della Panda-Uno e quella B delle Stilo-Ritmo) riservando alla gamma media-superiore il compromesso di una piattaforma B allungata che significò il declino definitivo per marchi come Alfa e Lancia, costruttori acquistati a suo tempo da Fiat prevalentemente a protezione del proprio mercato domestico contro i concorrenti stranieri. I loro modelli furono costretti a condividere con effetto negativo non solo l’architettura ma anche l’impiego di componenti di qualità modesta con il resto della produzione del gruppo di gamma più bassa.

Mentre il mercato si muoveva in una logica di trading-up, come ad esempio i produttori tedeschi, il gruppo Fiat si ritrovò in un trading-down scegliendo per costrizioni economiche di ritirarsi sostanzialmente su un segmento del mercato caratterizzato da bassi margini di profitto e concorrenza crescente, in particolare da parte dei paesi asiatici che possono vantare velocità di progettazione e realizzazione di nuovi modelli superiori a quelle dei concorrenti europei. Il deperimento graduale del know-how, ove ancora negli anni ’90 vi erano validi capisaldi come il common-rail nel settore dei motori diesel, trovò infine l’epilogo in un matrimonio con PSA, che veniva da una rincorsa coronata da un discreto successo nei confronti dei concorrenti tedeschi e che otteneva nella fusione, come accennato sopra, la leadership in termini di strategia, obiettivi e tecnologia in virtù di un migliore posizionamento in termini di risorse e di prodotto. È importante tenere presente che, oltre a quote di mercato e la presenza negli Stati Uniti con Chrysler, tra gli asset della Fiat figuravano le unità produttive in Brasile, Polonia e Turchia – ma non quelle in Italia ove la ripresa produttiva dopo il 2015 fu dovuta principalmente all’introduzione di modelli Jeep e Chrysler, tra cui i SUV, che andarono a attivare, almeno parzialmente, la capacità produttiva non utilizzata. Per questo motivo l’intelligente mossa di Marchionne con il matrimonio con Chrysler del 2014 può essere vista essa stessa come un’altra manifestazione di debolezza avendo tra gli obiettivi l’innesto, senza il peso di costi di progettazione, di nuovi prodotti nel flusso anemico dei veicoli al di fuori della piccola e media cilindrata.

La situazione si è fatta rispetto ad allora ancora più problematica e foriera di nuovi rischi per tutti i produttori europei, inclusi quelli tedeschi – questo in particolare dal momento dell’avvento sul mercato dell’auto elettrica, incluso l’ibrido. Qui il gruppo Stellantis si trova in ritardo rispetto alla concorrenza mentre si teme un’invasione di prodotti cinesi a basso prezzo e prestazioni concorrenziali, soprattutto nell’elettrico. Le fabbriche italiane di Stellantis sono svantaggiate da bassa efficienza e fanno la figura dei vasi di coccio, in particolare Mirafiori, mostrando utilizzazioni della capacità produttiva al di sotto di altri siti di produzione del gruppo Stellantis. Non è un caso che nei programmi del gruppo per l’Italia concordati nel 2021 sia prevista la produzione di quattro modelli di gamma medio-superiore e di progettazione transalpina che grazie a un maggiore margine di contribuzione permettono di sostenere un’intensità di costi di produzione più elevata, almeno per un periodo transitorio.

Di fronte alla necessità di contribuire alla risoluzione di una situazione compromessa permettendo anche un mantenimento soddisfacente dell’occupazione lo stato italiano è chiamato a un impegno che favorisca, nell’ambito di una strategia di politica industriale oggi evanescente, il miglioramento delle condizioni di investimento e gestione imprenditoriale individuando insieme ai costruttori un ruolo delle loro attività nell’auto che permetta un futuro e non meri sussidi “a perdere” in aree in crisi. I campi di intervento possono spaziare dall’istruzione e dalla riqualifica professionale e ricollocamento a tutte le condizioni quadro come l’approvvigionamento di energia stabile e a prezzi concorrenziali, un’infrastruttura efficiente dei trasporti, adeguate norme ambientali e altri elementi portanti di un sistema produttivo senza dimenticare gli importanti aspetti relativi all’amministrazione, incluso un adeguato sistema fiscale e del diritto. L’intervento finanziario dovrebbe avere in tale prospettiva il fine principale di dare impulso e sostenere l’innovazione e l’investimento in campi tecnologicamente avanzati (come ad esempio nel settore delle batterie e dell’impiego dell’idrogeno) – non secondo modelli che ricordano la filosofia di almeno parte delle defunte partecipazioni statali italiane indirizzate al mantenimento di attività, come si diceva un tempo, “decotte” e caratterizzate dalla prospettiva di una probabile perdita sostanziale se non totale di valore. Tale è anche il senso delle raccomandazioni nei suoi libri della Mazzucato che alcuni interpretano invece come una dichiarazione a favore dell’intervento statale in veste di imprenditore che dovrebbe essere riservata a casi nell’ambito dei servizi pubblici o attività produttive di particolare criticità.

In tale ottica si inserisce la contrattazione, pure serrata, sul mantenimento di posti di lavoro, anche con un supporto da parte dello stato nelle situazioni in cui esso è essenziale e uno sviluppo economicamente positivo dell’intervento è da attendersi. Non consigliabili sono in tali contesti atteggiamenti apertamente antagonistici, come manifestato ripetutamente da alcuni nei giorni passati. Essi potrebbero compromettere l’attrazione del nostro paese come destinazione di investimenti rivelandosi controproducenti per l’occupazione che altrimenti si vuole giustamente preservare ed espandere.




Incontro sul futuro dell’Europa

Incontro sull’evoluzione dell’Europa il 9 gennaio 2024 al bar Creme Caramel a Berlino. Grazie a chi anche in ibrido ha contributo ad alimentare le riflessioni su come contribuire ad una campagna elettorale che possa arginare le preoccupanti derive autoritarie. Inoltre, un grazie di cuore a Pierantonio Rumignani, il nostro iscritto che ha rilanciato la discussione. Di seguito una sintesi.




Può essere il 70%+ dei francesi in errore? “Ni”, ma non “no”, anche considerando l’interesse dei ceti meno abbienti

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Sul piano dei principi democratici la risposta è delle più semplici: è temerario e ingiustificabile che un Presidente della Repubblica nel suo ruolo “esecutivo” si sovrapponga alla volontà della maggioranza della propria popolazione, mettendo nell’angolo il potere legislativo attraverso l’uso formalistico della sfiducia in Parlamento per evitare il voto (ma non suona noto a noi italiani?). Ancora una volta, fra l’altro, tocchiamo con mano i problemi insiti in ogni sistema presidenziale, sempre preso dalla necessità di trovare un equilibrio tra i vari poteri dello Stato – negli USA come in Francia. Se poi il Presidente ha allures regali e sembra trovare gusto nell’affermazione di sé e del proprio ruolo nel paese dei sollevamenti popolari, tra jacqueries oscurantiste e giacobinismo sanculotto, le proteste anche violente non si fanno attendere.

Ma c’è una seconda ragione che parla a favore di una risposta positiva al quesito: ogni paese è libero di scegliere il proprio tenore di vita distribuendo le risorse tra presente e futuro, decidendo tra l’altro del livello delle proprie pensioni. Se è vero che la Francia presenta dati statistici particolari è pure vero che ciò riflette preferenze che non possono essere messe in discussione – ma attenzione: a meno di contraddizioni che rimangono sovente sconosciute al normale cittadino perché nascoste tra le pieghe delle statistiche o anche perché più o meno incoscientemente rimosse per la loro scomodità. In tale caso una discussione si impone, soprattutto se a lungo termine i possibili perdenti sono i ceti meno abbienti.

È da considerare inoltre che le preferenze dei cittadini francesi si sono profondamente modificate negli ultimi decenni. Un’indagine condotta per la Fondation Jean Jaurès mostra come l’attività lavorativa sia scesa drammaticamente in termini di priorità di vita: dal 60% nel 1990 al 24% trenta anni dopo mentre il valore del tempo libero è salito di dieci punti percentuali dal 31% al 41%. Ciò non deve sorprendere considerando che lo stress sul lavoro è costantemente aumentato nel tempo accompagnandosi a una stagnazione dei redditi nei quartili più bassi portando a numerose manifestazioni collegate alla “great resignation”, ovvero al fenomeno dell’abbandono del posto di lavoro da parte dei lavoratori subordinati per scelta di vita.  

