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Uno sguardo più ampio al contesto dei referendum di giugno sul Jobs Act

Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo

A circa tre settimane dai referendum del prossimo giugno mi appare utile dare uno sguardo ad alcuni fatti e dati concreti che rimangono in generale trascurati in una discussione che si svolge di preferenza sul piano di principi con particolare attenzione alla loro declinazione in ambito giuridico, piano che non aiuta necessariamente a proporre soluzioni materialmente efficaci ai numerosi problemi aperti. L’obiettivo non è qui quello di esprimere giudizi pro o contro i referendum, ma di cercare più da vicino di definire il quadro generale in cui essi siano da collocare aiutando la decisione di ognuno nell’esprimere il proprio voto.

Non sono in pochi a ritenere che un sì ai referendum abrogativi sul Jobs Act non cambie-rebbe radicalmente la situazione attuale. Se guardiamo ai primi due, in particolare, si ritornerebbe alla legge Fornero riguardo al trattamento dei licenziamenti illegittimi (con una riduzione tra l’altro del massimo indennizzo da 36 mensilità, introdotti col Decreto Dignità, agli originali 24), una legge che già rappresentò un’anticamera al Jobs Act cancellando la reintegra nella gran parte dei casi. Da questo punto di vista si fa fatica a vedere in prospettiva “un cambio di sistema” come Landini ha nuovamente prospettato in una sua recente intervista a Telenord se non ipotizzando che un successo dei referendum significherebbe l’inizio di un processo di ulteriori richieste. Sappiamo, d’altro canto, dagli incontri con il Prof. Focareta che la lista di quesiti per un referendum era assai lunga e che solo quattro sono stati scelti. Tuttavia la campagna referendaria non offre purtroppo molti spunti al fine di individuare con precisione sviluppi futuri che possono essere solo proiettati in base a vicende e discussioni passate senza potere considerare eventuali mutamenti di posizione.

Il diritto del lavoro italiano è un sistema complicato, carico di regole tra loro contraddittorie, frutto di sedimentazioni legislative e di giurisprudenza di più di cinquanta anni, che aspetterebbe una opportuna sistemazione. Già nell’ormai lontano giugno del 1985, a quindici anni dall’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, Luigi Mengoni, giuslavorista fuori da ogni sospetto e allora Vicepresidente della Corte Costituzionale, scriveva in una, per molti versi tuttora attuale, “Relazione sulla revisione della legislazione sul rapporto di lavoro” del CNEL con riferimento a un giudizio di Gino Giugni che fu persona ancora meno sospetta: “A causa di tale stratificazione, che è stata definita «alluvionale» (Giugni), la disciplina dei rapporti di lavoro ha perduto la coerenza sistematica con un modello unitario, e denuncia in misura crescente momenti di irrazionalità, antinomie di valori, costi sproporzionati ai benefici.” È bene qui ricordare che tale Relazione fu frutto del lavoro di una commissione presieduta da Piero Boni (CGIL), con Luciano Lama (CGIL) e Giorgio Benvenuto (UIL) tra i firmatari, e quindi di esponenti non appartenenti al campo conservatore. Da allora, in seguito a numerosi interventi, non solo legislativi ma anche della giurisprudenza, la situazione è divenuta ancora più complessa.

È utile ricordare qui per inciso che la visione carente di prospettiva storica e di proiezione verso il futuro caratterizzante l’approccio dei promotori della campagna referendaria ha visto la dissociazione della Cisl dall’iniziativa.[1] La sua segretaria, Daniela Fumarola, ha sostenuto in modo significativo in una recente intervista al Corriere della Sera: “Con questi referendum si continua a guardare al futuro con lo specchietto retrovisore, ma il mondo del lavoro è cambiato e servono tutele nuove. Il referendum è sbagliato nel merito…”, contestando anche la scelta dello strumento del referendum là dove, per le ragioni sopra accennate, sarebbe preferibile a suo avviso cercare la strada dell’approccio propositivo organico.

Non essendo questo, per esigenze di brevità, il contesto adatto per un’analisi delle politiche del lavoro, le considerazioni seguenti saranno rivolte principalmente ai primi due quesiti referendari che riguardano il meccanismo delle tutele crescenti, bersaglio principale dell’iniziativa, con accenni agli altri due.