Che i tempi siano cambiati dimostra anche un paragone con quanto avvenuto al tempo della riforma Balladur, ministro del governo Mitterand, che portò nel 1993 il numero minimo degli anni contributivi da 37,5 a 40 senza incontrare praticamente opposizione. Ancor meno difficile fu il caso della precedente legge Boulin sotto Pompidou nel 1971 che portò gli anni contributivi in modo drastico da 30 a 37,5. In realtà, come più volte ricordato dai giornali nei giorni scorsi, il cuore francese batte per la legge Auroux, ministro del governo Mitterand, che nel 1983 ridusse l’età pensionistica da 65 a 60 anni con 37,5 anni contributivi. Occorre tuttavia ricordare qui un dettaglio importante che gioca ancora oggi un ruolo importante nella critica alla riforma Macron di questi giorni: fine centrale delle misure di Auroux era la riduzione della disoccupazione, in particolare di quella giovanile, che si era acuita fortemente negli anni settanta, attraverso un pensionamento più rapido, misura dal successo assai contestato sulla base dei rilievi statistici generalmente deludenti successivi all’introduzione di tali norme. Oggi il tema del prepensionamento non sembra avere più l’importanza di allora, allorché, sempre in Francia, esso rappresentava fino a un quarto dei nuovi pensionamenti. Il prepensionamento porta alla rinuncia di know-how importante nelle aziende – oggi un grave problema.

La Francia è un paese in cui la decisione consolidata negli anni è chiaramente quella di un sistema sociale generoso e ad alto costo che include un’età particolarmente bassa di pensionamento come il grafico seguente mostra (la statistica dell’OECD distingue purtroppo tra uomini e donne senza la stima di una media – l’andamento del grafico relativo alle donne non è dissimile).

Non solo l’età di pensionamento è particolarmente bassa rispetto ad altri paesi, ma il tasso di sostituzione (la percentuale della pensione sull’ultimo stipendio percepito) è tra i più elevati così come la spesa pensionistica in rapporto al PIL è inferiore solo a Grecia e Italia inquadrandosi in uno schema di alta spesa sociale, la più elevata dei paesi coperti dalle statistiche dell’OECD.

Il problema – non solo riguardo alla Francia – si riduce in sostanza, per quanto detto sopra, al quesito sulla sostenibilità nel tempo del sistema a ripartizione che è basato in Francia, come da tempo anche in Italia, sui contributi prestati e non sul reddito percepito. Qui le opinioni divergono nel paese transalpino anche se si fa universalmente riferimento alle previsioni prodotte annualmente dall’organismo indipendente di saggi COR – Conseil d’Orientation des Retraites, in un lungo rapporto di circa 350 pagine che esamina in modo particolarmente dettagliato i parametri che determinano la spesa pensionistica sulla base di molteplici fattori che vanno da quelli relativi al contesto demografico e all’andamento della popolazione attiva fino all’evoluzione della produttività del lavoro per la quale vengono sviluppate quattro ipotesi, in un ventaglio che va da un aumento medio dello 0,7% all’1,6% annuo in un orizzonte temporale fino al 2070 sull’ipotesi di un tasso medio della disoccupazione del 7%.

Il seguente grafico del Rapporto 2022 del COR – in cui l’andamento della spesa pensionistica in relazione al PIL si stabilizza dopo il 2035 senza che tale rapporto superi il picco avuto nel 2021 a causa del Covid – mostrerebbe che l’allarmismo da parte del governo sia fondamentalmente ingiustificato.

Grafico 1 – Spesa pensionistica come percentuale sul PIL – 2000-2070

Tuttavia, analizzando le ipotesi alla base delle proiezioni, le cose si fanno più complicate – e non solo perché l’espansione prevista del monte pensioni dell’1,8% annuo è ben più veloce dell’aumento della spesa pubblica totale dello 0,6% sulla base del Programma di stabilità del governo (PSTAB) 2022-2027 ove la spesa per le pensioni rappresenta attualmente circa un quarto degli impegni dello stato francese. Di fatto si prevede da qui al 2032, sulla base del regime attuale contributivo, un aumento dell’incidenza della spesa sul PIL dal 13,8% al 14,7%, pari al picco del 2021, nel 2035 secondo l’ipotesi più pessimista dell’andamento della produttività (0,7% all’anno) per poi restare sostanzialmente costante, sempre in tale ipotesi, o addirittura in riduzione nelle altre. Il governo prevede che il saldo del bilancio pensionistico, ancora positivo nel 2021 per circa € 900 milioni (entrate: € 346 mrd; uscite: € 345 mrd) diventi negativo fino a raggiungere € 21,2 mrd nel 2035.

Per quanto riguarda il grafico della spesa pensionistica occorre osservare quanto segue – ove l’ultimo punto appare di particolare importanza:

  1. L’andamento orizzontale della curva pensionistica nel periodo 2022-27 è fortemente influenzata dall’ipotesi di una riduzione al 5% del tasso di disoccupazione prevista dal Programma di stabilità – previsione che può apparire ottimista se confrontata con il livello storico della disoccupazione in Francia, per lo più al di sopra dell’8% a partire dall’anno 2000. In modo più prudente il COR prevede per il periodo successivo un riassestamento della disoccupazione al 7%. In ragione di una eventuale mancata riduzione della disoccupazione la curva della spesa pensionistica riprenderà l’andamento verso l’alto prima del 2027 producendo deficit sostanzialmente maggiori di quelli programmati.

Grafico 2 – Tasso annuo medio di disoccupazione 2000-2021 (fonte: OECD)

  • I dati statistici di questo secolo indicano per la Francia un aumento medio della produttività del lavoro al di sotto dello 0,7% (0,43% nel periodo 2010-2021 e 0,57% nel periodo 2000-2021; fonte: OECD). Il ventaglio delle ipotesi del Rapporto COR appare quindi tendenzialmente ottimistico e la curva futura della percentuale della spesa pensionistica sul PIL potrebbe ritrovarsi comodamente sopra quelle mostrate nel grafico.
  • In conseguenza del progressivo aumento del minimo degli anni di contribuzione a 43 (riforma Touraine del 2014, governo Hollande) è in atto un ulteriore aumento previsto dell’età effettiva media di pensionamento (media generale – base diversa rispetto a quella del grafico precedente) da 62,4 anni nel 2022 a 63,7 anni verso la metà del prossimo decennio. Senza tale movimento la curva del grafico 1, già più bassa per un aumento indipendente della popolazione attiva francese (OECD: 80,8% sulla popolazione in età da lavoro nel 2022; + 3,5% circa rispetto all’anno 2000), sarebbe maggiormente inclinata verso l’alto contribuendo a un maggiore carico della spesa pensionistica sul PIL.

Grafico 3 – Età media di pensionamento

  • Con la legge Balladur del 1993 il sistema pensionistico pubblico francese, a differenza ad esempio di quelli vigenti in Germania e Italia, passò da una rivalutazione delle pensioni correnti sulla base dell’andamento dei salari a quello sulla base dell’inflazione. Ciò ha significato la continuazione della difesa delle pensioni in termini reali ma privandole della partecipazione all’aumento della produttività del lavoro. Ciò avrà una forte incidenza in futuro in un confronto con il livello di reddito lordo delle persone attive. Nel periodo considerato dalla proiezione del COR ciò significherà, sulla base della presente legislazione, una consistente riduzione relativa delle pensioni ben di più di un quinto rispetto ai salariati al termine del periodo di previsione nell’ipotesi meno positiva dell’evoluzione della produttività (+0,7%).

Grafico 4 – Pensione media in rapporto al reddito medio della popolazione attiva

Ciò significa, come mostrato dal successivo grafico 5, che il tenore di vita dei pensionati, che aveva raggiunto quello del resto della popolazione all’inizio del secolo per poi mantenere il livello raggiunto, si ridurrebbe sensibilmente in futuro nel confronto relativo.

Garfico 5 – Tenore medio di vita dei pensionati come percentuale di quello medio della popolazione

Sulla base del veloce esame dei dati statistici possiamo quindi dire in conclusione:

  1. Le proiezioni del COR mostrano la possibilità di un sostanziale contenimento del carico della spesa pensionistica a lungo termine anche senza l’introduzione di ulteriore legislazione, per quanto a un livello elevato sul PIL. Un incremento apprezzabile nel prossimo decennio è comunque da attendersi. È bene ricordare che in assenza dei numerosi interventi regolatori del passato l’incidenza della spesa pensionistica sul PIL sarebbe oggi superiore di ben circa il 4% (corrispondendo a un aumento di circa un terzo del deficit) rispetto al livello attuale secondo i calcoli del COR.
  2. Il COR attira l’attenzione sul fatto che le variabili in questione così come i parametri di intervento sono molteplici e non facili da predire rendendo più che possibili scostamenti del deficit pensionistico, anche sostanziali rispetto alle proiezioni elaborate. Queste possono inoltre apparire ottimistiche in alcune aree sulla base delle serie storiche come osservato sopra contribuendo ulteriormente all’incertezza.
  3. Il precario equilibrio della spesa pensionistica è stato “comprato” sostanzialmente con l’aggancio delle pensioni alla sola inflazione senza partecipazione, neanche parziale, all’aumento dei salari (come in Germania e Italia) comportando in prospettiva un impoverimento degli anziani rispetto al resto della popolazione. In ogni caso, la forte pressione che nasce dalla inesorabile riduzione verso la parità numerica dei contributori rispetto ai percettori di pensione rimane una fonte imprevedibile di incertezza.

Di fronte a questo scenario Macron decise verso la fine dell’anno scorso di spingere per una (da lui considerata) urgente riforma del sistema pensionistico elevando, in particolare, l’età minima per la pensione da 62 a 64 anni, anticipando l’aumento del periodo minimo contributivo da 42 a 43 anni (già previsto dalla legge Touraine) e aumentando la pensione minima all’85% dello SMIC (salario minimo) nonché prospettando una semplificazione dei numerosi regimi pensionistici esistenti (se ne contano ben 42 più una varietà di regimi complementari e supplementari). Le conclusioni esposte sopra, oltre la ben conosciuta e crescente avversione dei cittadini francesi verso ulteriori riforme pensionistiche, rendono difficile da comprendere l’urgenza della scommessa di Macron che ha fatto della riforma delle pensioni il punto focale della sua battaglia politica contro la Nupes di Mélenchon e il Rassemblement National di Marine Le Pen senza avere cercato e trovato un appoggio presso i sindacati, in particolare della CFDT, la maggiore organizzazione francese per numeri di iscritti. Tale sindacato è stato più che sovente in passato la sponda per i governi nei numerosi processi di modifica del sistema pensionistico.

L’interpretazione più ovvia della scelta di Macron, che non era riuscito in un primo tentativo quattro anni fa, complice il Covid, è quella di spiegare la mossa con il calcolo di formare direttamente una maggioranza in parlamento assieme ai conservatori moderati e in particolare ai repubblicani provocando una sconfitta clamorosa delle opposizioni. Altre interpretazioni attirano inoltre l’attenzione sul fatto che questo è l’ultimo mandato per Macron come Presidente della Repubblica e che questo lo abbia potuto indurre a osare di più.

La pessima comunicazione e la mancanza di dialogo, caratteristiche della persona Macron, hanno tuttavia fatto passare in secondo piano ogni obiettivo merito delle misure proposte. Il risultato è stato il compattamento dell’opposizione e dei sindacati spostando l’accesa discussione sulla persona di Macron e sullo stesso sistema presidenziale francese dato che il provvedimento è stato fatto passare in modo provocatorio ponendo la fiducia secondo l’art. 49.3 della Costituzione e senza sottoporlo quindi al voto dei deputati. Si è trattato di una fuga in avanti viste le difficoltà di trovare il consenso sperato dei partiti conservatori per raggiungere una maggioranza alla Camera dei deputati.

Le critiche rivolte al piano di riforma di Macron dalla sinistra vertono principalmente sull’aumento degli squilibri già esistenti. Prendendo l’economista Piketty1 come portavoce autorevole di tali critiche e senza dimenticare che il motore principale della “piazza” appare rappresentato dal semplice rifiuto di un allungamento della vita lavorativa, queste si concentrano sull’aumento delle diseguaglianze causato dalla nuova legge a vantaggio di chi ha più ricchezza. I divari dei tassi di contribuzione aumentano conseguentemente all’incremento del periodo contributivo poiché ciò va maggiormente a carico di coloro che entrano più presto nel mercato del lavoro e quindi di chi ha meno. La maggiore età legale di pensionamento significa inoltre che il rischio di povertà aumenti per chi è esposto maggiormente all’eventualità di licenziamento in età matura ma ancora relativamente lontana dal pensionamento. A correzione del sistema attuale Piketty suggerisce l’introduzione di un sistema universale in sostituzione dei numerosi regimi attuali sulla base della concessione della pensione piena in dipendenza solamente del numero degli anni di versamento, di una maggiore progressività operando su una differenziazione del tasso di sostituzione e di una maggiore giustizia incrementando la progressività dei contributi.

Nel riportare sull’opposizione generalizzata alla riforma di Macron molti commentatori fanno riferimento al fronte comune mostrato in questo frangente dai sindacati francesi2. In realtà la loro posizione originaria non è la medesima sulle pensioni, anche se l’intersindacale (organo informale comune dei sindacati) ha recentemente serrato i ranghi in seguito ai crescenti contrasti con l’amministrazione. La CFDT ad esempio, il maggiore sindacato francese per numeri di iscritti, aveva fatto intendere più volte in passato di essere disponibile a discutere una soluzione pensionistica universale con un sistema a punti e un possibile aumento della vita lavorativa in considerazione dell’allungamento della speranza di vita (così il segretario, Laurent Berger, nel suo discorso all’apertura del congresso di metà dell’anno scorso – posizione poi corretta in fase di discussione). Su questo approccio Macron aveva segnalato interesse, così come era avvenuto quattro anni fa al primo tentativo di riforma del suo governo, e molti avevano atteso in questa tornata una sua intesa di massima con la CFDT – cosa che non si è poi realizzata.

È utile a questo punto confrontare le posizioni ufficiali dei due sindacati maggiori, CFDT e CGT in merito a una riforma del sistema pensionistico.

La proposta avanzata questo mese dalla CGT3 può essere riassunta semplicemente come una serie di misure mirate ad allargare la base di contribuzione, in gran parte “a spese del capitale”:

  1. Aumento generalizzato dei salari, tra cui incremento del salario minimo a € 2.000 (oggi: € 1.709,28)
  2. Assunzione di 200.000 nuovi dipendenti da parte dello stato, di cui la metà nella sanità
  3. Assunzione di 100.000 persone nell’economia privata conseguente alla riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore
  4. Abolizione delle esenzioni esistenti al pagamento di contributi sociali
  5. Assoggettamento dei redditi da capitale, in particolare dei dividendi4, al pagamento di contributi sociali
  6. Assoggettamento alla contribuzione, sia per i salariati che per gli imprenditori, dei redditi da lavoro attualmente esenti (in generale: tutte le forme di interessamento all’impresa dei dipendenti)
  7. Aumento delle quote contributive

Si tratta di un programma radicale pensato principalmente in chiave di antagonismo tra reddito da lavoro e reddito da capitale che si ripartiscono un valore aggiunto fondamentalmente dato e dove la quota destinata ai lavoratori può essere aumentata a spese dall’altra senza conseguenze apparenti per la produzione di ricchezza. Tale approccio che propone misure a forti dosi sembra fare a meno di considerazioni sugli effetti macroeconomici. Questi porterebbero senza dubbio, fra altre conseguenze relative al PIL, a minori investimenti, contrariamente a quanto sostenuto in un brevissimo passaggio del documento. Interventi perequativi del reddito sarebbero in realtà molto più indicati nel contesto dell’imposizione diretta poiché essi avverrebbero in un ambito più generale e organico.  

Di tutto altro tono è la proposta della CFDT4, concentrata su una profonda ristrutturazione del sistema che preveda l’introduzione di un conteggio a punti5 mantenendo peraltro i diritti acquisiti fino all’introduzione della riforma, un’opportuna calibrazione dei parametri a favore dei redditi più bassi e dei curricoli dominati da lavori pesanti (ovvero della cosiddetta “pénibilité”) così come la possibilità di un passaggio graduale alla pensione implicando anche, con una cessazione progressiva dell’attività, la possibilità di un cumulo di reddito da lavoro e pensione. Punti importanti sono inoltre l’universalità del sistema, implicando anche una soluzione all’annoso problema dei regimi speciali (ad esempio a favore dei ferrovieri), e la dinamizzazione del valore dei punti sull’andamento dei salari e non più dell’inflazione.