L’accusa principale al principio delle tutele crescenti, che implica un ricorso di regola all’indennizzo a risarcimento del danno arrecato qualora il licenziamento non sia dichiarato nullo, è quella di portare a un sostanziale indebolimento dei diritti del dipendente e quindi di rendere più precario il suo impiego. Tale aspetto rappresenta inoltre una restrizione della sua libertà.

Se si getta innanzitutto uno sguardo ad alcuni dati statistici per avere un primo dato sugli effetti concreti del Jobs Act non si trova per contro molta evidenza di una accentuazione della precarietà del lavoro – ciò vale anche in una comparazione con altri paesi europei considerati in genere più attenti storicamente agli interessi del lavoro.

Innanzitutto i licenziamenti non hanno evidenziato gli incrementi che alcuni si sarebbero attesi: la loro statistica mostra una riduzione in termini assoluti (da 624mila nel 2015 a 507mila nel 2023) e del loro rapporto percentuale sul numero dei contratti di lavoro in essere. Come il grafico seguente mostra, tale rapporto evidenzia nel 2023 valori inferiori di più di un quarto rispetto al picco del 2016 – i dati del biennio 2020-21 sono anomali perché influenzati da provvedimenti straordinari al tempo della pandemia.

Anche l’andamento del numero dei contratti a tempo indeterminato non conferma un aumento della precarizzazione. Essi infatti hanno visto nello scorso decennio un consistente incremento sia in termini assoluti sia in termini percentuali sul numero degli occupati anche dopo la fine delle facilitazioni contributive straordinarie concesse dalle Leggi di Stabilità nel primo biennio dall’introduzione del Jobs Act e con una sensibile accelerazione a partire dal 2021.

I rapporti a tempo determinato presentano anch’essi dall’introduzione del Jobs Act una crescita come mostra il grafico seguente, con un’autentica esplosione nel triennio 2017-19. A partire da tale data tuttavia, probabile riflesso della maggiore accettazione dei contratti a tempo indeterminato l’ indice del loro numero in essere (su base 2014 = 100) si è ridotto in modo consistente a partire dal 2019, ovvero da 132,8 a 114,5 negli ultimi cinque anni riducendosi a un livello quasi pari a quello dei contratti a tempo indeterminato.

La diminuzione nello stesso decennio dell’8% circa del numero dei lavoratori autonomi, mentre il totale degli occupati è cresciuto di circa il 7%, è da considerarsi un ulteriore indice di riduzione della precarietà.

Sebbene la quota dei contratti a tempo determinato sul totale dei contratti si ritrovi a un livello vicino a quello della media dei paesi UE (nel 2014: 11,9% contro 11,0%; vedi grafico seguente) la sua particolare elevatezza presso le fasce dei più giovani (parte superiore del grafico) rappresenta un valido argomento a favore di un sì al terzo quesito referendario che chiede maggiori limitazioni all’utilizzo del contratto a tempo determinato, similmente a quanto avviene ad esempio in Svezia. Tuttavia, considerando che i dati svedesi sono costanti e non dissimili da quelli italiani occorrerà probabilmente, come la Spagna mostra con il suo successo nel ridurre del 25% l’incidenza della quota presso le leve giovani di lavoratori dipendenti, accompagnare la misura di legge con l’introduzione di ulteriori provvedimenti.

Questi risultati non possono sorprendere poiché la precarietà non dipende solo dagli aspetti giuridici della posizione del dipendente come appare essere invece il pensiero dei promotori dei referendum che concentrano la propria argomentazione in una declinazione di provvedimenti di legge che discende dall’esistenza di un diritto al lavoro – che ben pochi negano – , e ove considerazioni di carattere economico hanno scarso peso. In realtà una molteplicità di fattori incide sulla precarietà a cominciare dalla condizione e la dinamica dell’economia, la solidità delle imprese (tra cui: la capacità di crescere e generare utili), il livello dei salari – questi principalmente dipendenti dalla produttività e meno da contrattazioni come insegna Keynes -, la comunicabilità dei bacini di occupazione, la forza della rappresentanza sindacale, la capacità di composizione dei contrasti nei rapporti lavorativi, l’efficienza del sistema giudiziario e vari altri ancora tra cui, particolarmente importante, l’efficacia degli strumenti di riqualifica e ricollocazione del lavoratore in caso di bisogno, uno dei talloni di Achille dell’economia italiana. 

Se diamo un rapido sguardo alla situazione in alcuni paesi europei di diritto romano le soluzioni adottate, che probabilmente non appariranno coerenti ai promotori dei referendum con i propri principi di giustizia nel mondo del lavoro, vanno spiegate con la necessità di trovare un equilibrio tra esigenze, almeno in parte, contrastanti e il raggiungimento nella pratica di risultati equilibrati e soddisfacenti per tutte le controparti interessate. In particolare si cerca attraverso il risarcimento del danno di trovare un equilibrio tra l’interesse della libera impresa e quello che consegue dal diritto al lavoro (rispettivamente, artt. 41 e 4 della Costituzione).

Coerentemente, a livello UE, la Carta sociale europea all’art. 24 ai commi a. e b. prescrive per i casi di licenziamento illegittimo il rispetto dei seguenti diritti: 

“a.  Il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio.
b.  Il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione.”

La tabella allegata offre un quadro sintetico (senza la pretesa di completezza) di quanto praticato nei quattro paesi più importanti dell’Unione (a parte l’Italia) con l’inclusione della Svizzera in quanto caso notevole.

Nei quattro paesi UE lo schema, applicato con modalità differenti a seconda del proprio sistema di leggi, può essere sintetizzato nel modo seguente in termini di “risultato” a valle di una generale distinzione tra motivi disciplinari, motivi attinenti la persona (es. malattia, contrasto, prestazione insufficiente) e motivi economici (tra cui, oltre ai casi di difficoltà economica, riorganizzazioni e razionalizzazioni – quest’ultimo punto particolarmente importante, come spiegato oltre)

  • Reintegrazione del dipendente nei casi di nullità o di annullamento del licenziamento (tra cui: per insussistenza del fatto, discriminazione, vessazione e altre lesioni di diritti; répechage)
  • Altri casi illegittimi: indennità sulla base di tutele crescenti (fattore tra i principali se non il principale: anzianità di servizio)
  • Nel caso di mancanza grave nessuna indennità è dovuta.

Il dl n. 23 del 4 marzo 2015, di cui si chiede nel primo referendum l’abolizione, risponde sostanzialmente a tale schema:

Art. 2   Reintegrazione in caso di nullità (per discriminazione secondo l’art. 15 della legge n. 300/1970 o per altri casi di nullità previsti dalla legge).
Il lavoratore può concordare indennità su sua richiesta.

Art. 3   Pagamento di indennità nel caso in cui “non ricorrano gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa”.
Nullità “nel caso di insussistenza del fatto materiale contestato” nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa.

Art. 4   Vizi formali o procedurali: indennità

Art. 6   Possibilità di conciliazione stragiudiziale contro buonuscita

Considerazioni di opportunità sono alla base della scelta per una soluzione di indennizzo nel caso di licenziamento illegittimo. Se per il datore di lavoro il vantaggio risiede nella rapidità e maggiore certezza del procedimento legale contro uno scotto economico in caso di fallo o di necessità economica, anche il dipendente evita i rischi, sovente notevoli, connessi all’incertezza dell’esito e la lunga durata dei procedimenti giudiziali che comportano notevoli costi oltre a una perdita progressiva di valore delle proprie capacità professionali sul mercato con il trascorrere del tempo. Tali rischi sono particolarmente elevati in Italia dove i tempi necessari nelle cause di lavoro sono tuttora particolarmente elevati malgrado gli apprezzabili miglioramenti registrati negli ultimi anni (i casi pendenti in materia di lavoro si sono ridotti nel periodo 2014-2024 da 630mila a 314mila secondo le statistiche del Ministero di Giustizia). Ad aumentare l’alea esistono sensibili differenze nella produttività fortemente variabile dei singoli giudici all’interno di forti differenze nelle prestazioni dei diversi distretti giudiziari.[2]

A questo proposito si può osservare che gli alti costi legati anche a un solo licenziamento individuale nonché le limitate risorse operative di una piccola impresa sono la spiegazione principale dell’esenzione dall’applicazione per le aziende che hanno fino a 15 dipendenti. Anche in altri paesi vigono inoltre disposizioni simili (ad esempio in Germania e Francia ma non in Svezia) a dimostrazione che la problematica è pertinente e apparentemente non affrontabile con un semplice atto di abolizione come proposto dal secondo quesito referendario. È indubbio che il Jobs Act stesso e la maggiore efficienza del sistema giudiziario abbiano ridotto i rischi per le imprese ma solo una riconsiderazione organica del tema tra tutte le parti interessate può permettere di evitare un passo che potrebbe rivelarsi tanto più dannoso quanto più ridotta è la dimensione dell’impresa.