Malgrado i contrasti sanguigni nella popolazione e la complessità del tema alcuni punti possono essere avanzati senza particolare timore di ritrovarsi in errore:

  • La bassa età di pensionamento in Francia è l’espressione di una preferenza della popolazione, almeno al momento attuale. Un’età superiore di pensionamento non è tuttavia necessariamente associata a lesioni di diritti acquisiti, a meno di voler santificare la ormai lontana legge Auroux (1982, governo Mitterand) come molti fanno. In un paese socialmente avanzato come la Svezia, tra gli esempi dei paesi nordici, l’età media effettiva di pensionamento è di 66 anni circa – per non scomodare gli stakanovisti giapponesi che sono a 68 anni. È inoltre previsto in Svezia un adeguamento automatico dell’età pensionabile6 sulla base dell’andamento della speranza di vita, apparentemente un anatema per moltissimi francesi.
  • Le variabili di regolazione delle pensioni sono assai numerose e l’età di pensionamento è solo una di queste, anche se una delle più potenti. Rinunciando al suo utilizzo per riequilibrare il bilancio delle pensioni, come la Francia intende fare, significa sostituire il suo effetto con quello di altre meno efficaci – questo in una situazione ove uno dei problemi maggiori in prospettiva è quello del forte impoverimento dei pensionati relativamente al resto della popolazione sulla base delle disposizioni attuali. Questo tema è ben presente a sindacati quale la CFDT come mostrano le sue proposte.
  • Un ripensamento del sistema pensionistico francese al pari di altri paesi appare opportuno – in particolare nel caso si intenda eliminare alla radice il problema dell’età pensionabile flessibilizzando l’uscita dal mondo del lavoro e inserendo fasi intermedie tra lavoro a tempo pieno e pensione.
    La complessità e la forte incertezza delle proiezioni consigliano infine una profonda riforma in modo da rendere il sistema pensionistico più robusto contro andamenti negativi dell’economia, soprattutto se non previsti.
    L’introduzione inoltre di un sistema universale faciliterebbe grandemente una ricalibrazione più equa delle pensioni ove il sistema pensionistico deve essere visto in rapporto a tutte le altri leggi relative alla protezione sociale, in particolare con riferimento alla disoccupazione e al livello di reddito minimo.

Un’ultima osservazione sia concessa, malgrado, come detto sopra, le decisioni siano da prendere democraticamente a buona maggioranza: alcuni – tra cui il sottoscritto – ritengono che l’esercizio di un’attività produttiva per la società cui si appartiene faccia parte del contratto sociale che la governa. A costoro sembra logico e naturale che ad un aumento della vitalità delle persone in corrispondenza dell’allungamento della vita attesa debba fare seguito anche uno spostamento in là nel tempo della fine dell’età lavorativa.

PAR 31.03.2023

1 https://www.lemonde.fr/blog/piketty/2023/02/14/sortir-de-la-crise-des-retraites/

2 È significativo ricordare che i sindacati francesi derivano la forza della loro posizione contrattuale più dalla applicazione molto elevata dei contratti collettivi (copertura: 98% dei salariati – banca dati ILO; Italia: 99,0%) piuttosto che dal tasso di sindacalizzazione che è particolarmente basso (9% – banca dati ILO; Italia: 32,5%). I sindacati nazionali sono otto in Francia.

3  https://www.cgt.fr/actualites/france/retraite/mobilisation/la-cgt-propose-une-autre-reforme-du-systeme-des-retraites

4 Il taglio dell’approccio della CGT su questo punto è reso in modo plastico dalla frase seguente: “In modo più generale noi auspichiamo l’azzeramento dei dividendi o che essi almeno vengano ridotti a qualcosa di trascurabile” (De manière plus générale, nous souhaitons que les dividendes disparaissent ou au moins soient réduits à peau de chagrin). 

4 https://www.cfdt.fr/upload/docs/application/pdf/2023-02/tract_retraites_revendications _et_obtentions_ de_la_cfdt_-_pdf_avec_traits_de_coupe.pdf

5 Da accumulare nel periodo contributivo e da convertire in un livello pensionistico al momento del pensionamento – Piketty è favorevole invece a una soluzione non troppo dissimile con l’utilizzo di conti nozionali. Uno dei vantaggi di tali sistemi è che essi possono fare a meno dell’età pensionabile grazie alla propria flessibilità Un sistema a punti è già applicato alle pensioni supplementari (AGIRC – ARRCO).

6 In Svezia esiste fondamentalmente una forchetta d’età per il pensionamento tra un minimo di 62 anni e un massimo di 68 anni. L’importo della pensione viene cumulato nel tempo fino a un massimo di 8,07 volte il reddito base, nel 2022 pari a SEK 71.000 (SEK 1 = 0,089 €). È interessante notare che coloro che hanno redditi annui superiori a SEK 672.600 non hanno diritto alla pensione statale.




Soluzione spagnola per i contratti di lavoro italiani? Così pensa Schlein

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Didascalia: Le parti sociali il giorno della firma dell’accordo sulla “reforma laboral” del 2021. In primo piano il presidente del governo, Pedro Sanchez, a destra la ministra del lavoro, Yolanda Díaz

Uno dei temi toccati sovente da Schlein durante la campagna elettorale è stato quello dell’introduzione anche in Italia di regole che riducano la possibilità dell’uso dei contratti a tempo determinato rendendo di default quelli a tempo indeterminato così come è avvenuto in Spagna con l’approvazione della “Reforma laboral” (l’ennesima: circa una trentina di provvedimenti legislativi si sono succeduti dalla fine degli anni settanta) a ridosso del Capodanno con il Real Decreto-ley 32/2021 del 28.12.2021. Ragione della fretta era quella di arrivare in tempo per assicurarsi l’utilizzo di 10 dei 140 mrd di euro del fondo NextGenerationEU destinati al paese iberico.

L’accordo tripartito tra le parti sociali, caso raro nel passato (l’ultima volta fu nel 2006 in un’occasione significativamente meno importante), fu siglato dopo lunghe ed estenuanti trattative e coronato dall’assenso finale delle varie organizzazioni sul filo di lana dopo l’astensione di una parte di quelle padronali mentre gli organi deliberanti delle parti sindacali principali (CCOO e UGT) si espressero all’unanimità. L’approvazione della legge a pochi giorni di distanza in Parlamento avvenne con lo scarto di un solo voto (175 contro 174) al termine di furiose contestazioni a causa di errori tecnici avvenuti in fase di votazione.

Data l’importanza della legge al fine di dare una struttura più stabile ai rapporti di lavoro riducendo il fenomeno del precariato è interessante esaminare gli aspetti salienti della riforma spagnola e i risultati acquisiti finora in modo da avere un’indicazione sull’opportunità di un’applicazione anche nel nostro paese. A questo proposito è bene ricordare che la Spagna si contraddistingue storicamente per un alto tasso di disoccupazione (attualmente a circa il 13%) e una bassa frequenza dei contratti a tempo indeterminato (vedi grafici), ancor più dell’Italia – ragione in più per prestare attenzione ai dettagli delle misure in materia di lavoro introdotte in tale paese.

A parte altri aspetti, anch’essi importanti, relativi fra l’altro a una revisione dei contratti formativi, alle frodi in materia di lavoro (tra cui: false dichiarazioni di lavoro autonomo), all’aumento del salario generale minimo al 60% di quello medio spagnolo (SMI – “salario minimo interprofesional” ora fissato per il 2023 a € 1.080/mese) nonché alla cancellazione di misure introdotte dal governo Rajoy nel 2012 quali la subordinazione dei contratti nazionali a quelli aziendali, la limitazione a un anno della loro efficacia temporale oltre la scadenza in mancanza di nuovo accordo (la cosiddetta “ultraactividad”, ora nuovamente illimitata) e l’assoggettamento dei subcontratti al contratto nazionale del subcontrattante, la parte centrale della legge delega è dedicata a un riordino della contrattualistica del lavoro.

Con la nuova legge è stato introdotto il principio secondo il quale il contratto di lavoro sia per definizione a tempo indeterminato a meno di situazioni definite che permettono l’utilizzo di accordi a termine ora ristretti a due soli tipi avendo abolito il contratto d’opera (“por obra y servicio”): a- per motivi di sostituzione di altri lavoratori su base temporanea e b- per motivi strutturali con due varianti, ovvero per temporaneo fabbisogno “prevedibile” di breve durata o “imprevedibile” per improvvise necessità dell’impresa come picchi della produzione. È qui da notare l’esplicita intenzione del legislatore di contenere la tipologia contrattuale.