Prestando nuovamente un’attenzione particolare agli aspetti socio-economici occorre ricordare, sulla scorta del fatto che i casi di licenziamento disciplinare sono un’assoluta minoranza rispetto a quelli per motivi economici (17,8 % del totale nel 2024 secondo l’INPS) e a conferma dell’importanza del ruolo della giurisprudenza in questi anni, che l’accanito dibattito sulla definizione dell’illegittimità dei licenziamento per motivo economico oggettivo ha avuto una svolta nel 2016 – quindi immediatamente dopo il Jobs Act – in seguito alla sentenza della Corte Suprema di Cassazione n. 25201/16 in cui si affermava la legittimità di licenziamenti avvenuti a seguito di decisioni aziendali di razionalizzazione nel rispetto dell’art. 41 della Costituzione sulla libertà d’impresa. Tale sentenza è venuta a modificare l’interpretazione prevalente successivamente a sentenze di tenore diverso della stessa Corte di Cassazione che richiedevano la sussistenza di un andamento economico negativo o di spese straordinarie ai fini del riconoscimento della legittimità.[3]

È difficile sopravvalutare il significato della sentenza n. 25201/16 – non solo in considerazione di un adeguamento più che urgente alla legislazione in materia quasi unanime in campo europeo ma anche per il fatto che la nostra economia, come tutte le altre, si trova in una fase di profonda trasformazione che obbliga a nuovi e diversi impieghi dei fattori di produzione. Un paese come l’Italia, già in ritardo tecnologico e afflitto da bassi investimenti e bassa produttività, si trova più di altri sul banco di prova. Non sono inoltre pochi coloro che considerano la precedente interpretazione di legge in senso restrittivo una delle cause del prevalere nel nostro paese delle micro e piccole imprese, una delle ragioni di declino della sua concorrenzialità in molti settori economici in campo internazionale.

Tenendo presente che la sentenza della Cassazione sopra ricordata non è avvenuta a sua maggiore validazione da parte delle Sezioni Unite né esiste in merito una sentenza della Corte Costituzionale, e che l’opposizione è tuttora molto viva presso in parte della magistratura che nega la legittimità a misure d’impresa la cui motivazione viene vista come diretta al puro accrescimento del profitto e pertanto illegittime perché mosse dall’interesse esclusivamente personale dell’imprenditore –  occorrerebbe che nel dibattito attuale si trovasse un punto di incontro tra tutte le parti sociali, indipendentemente dall’esito dei referendum di giugno. Vanno evitati errori del passato, tra i quali hanno figurato nel nostro passato una fondamentale mancanza di attenzione alla riqualifica e ricollocazione delle risorse umane e un eccessivo scaricamento di costi sociali sull’apparato produttivo.

Che a sinistra sia possibile, sempre in modo coerente con i propri obiettivi, vedere le cose sotto la prospettiva della produttività economica del paese mostra un lontano intervento di Luciano Lama, segretario della CGIL nel periodo 1970-1986: “C’è un certo numero di aziende che ha un carico di dipendenti eccessivo. Non si tratta di cifre terribili, ma neppure esigue. Siamo nell’ordine di parecchie decine di migliaia di lavoratori. Ciò crea problemi umani e sociali molto gravi, anche perché in Italia lo sviluppo economico è bloccato e i lavoratori che perdono il posto hanno il fondato timore di non trovarne mai più un altro.” (intervista a Repubblica del gennaio 1978). Il significato di questo intervento che aveva come riferimento specifico la cassa integrazione riguarda pienamente anche il tema delle razionalizzazioni d’impresa. Lama aveva presente che i problemi non possono essere visti in un’ottica a compartimenti distinti ma che occorra vedere la totalità dei fattori in gioco, come rivela questo altro passo importante nella stessa intervista: “La verità è che, alcuni giorni prima nella segreteria della Federazione e poi nel direttivo, abbiamo affrontato un tema di fondo: quello di preparare un vero e proprio programma, una linea di politica sindacale che affrontasse globalmente i problemi del paese in un momento che tutti giudichiamo di gravissima crisi  …non eravamo mai arrivati a redigere un programma vero e proprio che, tra i suoi punti essenziali, avesse anche quelli relativi al comportamento del lavoratori.”