La durata dei contratti a termine è stata significativamente ridotta così come il numero dei loro possibili rinnovi: il primo tipo di cui sopra a una durata complessiva di 90 giorni in un anno, anche non consecutivi, e il secondo a una durata massima di 90 giorni rinnovabile più volte fino al massimo totale di un anno. È interessante ricordare che il precedente contratto d’opera poteva essere rinnovato fino a una durata totale di ben tre anni, quattro in determinate circostanze.

Come chiave di volta di tutta l’architettura si considera dipendente fisso il lavoratore che negli ultimi 24 mesi è stato impiegato per almeno 18 mesi (precedentemente: 30 e 24 mesi rispettivamente).  

Per quanto riguarda la formazione si prevedono solo due tipi contrattuali. Il primo di carattere duale (“formativo en alternancia” di lavoro e istruzione) e di durata da tre mesi a due anni con limite di età per il percettore a 30 anni (precedentemente: 25) e il secondo “per l’ottenimento di pratica professionale” con una durata massima di un anno (precedentemente: 2).  

I dati relativi alla disoccupazione, in leggera riduzione dal 13,3% nel dicembre 2021, all’epoca dell’approvazione della legge, al 13% lo scorso gennaio, e quindi senza i pesanti aumenti paventati dall’opposizione sembrano dare ragione al governo spagnolo dopo che il rapporto tra nuovi contratti a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato ha subito una radicale riduzione dal 90% circa al 50 – 60% in seguito all’introduzione della nuova legge di riforma. La percentuale dei contratti a tempo indeterminato in essere sul totale dei contratti ha raggiunto ultimamente quasi l’80% con un aumento di circa quattro punti percentuali in un solo anno.

È da segnalare che la spinta del mercato del lavoro verso la conclusione di contratti a tempo indeterminato è facilitato dalla legittimità in Spagna del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (“despido objetivo”) dovuto a cause “economiche, tecniche, organizzative o della produzione” (art. 52, Estatuto de los Trabajadores) ove esse, tranne la prima, non sono collegate di necessità a una situazione di crisi del datore di lavoro e sono sufficienti a giustificare il licenziamento che quindi non risulta “abusivo” se determinate forme e condizioni sono rispettate. In tale caso il licenziamento è legittimo (“procedente”) e il lavoratore ha diritto a un risarcimento che dipende dalla sua anzianità di impiego secondo uno schema a tutele crescenti. Ma anche quando le condizioni non sono rispettate e il licenziamento è pertanto giudicato illegittimo (“improcedente”), il datore di lavoro ha la scelta tra la reintegra e il pagamento di un indennizzo salariale ulteriore da corrispondere al lavoratore per il periodo della sua disoccupazione fino alla sentenza del tribunale o, se precedente, a una nuova occupazione (cosiddetto “salario de tramitación”).

Non vi sono attualmente discussioni in Spagna su un ampliamento dell’applicazione della reintegra che è obbligatoria solo nel caso di dichiarazione di nullità del licenziamento per atto discriminatorio o attentato contro diritti e libertà fondamentali della persona. Le richieste sindacali (un ricorso del sindacato UGT è al momento pendente presso il Comitato europeo dei diritti sociali riguardo al licenziamento improcedente) riguardano in prevalenza l’ottenimento di più alti indennizzi per il lavoratore, che il governo Rajoy portò nel 2012 a 20 giorni di salario (33 nel caso improcedente) per ogni anno di anzianità con un massimo di 12 anni. Si tratta effettivamente di valori decisamente inferiori a quelli applicati in genere in Italia (un salario mensile per anno di anzianità aziendale con un massimo di 36 anni e un minimo di 6).

Pur essendo ancora presto per un giudizio compiuto sui benefici dall’introduzione in Spagna dell’obbligatorietà del contratto a tempo indeterminato, salve situazioni ben definite e relativamente ristrette, si può concludere sulla base dei dati finora disponibili (per quanto in mancanza di informazioni sull’andamento dei litigi) che un miglioramento apprezzabile della protezione del lavoratore dipendente possa essere atteso e che sia più che opportuna una riflessione in merito anche nel nostro paese. Da considerare pure è la semplificazione della tipologia dei contratti come perseguito in Spagna con beneficio anche per le funzioni di controllo del mercato.




Abolizione del Jobs Act? Che fare con l’art.18?

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Da molte parti si richiede l’abolizione del Jobs Act e il più delle volte senza altra specificazione dimenticando che esso è costituito da ben otto decreti emessi nel 2015 a copertura di una vastissima area del diritto del lavoro. Gli strali riguardano sovente anche il principio stesso della “flexicurity” vista in modo erroneo come espressione del pensiero neoliberale mentre essa è nata già alla fine degli anni ottanta nei paesi scandinavi, in particolare in Danimarca, e nei Paesi Bassi (invito a leggere il rapporto della insospettabile Friedrich Ebert Stiftung: “Flexicurity: Ein europäisches Konzept und seine nationale Umsetzung”, aprile 2008). La flexicurity sta in realtà per una politica alla ricerca di un equilibrio tra protezione del lavoratore e flessibilità operativa delle aziende e, in tale contesto, di una divisione equilibrata dei costi sociali dell’occupazione tra impresa e mano pubblica. Il pensiero corre quindi subito al tema del sostegno alla disoccupazione, in particolare riguardo al caso di licenziamenti per motivi economici che è il vero pallino della discordia legato all’accantonamento (non abbiamo qui giuridicamente un’abrogazione – vedi oltre) dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori: in primo luogo in termini preventivi impedendo il licenziamento facile da parte delle aziende – fra l’altro, mediante l’imposizione ad esse di un costo associato sufficientemente elevato – e, in secondo luogo, attraverso un adeguato intervento dello Stato oltre a quello imposto alle imprese.

Che nel nostro paese si sia cercata la via della dissuasione forte nei confronti dell’economia in fatto di licenziamenti è un dato che è stato ammesso in passato anche dal sindacato. Non solo nel 2003 la stessa CGIL fece una proposta che prevedeva in determinate condizioni l’indennizzo del lavoratore, ma i suoi stessi segretari generali ebbero a dire come l’autorevole Lucio Lama in una famosa intervista condotta da Eugenio Scalfari nel lontano 1978: “C’è un certo numero di aziende che ha un carico di dipendenti eccessivo… Noi siamo tuttavia convinti che imporre alle aziende quote di manodopera eccedenti sia una politica suicida. L’economia italiana sta piegandosi sulle ginocchia anche a causa di questa politica.” e, più oltre “È una svolta di fondo. Dal ’69 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza lavoro…”. Per onestà di cronaca e a testimonianza della coerenza dell’intervistato occorre aggiungere che Lama si riferiva nell’intervista in particolare alle imprese in “difficoltà economica” – il che tuttavia, a ben vedere, sottolinea ancora di più il forte carico economico sulle spalle del sistema produttivo. La cronaca ha mostrato nel passato un’applicazione molto restrittiva da parte tribunali dell’art. 3 della L. 604/1966, tuttora vigente, in cui la possibilità della rescissione del contratto di lavoro da parte dell’impresa per “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, ovvero nel caso del cosiddetto licenziamento per “giustificato motivo oggettivo”, era stata ammessa solo per le aziende in difficoltà economica sostenuta da adeguata prova ma non in genere per le altre, in particolare per quelle che perseguono razionalizzazioni organizzative e di produzione.

Oltre a un progressivo ammorbidimento della giurisprudenza negli ultimi tempi è intervenuto infine il Jobs Act nel 2015 con l’introduzione del “contratto di lavoro a tutele crescenti” lasciando l’applicazione dell’art. 18 della L. 300/1970 (Statuto dei lavoratori) ai soli rapporti di lavoro instaurati prima del 7 marzo 2015.  Il risultato è stato nella pratica l’abolizione in prospettiva della reintegrazione nel posto di lavoro a favore di un indennizzo crescente in ragione dell’anzianità aziendale.

Per rispondere a coloro che chiedono il ripristino della situazione precedente – o tout-court l’abolizione del Jobs Act – è bene preliminarmente dare un’occhiata alla situazione negli altri paesi europei. Premettendo che il meccanismo della buonuscita è di applicazione generale nei casi di licenziamento per motivi economici dell’impresa, questo è anche il caso notevole della Germania in cui per la fattispecie del licenziamento per motivi legati all’impresa (“betriebsbedingte Kündigung” – in cui ricadono, a parte i licenziamenti singoli per cancellazione della posizione, anche le razionalizzazioni operative delle imprese indipendentemente dalla loro situazione economica) non è prevista la reintegra ma un indennizzo economico in ragione principalmente dall’anzianità di servizio (“Abfindung”). In tale quadro il datore di lavoro è sottoposto peraltro ad alcuni obblighi notevoli tra cui la produzione di una decisione formale e motivata così come l’approntamento di un “piano sociale” (Sozialplan) nel caso di licenziamenti collettivi e il rispetto di determinati criteri sociali, in particolare nel caso di selezioni da operare tra i dipendenti, nonché, come in Italia, l’impossibilità dell’impiego in altre funzioni nell’impresa delle persone soggette al licenziamento.  

Per quanto riguarda invece un confronto dell’importo dell’indennizzo al lordo di imposte e contributi, quanto offerto in Italia è superiore ai livelli previsti dalle leggi dei principali paesi europei come mostra il seguente grafico (fonte: F. Teoldi, “L’indennità di licenziamento nei paesi europei maggiori” 2017, sito P. Ichino – i dati italiani sono da rettificare in aumento dopo le modifiche del Decreto Dignità del 2018 che hanno portato a 36 il massimo delle mensilità e a 6 il loro minimo). Tale confronto è ancora più favorevole se si tiene conto della ampia discrezionalità, fondamentalmente sconosciuta altrove, data in Italia al giudice nel fissare il numero delle mensilità a favore della persona licenziata.

Corrige! – dal 2018 in Italia: aumento del massimo e del minimo delle mensilità a 36 e 6 rispettivamente

La ragione per la quale si è optato nei vari paesi per la soluzione dell’indennizzo è facile da vedere: è fondamentale non impedire la trasformazione e razionalizzazione del sistema produttivo a difesa della sua concorrenzialità ed espansione nel tempo proteggendo nel contempo la situazione economica dei dipendenti in caso di ridondanze. Ciò vale in particolare nelle fasi economiche come l’attuale che richiede, nel volgere di un tempo particolarmente breve, una massiccia trasformazione verso un’economia sostenibile ecologicamente e più digitale. Tale processo sarà particolarmente arduo per i paesi come il nostro dove il livello degli investimenti è particolarmente basso così come il tasso di occupazione e dove l’attività economica è polverizzata in un numero molto alto di piccole imprese chiuse in una situazione di produttività modesta e incapaci troppo spesso di espandersi, anche per limitazioni alla qualità della stessa cultura imprenditoriale oltre a ostacoli endogeni di vario genere dell’economia la cui lista è lunga.

Non vi è qui lo spazio per una indicazione precisa delle conseguenze per l’economia italiana della passata applicazione dell’art.18 e delle prospettive per una sua reintroduzione. Ma si può dire che essa ha sostanzialmente contribuito nel passato, al di là del fattore in sé positivo della protezione di posti di lavoro, alla riduzione della dinamica delle imprese e, con esse, dell’economia italiana.

La domanda chiave non è di natura giuridica nel senso dell’applicazione stretta di diritti considerati come acquisiti indipendentemente dalle conseguenze economiche che in ogni caso si ripercuotono sulla condizione economica del lavoratore stesso come l’Italia ha potuto constatare per esperienza diretta, ma di natura pragmatica, ovvero in che termini sia possibile l’evoluzione del sistema produttivo in presenza di un adeguata protezione del lavoratore dipendente.

La strada da seguire sulla base delle osservazioni fatte non può che essere quella del rafforzamento della protezione economica e sociale dei lavoratori nel quadro di una flexicurity estesa. Si tratta di adottare un approccio volto al futuro e alla creazione di nuovi sviluppi economici e non al passato nel mantenimento di posti di lavoro diseconomici che di per sé sono precari. Gli sforzi vanno indirizzati verso una ridefinizione del sistema della previdenza sociale in un quadro organico che implica anche una riforma del sistema pensionistico. 

È difficile qui sopravvalutare la necessità, in concomitanza con l’introduzione di un salario minimo, della realizzazione di un reddito di cittadinanza (non nel senso di una sua universalità) efficace e provvisto della seconda gamba di una politica attiva del lavoro degna del nome. È inoltre da realizzare un’istituzionalizzazione secondo la Costituzione degli organismi di rappresentanza dei lavoratori a migliore protezione dei loro interessi e una più efficace organizzazione dei loro rapporti con la proprietà. Altro discorso, per la stabilizzazione dei buoni posti di lavoro, è da dedicare alla più decisa difesa e promozione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato rendendoli economicamente più vantaggiosi per l’imprenditore rispetto ad altre strutture contrattuali.

Se quanto detto significa che la strada non dovrebbe passare attraverso una reintroduzione dell’art.18, rimane tuttavia sempre aperta ogni discussione sulla perfettibilità degli obblighi del datore di lavoro, ad esempio in senso tedesco.  




Comunicato di condanna nei confronti del Ministro Valditara per le dichiarazioni a proposito dell’attacco fascista a Firenze del 18 febbraio 2023

Il Circolo PD Berlino e Brandeburgo, essendo venuto a conoscenza della reazione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, in data 23 febbraio 2023 alla lettera della preside del liceo Da Vinci di Firenze Annalisa Savino sull’indifferenza come causa scatenante del fascismo in Italia, relativamente ad un’aggressione di matrice fascista avvenuta di fronte al liceo classico Michelangiolo di Firenze  in data 18 febbraio 2023, esprime la sua più sentita solidarietà alla dirigente scolastica e la più ferma condanna all’atteggiamento del ministro.

Sminuire la portata delle aggressioni fasciste in Italia spiana la strada alla legittimazione delle stesse. Minacciare ritorsioni per una pubblica presa di posizione antifascista della preside Annalisa Savino, peraltro in linea con l’orientamento repubblicano e antifascista della Repubblica Italiana, ci sconcerta. In modo particolare l’affermazione per cui potrebbero esserci provvedimenti disciplinari. Ribadendo che è tra i principali compiti della scuola e dei suoi singoli insegnanti istruire giovani italiane e italiani sul passato del nostro paese e in particolare sulle scelleratezze fasciste ricordiamo che il ministero ha pensato che sia opportuno tacere fino ad oggi sui fatti fiorentini.

Il governo dica se questa è la visione che ha di società, di scuola e di civile convivenza.

Nell’auspicio che l’attuale fase costituente del Partito Democratico riporti energie fresche per costituire un’opposizione valida e alternativa a questo governo, chiediamo al Ministero dell’Istruzione di ritirare le affermazioni fatte e rispettare l’articolo 33 della nostra costituzione che prevede la libertà d’insegnamento nonché di pronunciarsi finalmente senza ulteriore ritardo in merito all’assalto  di fronte al liceo Michelangiolo, ricordandosi fra l’altro che l’apologia del fascismo è reato nel nostro paese come in Germania.




Comunicato sulle primarie 2023 – seggio a Berlino

In occasione delle primarie del Partito Democratico 2023 previste per domenica 26 febbraio 2023, anche da Berlino si potrà votare fisicamente nel seggio previsto e organizzato dalla sezione locale del PD. L’appuntamento è dalle 10:00 alle 20:00 alla Willy Brandt Haus, Bürgerbüro, ingresso laterale in Wilhelmstraße 140, 10963 Berlino (U1 U6 Hallesches Tor o U7 Möckernbrücke). Così continua la tradizione inaugurata nel 2012 con la costituzione del gruppo locale rivolto ad italiane e italiani residenti a Berlino e a Brandeburgo. Anche turiste e turisti italiani in visita nella capitale tedesca potranno recarsi al seggio, mostrando un documento d’identità. L’iniziativa è finanziata con un contributo di 2,00 euro a votante ma è gratis per chi risulta iscritto al partito nell’anno in corso.




PD: è l’ora di un programma, i manifesti sono una sua anticamera

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Immagine: Enrico de Nicola appone la firma alla nuova Costituzione italiana – 27.12.1947

“Dobbiamo avere la coscienza dell’unica forza di cui disponiamo: della nostra infrangibile unione. Con essa potremo superare le gigantesche difficoltà che s’ergono dinnanzi a noi; senza di essa precipiteremo nell’abisso per non risollevarci mai più.” Discorso di insediamento a Capo provvisorio dello Stato italiano – 15.07.1946

Una settimana fa circa il PD ha presentato il suo nuovo Manifesto dei valori. Molti si sono chiesti se questo sia quello di cui il partito ha principalmente bisogno in questo momento. La risposta è ni.