Desidero infine toccare ancora due punti.

In primo: tra gli argomenti a favore dell’abolizione del dl n. 23 i promotori dei referendum, sempre particolarmente attenti agli aspetti giuridici nell’argomentazione, fanno presente la disparità di trattamento tra chi ha un contratto di lavoro concluso antecedentemente al 7 marzo 2015 e chi l’ha di data posteriore. Contro questa obiezione si presenta il quesito come sarebbe stato possibile altrimenti se non stabilendo all’epoca dell’emissione del decreto una sua retroattività. Non volendo modificare l’assetto giuridico dei contratti di lavoro già in essere è evidente che il legislatore abbia preferito, come in innumerevoli altri casi precedenti, cercare una soluzione intermedia potenzialmente di maggiore accettazione.

Il secondo: il quarto quesito del referendum chiede la corresponsabilità dell’impresa appaltante con l’appaltatore in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Il provvedimento ha una sua piena logica ed è condivisibile. Tema aperto è tuttavia come l’appaltante possa esercitare legittimamente un’azione efficacia di controllo sull’appaltante. Si pone quindi un quesito simile a quelli menzionati sopra sulle modalità con le quali si introdurrebbe la responsabilità solidale.

Ringraziando quanti sono riusciti ad arrivare alla fine di questo lungo intervento, desidero sottolineare che il suo scopo era quello di fare presenti aspetti che possono facilmente essere sfuggiti a chi si accinge a votare in giugno. Per tale motivo sono più che volentieri a disposizione per ogni quesito o anche contestazione.

Pierantonio Rumignani – 22.05.2025

ALLEGATO

QUADRO SCHEMATICO DEL SISTEMA DI PROTEZIONE DEL LAVORO IN ALCUNI PAESI EUROPEI SIGNIFICATIVI

Francia   Codice del lavoro Applicabile a tutti i contratti di lavoro Nullità possibile limitatamente a 16 casi specifici definiti dalla legge (in particolare: discriminazione, vessazione). Consegue la reintegraSe licenziamento è ingiustificato (perché causa non “reale” – i.e. esistente e verificabile – e “seria” – i.e. sufficientemente grave): viene corrisposta un’indennità, a meno che entrambe le controparti non siano d’accordo per la reintegrazione su proposta del giudice (L. 1235-3 CDT)Motivo personale: disciplinare (se colpa grave o grave accompa-gnata da intenzionalità: nessuna indennità viene corrisposta), non disciplinare  Motivo economico: conseguente a difficoltà economica, mutamento tecnologico, riorganizzazione, cessazione attività
Soppressione stabile del posto di lavoro è causa “reale e seria”.
Priorità di répechage per un anno dal licenziamento.Importo dell’indennità: ¼ mensilità fino a 10 anni di servizio + 1/3 mensilità per il periodo oltre i 10 anni (cumulativo)
Secondo contratto collettivo o altra convenzione se importo più elevato. 
Germania   KSchG – Legge di tutela in caso di licenziamento Applicazione: settore pubblico (esclusi Beamten) e privato (aziende con 10+ dipendenti)Licenziamento (per ragioni di comportamento, inerenti la persona, motivi economici) nullo se “socialmente non giustificato”Casi disciplinari/personali: reintegrazione in caso di nullità (perché discriminatorio o arbitrario) Indennità in caso di motivi economici (betriebsbedingte Kündigung – inclusa razionalizzazione) – reintegra se selezione erronea o repêchage possibile Rescissione su richiesta di una delle controparti se la prosecuzione rapporto considerata inaccettabile (unzumutbar): indennitàIndennizzo: 1/2 mensilità x anni di servizio, max. 12 mensilità
Età 50+ e 15+ anni di servizio: max 15m.; età 55+ e 20+ anni di servizio: max 18m. – § 10)
Spagna   Legge statuto dei lavoratori Settore privato, ogni dimensione aziendaleSe licenziamento illegittimo (despido improcedente) – e in entrambi i casi: disciplinare o objetivo (economico): cessazione del contratto e indennizzo. 
– 33 gg lavorativi per anno di servizio, max 24 mensilità – se contratto ante 12.02.2012
  altrimenti: 45 gg lavorativi, max 45 mensilità
– se licenziamento legittimo (procedente): 20 gg lavorativi, max 12 mensilitàLicenziamento nullo in caso i.a. di violazione di diritti della persona e discriminazione, vessazione, persone protette (es. gravidanza)
Svezia   LAS – Legge di protezione dell‘impiego Settore pubblico e privato (ogni dimensione aziendale)Cause di licenziamento: “inerenti il dipendente”, economiche (ridondanza, inclusa razionalizzazione)Obbligo di negoziazione (se vale contratto collettivo: intervento del sindacato)Indennità secondo preavviso: 2 – 6 mensilità (LAS § 11) + eventuale risultato negozialeLicenziamento invalido: rescissione e indennizzo (LAS § 39 – 16-32 mensilità su base anzianità di servizio)Bassa conflittualità in Svezia: 400-450 nuove cause/anno, 100-120 sentenze/anno
Svizzera[4]   Codice delle obbligazioni Applicazione universale a tutti i contratti di lavoro (ca. 90% a tempo indeterminato, 8% a tempo determinato)Secondo il principio della libertà contrattuale (§ 336-338 OR): le parti possono recedere dal contratto di lavoro in ogni momento nel rispetto dei termini di preavviso (max: 3 mesi).Disdetta abusiva (missbräuchliche Kündigung): disdetta rimane valida ma dietro indennizzo (fino a 6 mensilità; § 336a)

[1] Questa dissociazione ricorda quella ancora più clamorosa del 1984 che portò alla rottura della “triplice” tra i sindacati maggiori allorché la CGIL decise di procedere con un referendum, poi fallito malgrado un’alta partecipazione del 78% circa, sul provvedimento del governo Craxi di taglio alla scala mobile (decreto San Valentino). Sulla base delle posizioni di allora di Lama, segretario della CGIL (vedi cenno oltre nel testo), alcuni sostennero che fu il PCI a forzare la mano del sindacato. 

[2] Le statistiche giudiziarie di DGStat mostrano nel 2024, secondo la classificazione CEPEJ della UE in materia di statistica giudiziaria e inclusi i procedimenti di appello, un indice di smaltimento (ovvero, clearance rate = numero di casi definiti / numero di nuovi casi ricevuti) × 100) che varia tra 0,6 e 1,4 anni, ove i valori delle sedi maggiori di Milano, Roma, Torino si assestano tutte su una durata di circa un anno indicando una situazione in equilibrio ma non di ulteriore miglioramento. La durata media (DT – disposition time = numero medio di giorni necessari per risolvere i casi pendenti al ritmo con cui i tribunali attualmente operano) varia invece nello stesso anno in modo sensibile tra 132 e 928 giorni (Milano: 322; Torino: 245; Roma: 371) – dato medio non disponibile.
Il dato nazionale medio relativo alla durata media effettiva dei casi conclusi nell’anno 2024, che dà una buona indicazione del peso del backlog in fase di smaltimento per il paese se confrontato con il CT, si colloca su ragguardevoli 2,4 anni (891 giorni).
 

[3] Come recita un passaggio chiave della sentenza: “Non è quindi necessitato che si debba fronteggiare un andamento economico negativo o spese straordinarie e non appare pertanto immeritevole di considerazione l’obiettivo aziendale di salvaguardare la competitività nel settore nel quale si svolge l’attività dell’impresa attraverso le modalità, e quindi la combinazione dei fattori di produzione, ritenute più opportune dal soggetto che ne assume la responsabilità anche in termini di rischio e di conseguenze patrimoniali pregiudizievoli.”

[4] La Svizzera rappresenta un caso notevole poiché i livelli di occupazione sono particolarmente elevati (nel marzo 2025: disoccupazione = 2,8%; tasso di occupazione = 80,2%; in Italia, rispettivamente = 6,0% e 62,8%) malgrado l’assenza di protezioni specifiche del posto di lavoro oltre alla legge ordinaria. In tal senso la situazione in Svizzera può essere paragonata a quella italiana prima dell’introduzione dello Statuto dei lavoratori allorché il Codice civile (in particolare l’art. 218[4]) regolava la possibilità di recesso per entrambi i contraenti senza altra compensazione che quanto dovuto, oltre al TFR,  nel periodo di preavviso.




Congresso di circolo 2025

Il 18 giugno 2025 dalle ore 18:00 alle ore 21:30 è convocato il congresso di circolo presso la sede SPD di Berlino, in Müllerstr. 163 (S+U Wedding) nella Erika-Heß-Saal.