Se si considera che il precedente Manifesto dei valori era ancora quello del 2008 allorché si fondò il partito, appare logico procedere almeno a un inventario e a una riscrittura là dove essa viene imposta dai nuovi tempi dopo che molto è passato sotto i ponti. Se si tiene inoltre anche conto del fatto che la scrittura del precedente Manifesto era stata tenuta particolarmente alta delegando la specificazione di obiettivi concreti a “piattaforme politico-programmatiche che affinino il chi siamo come conseguenza del cosa vogliamo” e che tale intenzione è stata fondamentalmente disattesa in tutti questi anni non può essere errato procedere a una nuova stesura. Ciò non vuol dire tuttavia che non sarebbe stato preferibile invertire l’ordine delle azioni: prima l’urgente sostituzione della dirigenza dopo la sconfitta elettorale e poi la riformulazione di manifesti e programmi promossi da una nuova segreteria. Non appare logico assegnare la gestione di un tale esercizio a chi è in uscita quando dovrebbe rappresentare il marchio del nuovo sulla base di una discussione che coinvolga tutto il partito.

Per alcuni, tuttavia, l’esercizio indirizzato a una “rifondazione” deve apparentemente avere come fine, anche attraverso l’eterna ricerca di una cosiddetta identità che è sfuggente perché soggetta al lavorio del tempo, il ristabilimento di antichi valori che sembrano persi e che si attribuiscono soprattutto a una delle tre anime che dettero originariamente vita al PD. Ci si rifà allora, tra l’altro, all’art. 1 della Costituzione dimenticando, diversamente da altri, che la sua formulazione nel punto rilevante fu il risultato di un compromesso proposto da Amintore Fanfani, un democristiano. Basso e Amendola proponevano invece che la Repubblica fosse quella “democratica dei lavoratori”, i quali, dati i tempi di allora, non si intendevano fondamentalmente includere gli indipendenti, che ben rientrano nelle statistiche ILO comprendendo anche gli imprenditori quali occupati di sé stessi. Ruini, Presidente della Commissione dei 75, disse infatti nella sua Relazione finale che lavoro è il “lavoro di tutti, non solo manuale ma in ogni sua espressione umana”. Se la redazione del nuovo Manifesto avesse dovuto tradursi, come non mi sembra sia avvenuto, in una ricerca volta al passato, essa non sarebbe stata produttiva politicamente se non nel riaffermare principi. Non può quindi essere questo quello di cui il partito ha più bisogno, pena inoltre una sua ulteriore riduzione numerica, ma la ricerca di una migliore e chiara definizione della sua collocazione politica concreta guardando in avanti verso il futuro, ovvero un programma.

Non avendo lo spazio per un confronto dettagliato tra i due Manifesti e premettendo che non risulta facile ai non addetti spiegare il perché della mancata conferma della funzione del partito stabilita alla sua fondazione quale punto di incontro dei progressisti indipendentemente dalla loro origine ideologica, si possono richiamare brevemente i punti di novità lasciando da parte senza negarne l’importanza tutti gli altri temi che sono sostanzialmente riconfermati sotto altra formulazione rispetto al testo precedente.

A parte lo stile molto differente, occorre segnalare una minore distanza dalle tematiche concrete senza che si entri peraltro nei particolari di un futuro programma che rimane da affrontare. Siamo appunto ancora in un ambito ideale dei “valori” – che è poi più semplice di quello programmatico perché non obbliga a occuparsi dei contrasti potenziali fra i vari obiettivi che la realtà immancabilmente evidenzia costringendo non solo a priorizzazioni ma anche a loro revisioni. Per tale motivo Annunziata parlava in “Mezzora in più” del 22 gennaio, con una certa provocazione, di un documento non molto utile alle necessità immediate del PD perché insieme di affermazioni di principio.

Nuova, in particolare, è l’assegnazione nel campo dell’economia di un compito più attivo allo Stato, accompagnando il ruolo di regolatore (precedentemente: “Compito dello Stato non è interferire nelle attività economiche ma fissare le regole per il buon funzionamento del mercato, per mantenere la concorrenza anche con politiche di liberalizzazione e per creare condizioni di contesto e di convenienza utili a promuovere innovazione e qualità”) con un “ruolo strategico … che, nel rispetto delle dinamiche di autonomia, concorrenza e innovazione delle imprese nel mercato, può assumere le forme e gli strumenti di volta in volta più utili a garantire che l’economia e i processi di innovazione, anche sociale, siano indirizzati a un benessere condiviso.” Sulle possibili forme e strumenti dell’intervento di uno Stato ora anche “innovatore” si tace però – definizione questa che sarà da affrontare nell’ambito di un piano programmatico.

Si chiama inoltre alla conclusione di un “patto sociale” ponendo inoltre su un piano comune, data la crescente urgenza dei problemi ambientali, “giustizia climatica e giustizia sociale da realizzare simultaneamente” in ciò vedendo forse in modo involontariamante restrittivo la crescita di economia e imprese nella sola ottica di una funzione ecologica e sociale.

Altro tema affrontato in modo, se non nuovo, più esplicito è quello dell’evoluzione dell’UE verso una struttura ora definita dichiaratamente federale attraverso l’accelerazione del suo processo integrativo, senza peraltro accennare al come, propugnando inoltre un piano di difesa militare comune, anch’esso punto di novità rispetto al testo precedente.

Riconoscendo un maggiore realismo e attualità del nuovo Manifesto rispetto al precedente (detto al negativo: minore astrattezza) ma rammentando anche che le passate sconfitte del PD sono state fondamentalmente dovute a una mancanza di chiarezza sui programmi e non sui valori dichiarati è giunta l’ora di un maggiore impegno nel senso anglosassone di uno stretto “commitment” passando a una definizione di punti concreti per futuri programmi di governo.

In attesa della pubblicazione dei programmi dei quattro candidati alla Segreteria nazionale che spero riducano ulteriormente la distanza dalla necessaria concretezza, che gli elettori da tempo si attendono, possono essere avanzate alcune considerazioni.

Premesso che compito centrale di una società sia quello di garantire un’esistenza degna ai propri membri, il primo passo di ogni programma di governo deve essere dedicato alla definizione dell’intervento equilibratore dello stato a favore di chi si ritrova in una situazione svantaggiata. Nelle circostanze attuali si tratta in primo luogo di pronunciarsi per un reddito di cittadinanza ricalibrato nelle sue componenti di sussidio e in cui trovi attuazione una soddisfacente politica attiva del lavoro (con la definizione di obiettivi concreti in termini di riqualificazione e reintegro nel mondo del lavoro) coniugata con l’introduzione di un salario minimo che permetta, fra l’altro, la riduzione della manipolazione delle retribuzioni al fine dell’acquisizione del RdC. Parallelamente, con l’obiettivo di favorire una contrattazione tra datori e dipendenti più efficace ed equa, è necessario prevedere la realizzazione del dettato costituzionale all’art. 39 in materia di sindacati dando loro personalità giuridica e provvedendo a una loro registrazione.

Massima attenzione è da dedicare infine a un’opportuna flessibilizzazione del sistema pensionistico ai fini della sua preservazione attraverso un riequilibrio finanziario e facilitando a chi può e desidera una continuazione in età avanzata della propria attività professionale – questo anche al doppio fine del contemporaneo mantenimento del know-how critico del personale occupato e dell’aumento della popolazione attiva cui si accenna anche oltre.

Sulla base di tali risultanze la politica economica e finanziaria è da definire in modo da conseguire in un determinato arco temporale determinati obiettivi in campo sociale. In tale ambito un ribilanciamento della fiscalità e della contribuzione sociale è da perseguirsi in senso perequativo riguardo alle distribuzioni di reddito e ricchezza che sono attualmente tra le più diseguali in Europa.

Condizione fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi, a parte una ristrutturazione e un rafforzamento dell’amministrazione pubblica, inclusa la giustizia, oggi palesemente inadeguata rispetto alle necessità, è la realizzazione delle condizioni per una maggiore crescita dell’economia e nel contempo di un forte incremento della produttività, requisito per un miglioramento così necessario dei livelli salariali nonché della concorrenzialità dell’economia rompendo un’evoluzione negativa degli ultimi tre decenni. Varie leve dovranno essere usate che portino a una maggiore popolazione attiva, oggi tra le più basse in Europa in particolare tra le donne, e a maggiori investimenti – inclusi quelli dello Stato, anch’essi tra i più bassi in Europa. Ruolo principale dello Stato sarà qui quello di aiutare un’opportuna canalizzazione dei capitali italiani ed esteri, anche attraverso facilitazioni finanziarie, verso i settori più produttivi di ricchezza nel rispetto di criteri ambientali piuttosto che attraverso l’intervento diretto attraverso lo strumento delle partecipazioni pubbliche se non in campi particolari dove criticità consigliano un suo impegno in prima persona. Essendo il nostro paese prevalentemente un compratore e non creatore di proprietà intellettuale occorrerà, con l’assistenza di Stato e privati, dare maggiore impulso alla ricerca avvalendosi anche del supporto da parte delle università da cui sarà da attendere, grazie a un maggiore sostegno finanziario e a un ammodernamento delle loro strutture, una generazione più intensa di laureati, oggi ai minimi europei, e di iniziative imprenditoriali innovative.

Di fronte alla complessità e alla scala degli interventi necessari dopo anni di deriva della società italiana e della sua economia risulta evidente come uno sforzo comune si imponga. Non si tratta solo di dare seguito alle richieste di equità da parte soprattutto della popolazione più svantaggiata economicamente ma anche di creare le condizioni affinché esse siano soddisfatte. Il ruolo di un PD rinnovato dovrebbe essere quello di guidare l’evoluzione senza restringere il proprio impegno a un’attività di appoggio a giuste rivendicazioni ma proponendo soluzioni che riguardino la società italiana nella sua interezza. La ragione che portò alla sua creazione quale incontro dei progressisti di diverso colore rimane quindi più valida che mai e condizione per un suo successo è la definizione di un programma con un chiaro e concreto profilo non dettato dalle considerazioni tattiche del momento.

PAR 26.01.2023




Il piano inclinato del semi-presidenzialismo alla Meloni

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

Sotto varie spoglie e manifestazioni aleggia sempre qui e là.

Dopo essere finita con il suo governo nella palude della legge di bilancio, come i più si attendevano, e avere distribuito alle varie clientele della maggioranza quel poco che c’è, dimostrando una volta di più l’assenza di visioni coerenti nel governo se non quella di protezione di interessi particolari, Meloni indirizza ora i suoi sforzi alle riforme a costo zero – per forza di cose, ma anche perseguendo una strada che possa bullonare una maggioranza di destra per i tempi venturi. Così si ritira fuori dal cassetto la “Proposta di legge costituzionale” del “lontano” giugno 2018 che vede una ridefinizione del ruolo del Presidente della Repubblica: via dalla figura di garanzia e verso una funzione di parte perché appunto votato direttamente da una maggioranza dei cittadini contro una minoranza. In questo lo si dota di nuovi attributi che permettono una sua primazia sul Presidente del Consiglio, ribattezzato Primo ministro e sminuito nel suo ruolo. I paladini di FdI mostrano tutta la corda del loro ragionamento accusando Mattarella di non essere imparziale per poi concepire un’architettura delle istituzioni dove il Presidente della Repubblica non lo è per definizione. Ovvero: se si riceve l’investitura dal popolo l’imparzialità di una carica a garanzia della democrazia diventa un accessorio di cui si può fare a meno.

Il nuovo art. 95 designa il Presidente alla “direzione della politica generale del Governo” sostituendosi in questa responsabilità al Primo ministro che ora, in posizione di subordine, “concorre” solamente nella promozione e coordinamento dell’attività dei ministri. Nel suo nuovo ruolo il Presidente continua ad avere la facoltà di sciogliere le Camere (con l’eccezione dei primi 12 mesi dalle elezioni politiche – nuovo art. 88). Ciò potrebbe in particolare occorrere qualora esse ardissero di mettergli davanti un Primo ministro sgradito. Da notare anche, per comprende la portata delle modifiche in programma, che il Presidente può (nuovo art. 89) promulgare così come rinviare leggi senza la controfirma del Primo ministro ora invece necessaria per ogni atto legislativo. Avremmo quindi in un prossimo futuro, se la riforma caldeggiata da FdI dovesse passare, non una sola istituzione in un panino, quella del Parlamento come sostiene Zagrebelsky (La Repubblica, 6 agosto 2022), ma due perché possiamo vedere nel ruolo del salame anche un Primo ministro condizionato da tutte le parti – pure da un Parlamento in cui il Presidente potrebbe cercare di formare una maggioranza alternativa. Chiave di volta del tutto è infine l’impossibilità per chiunque di sfiduciare il Presidente durante tutto il suo mandato non essendo previsto neanche lo strumento della messa in stato d’accusa (impeachment).

Gratta gratta, tutto può andare a finire nella creazione di un nuovo uomo del destino, magari con l’aiuto dall’introduzione di una nuova legge elettorale favorita da un assetto istituzionale più compiacente rispetto a quello attuale e fatta su misura senza il bisogno di precedenti marce sulla capitale e di aiuti da parte di regnanti. Sarebbe un’altra versione di una democrazia che uccide sé stessa.

Come facilmente si può vedere la Proposta di FdI è configurabile come un primo tassello verso un governo autoritario ove i FdI si immaginano fantasiosamente, come detto nell’introduzione alle modifiche di legge, di “regalare (sic!) a una nazione che ha bisogno di stabilità, ma anche di passare da una « democrazia interloquente » a una « democrazia decidente ».“ Non è una necessità che finisca così, ma si deve dire che ci sono gli elementi dato che anche non ci troviamo davanti a una riformulazione organica di tutta la seconda parte della Costituzione, come richiama Cassese, che è necessaria per la creazione dei pesi e contrappesi propri del presidenzialismo a protezione del sistema democratico.

Se la storia mostra il presidenzialismo non conduce di per sé all’autoritarismo si può però dire che esso si è prestato nel passato a tali evoluzioni, come ad esempio hanno dimostrato le vicende del Sud America. Occorre anche aggiungere che alla base dei piani di FdI c’è l’intenzione manifesta di rompere, coerentemente con la loro ideologia, con la democrazia parlamentare e rappresentativa misconoscendo a questa le qualità che l’hanno contraddistinta nella storia rispetto a tutte le altre forme di governo e pronunciandosi a favore di ipotesi decisamente decisioniste nello spirito. E come la dittatura aspira al riconoscimento della sua legittimità costruendola con il richiamo a una finta volontà popolare truccata in tutti i modi, dall’antichità fino ai regimi fascisti e comunisti recenti, così anche, nel suo piccolo, FdI racconta la frottola del “Presidente votato dagli italiani, legittimato dagli italiani e che risponde del proprio operato solo di fronte ai suoi elettori” quando questi si pronuncerebbero solo una volta ogni cinque anni e non si sa sotto quali circostanze a tendere. Quale possa essere il loro modello di ispirazione salta fuori se si legge fra le righe, in un modo critico, quello che scrivono quando si richiamano a “una riforma che affonda certamente le proprie radici nella storia della nostra nazione”. Ma in quale parte della storia? La matrice culturale tradisce la vera natura delle persone, malgrado quello che esse professano ufficialmente, per convinzione o comodità e alibi. Lo spirito degli “antenati (vedi sopra foto) continua ad aleggiare qui e là.

È vero che vari costituzionalisti, che FdI cita numerosi nella sua Proposta appropriandosene subdolamente e falsamente inserendo anche un dubbio Pacciardi (coinvolto nell’affare del golpe bianco), abbiano avuto simpatie per il presidenzialismo (come Calamandrei per quello degli Stati Uniti). Ma le statistiche della storia non sono favorevoli al presidenzialismo. A dimostrazione riporto qui di seguito una tabella che per quanto degli anni novanta è tuttora valida e in cui si mostra come il presidenzialismo sia animale raro e limitato a pochi paesi. Nel caso di quelli occidentali questi hanno per lo più fatto la loro scelta presidenzialista o precedentemente allo sviluppo del parlamentarismo di democrazia rappresentativa come gli USA o in situazioni molto particolari come la Francia (in questo caso un semipresidenzialismo con la famosa “coabitazione” tra Presidente e Primo ministro) al tempo drammatico per il paese della “sal guerre” d’Algeria e di un uomo particolare come De Gaulle, politico attratto dal cesarismo.

Juan Linz, studioso riconosciuto dell’autoritarismo e professore emerito al termine della sua carriera alla Yale University, diceva (“The perils of Presidentialism”, The Journal of Democracy, 1990): „La prestazione storica superiore delle democrazie parlamentari non è casuale”.

 Fonte: S. Mainwairing, M. Shugart “Juan Linz, presidentialism and democracy: a critical appraisal”, 1993